Il più grande merito della vittimologia, la disciplina sorella della criminologia, è certamente quello di aver problematizzato la propensione di senso comune a polarizzare il rapporto reo-vittima, attribuendo al primo tutta la responsabilità dell’atto criminale e alla seconda tutta l’innocenza. Il rapporto tra chi commette il reato e chi lo subisce è più complicato e vede il secondo spesso attivamente coinvolto in esso.
Questa consapevolezza è presente sin dagli esordi della vittimologia.
Uno dei suoi pionieri, Mendelsohn, propose una tipologia vittimologica che prevedeva, accanto alla vittima del tutto innocente (il bambino, ad esempio), la vittima provocatrice e la vittima con altissimo grado di colpa
Un altro esponente di spicco Wolfgang coniò il termine victim precipitation, che indica quei casi in cui la vittima fa precipitare l’azione delittuosa e determina il proprio rischio di vittimizzazione.
Amir parla di “precipitazione in caso di stupro”
quando la vittima effettivamente, oppure è stato presunto, abbia acconsentito al rapporto sessuale ma abbia revocato il proprio consenso prima della sua concreta realizzazione o non abbia reagito in modo sufficientemente deciso quando il rapporto sessuale è stato suggerito o proposto dall’autore del reato. Il termine si applica anche alle situazioni rese rischiose dalla sensualità specialmente quando la vittima usa ciò che potrebbe essere interpretato come linguaggi ed atteggiamenti indecenti, osceni, o ponga in essere ciò che potrebbe essere considerato un invito ad avere un rapporto sessuale (Saponaro, A., 2004, Vittimologia, Giuffrè, Milano p. 141).
Da qui al passaggio al victim blaming (colpevolizzazione della vittima) è un passo. È così che la vittima di un reato diventa completamente o parzialmente responsabile di quanto le è accaduto.
Dobbiamo allo psicologo William Ryan, autore nel 1971 di Blaming the victim, il riconoscimento della tendenza a colpevolizzare la vittima come strategia politica a sostegno di una visione ideologica della realtà. Esaminando il testo di Daniel Patrick Moynihan The Negro Family: The Case for National Action del 1965, in cui l’autore colpevolizzava i poveri per le condizioni in cui versavano, descrivendoli come pigri e ignoranti, più inclini al sussidio di disoccupazione che a trovare un lavoro, Ryan smascherò l’intento di derubricare la povertà come problema sociale e individualizzarne le responsabilità.
Evidentemente, secondo che la povertà sia individuata come un problema sociale o un problema individuale, cambiano completamente le strategie per fronteggiare il problema: nel primo caso, gli interventi dovranno prevedere una riforma profonda, se non radicale, della società (compito estremamente difficile); nel secondo basterà intervenire sull’individuo infingardo, rieducandolo o allontanandolo in qualche modo dalla società civile (marginalizzazione, imprigionamento, istituzionalizzazione ecc.), compito relativamente semplice in quanto non prevede un ripensamento della struttura sociale.
Il victim blaming è utilizzabile anche come tecnica di neutralizzazione per attenuare la responsabilità individuale del colpevole (“È tutta colpa sua!”) o come modalità di conferma dell’idea, connaturata in ognuno di noi, secondo cui il mondo è un posto fondamentalmente giusto e la vittima di un reato “deve” aver fatto qualcosa per aver attirato il reato su di sé. Si tratta della “teoria del mondo giusto” di Melvin J. Lerner secondo la quale l’equilibrio sociocognitivo delle persone è governato dall’illusione che il mondo sia un posto dove le persone buone vengono ricompensate e le persone cattive punite. Dal momento che la smentita di tale illusione sarebbe estremamente destrutturante, è preferibile dare la colpa alla vittima per quello che le è successo, salvaguardando la stabilità della propria visione del mondo.
Mentre alcune forme di victim blaming funzionano senza troppi problemi, altre sono ormai profondamente contestate, circostanza che ci fa capire come, ai fini della buona riuscita di questo meccanismo, intervengano elementi di natura culturale e sociale che orientano il giudizio in maniera preminente.
Pensiamo allo stupro e al furto. Nel primo caso il victim blaming è ormai fortemente riprovato anche per l’impatto culturale dei vari femminismi nel corso del tempo. Nel secondo, invece, è frequentemente praticato, talvolta dagli stessi criminologi. Per esempio, la persona che passeggia indossando dei gioielli di valore o che parcheggia l’automobile lasciandola aperta, in una società dove il furto è diffuso, viene spesso tacciata di essere “stupida” o “irresponsabile”. In non pochi casi, si commenta il furto con un “gli/le sta bene”, quasi dimenticando che il furto è un reato e che dovrebbe ricadere sul ladro la colpa della sua commissione.
Al contrario, quasi nessuno più incolpa una donna perché, al momento della violenza sessuale, indossava una minigonna, e, se lo fa, riceve critiche molto severe. Siamo lontani dalla cultura dell’onore e della subalternità femminile, anche se resistono sacche di retroguardia, di cui si parla solitamente in occasione dei cosiddetti femminicidi. Il victim blaming è dunque fortemente selettivo e dipende da fattori culturali, sociali, politici, che potrebbero anche variare nei prossimi anni, come sono variati in passato.