La parola “avventura” è diventata del tutto priva di contenuto e di espressione. La tavola calda all’angolo offre una “avventura nel buon cibo” a prezzi contenuti; in poche settimane un corso di autostima del costo di 13,95 dollari è in grado di trasformare la nostra conversazione quotidiana in una “grande avventura”; fare un giro nella nuova Dodge è una “avventura”. A furia di abusarne, abbiamo logorato il significato abituale del termine “avventura” – “esperienza insolita e stimolante, spesso di tipo romantico” – riducendolo all’accezione originaria di mero “avvenimento” (dal latino adventura e advenire). Mentre, un tempo, un’avventura era “qualcosa che accade in maniera fortuita, per puro caso, accidentalmente”, ora il termine viene comunemente adoperato soprattutto per indicare un’esperienza artificiosa che qualcuno cerca di venderci (Boorstin, D. J., 1987, The image, Vintage Books, New York, pp. 77-78).
Così Daniel Boorstin, nel 1962, commentava, nel suo celebre The image, la trasformazione subita dal termine “avventura”, adoperato all’epoca come esca pubblicitaria per vendere beni e servizi di ogni genere alla fetta più grande possibile di consumatori.
Sebbene siano trascorsi quasi 60 anni dalla pubblicazione di The image, a me sembra che le considerazioni di Boorstin siano più che mai attuali. Con una differenza, però.
Oggi, il termine “avventura” è stato sostituito da un altro termine passepartout: “esperienza”.
Nella contemporaneità, siamo continuamente invitati a “fare esperienza” di un aperitivo o di un caffè; a sperimentare un determinato cibo; a “provare l’esperienza” di guidare una certa marca automobilistica; ad acquistare un armadio perché ci consente un’altra “esperienza dell’abitare”; a fare esperienza di un viaggio, un evento sportivo, musicale ecc. Per la Nutella, infine, “L’esperienza delle mamme è sempre Nutella”.
Esiste addirittura un’intera area del marketing, denominata marketing esperienziale, incentrata “sulla valorizzazione dell’esperienza di consumo del cliente al fine di trasmettere un valore aggiunto connesso con l’acquisto del prodotto”.
Insomma, “esperienza” è l’esca che i persuasori – nemmeno tanto occulti – utilizzano per indurci ad acquistare sempre più beni di consumo.
Per parte mia, ogni volta che sento la parola “esperienza” pronunciata da un venditore, sento un allarme scattare.
Per me, è la prova che qualcuno sta cercando di vendermi qualcosa. Proprio come succedeva ai tempi di Boorstin con la parola “avventura”.