Tendiamo a pensare che il turpiloquio come invettiva e arma politica per offendere l’avversario sia appannaggio della contemporaneità. Crediamo che la Lega nord, il berlusconismo e il grillismo dei nostri giorni abbiano utilizzato la contumelia in maniera innovativa rispetto al passato, quando invece la competizione politica si sarebbe mantenuta lungo binari civili e rispettosi dell’avversario. Non è così. Antesignano delle attuali retoriche politiche fu il movimento dell’Uomo qualunque fondato dal giornalista e commediografo Guglielmo Giannini che, per qualche anno dopo la fine della Seconda guerra mondiale, ottenne un certo numero di consensi, contribuendo a far entrare un vocabolo – qualunquista, qualunquismo – nei nostri dizionari politici, per lo più con una forte connotazione negativa.
Gugliemo Giannini lanciò il suo movimento dalle pagine del giornale «L’Uomo qualunque» che aveva una rubrica, Le Vespe, nella quale il giornalista amava punzecchiare i suoi rivali, ricorrendo spesso a parolacce e offese. Alcune pagine famose sono citate nel volume di Sandro Setta, L’uomo qualunque 1944-1948, che ci consente di capire come il turpiloquio fosse stato già all’epoca sdoganato come strumento di aggressione politica. Nel 1945, ad esempio, Giannini declamava di «altri ideali, altre fanfaluche, di cui altissimamente ci strafottiamo» (p. 110). Nel 1947, Pietro Nenni veniva definito «il foruncolo al culo della politica italiana» (p. 79). In un altro articolo dello stesso anno, Giannini si chiedeva se l’Italia avrebbe mai partecipato alla Seconda guerra mondiale qualora il litigio personale tra Nenni e Mussolini «non si fosse gonfiato al punto di rompere i coglioni a tutti i buoni italiani?» (p. 80). I politici dell’epoca erano definiti “merdaioli” (p. 77) e “fetentoni” (p. 78). A chi accusava Giannini di essere fascista, il giornalista gridava che bisognava «rompergli la faccia di ebete e di figlio di puttana» (p. 89), mentre «in Italia c’è gente che ne ha i coglioni abbottati del 1914» (p. 78). Giannini inventò anche neologismi come “panscremenzio” e “demofradici cristiani” e parodie come “Fessuccio Parri” invece di “Ferruccio Parri” (pp. 74-75).
Lo slogan più ricordato del movimento fu “Vogliamo che nessuno ci rompa più i coglioni” di cui Giannini, nelle Vespe del 15 gennaio 1947 descrive addirittura l’origine. È opportuno qui proporre l’intera citazione perché è un esempio quasi unico – da laboratorio della politica – di come sia nato uno slogan efficace e volgare, anzi, efficace perché volgare, sicuramente il progenitore di tutti gli slogan turpiloquiali della retorica populista contemporanea:
State attenti: dopo la parola QUALUNQUE noi abbiamo reso celebre una frase, ossia ciò che americanamente si dice slogan. Questa frase è stata e rimane: VOGLIAMO CHE NESSUNO CI ROMPA PIÙ I COGLIONI. Gravi dispute, e accanitissime, precedettero il varo di questa frase. Nessuno, o quasi nessuno, la voleva; e nel respingerla adduceva le ragioni più serie e solide, incominciando da quelle di decenza e di morale, non escludendo preoccupazioni di carattere più elevato, quali sono, senz’alcun dubbio, quelle religiose. «Si può dire: vogliamo che nessuno ci rompa più le scatole» suggeriva una parte di noi. Un’altra voleva sostituire «scatole» con «stivali» o con «tasche». Un’altra ancora proponeva «vogliamo che nessuno ci secchi più l’anima». La discussione si svolgeva però solo sulla forma da dare al «pensiero scritto». Nel «pensiero parlato» erano tutti d’accordo. Tutti «dicevano» di non voler subire più «rotture di coglioni». A voce i coglioni potevano andare e nessuno se ne faceva scrupolo: per iscritto non erano tollerabili. Noi riassumemmo la discussione all’incirca così: «Amici, si tratta di diffondere l’idea, di imporre nei cervelli la persuasione che noi non vogliamo più rotture di coglioni da nessuno. Sfrondate da tutte le brillanti sovrastrutture storiche, politiche, sociali eccetera, è certo che Stalin, Hitler, Mussolini, Churchill, Ciang-Kai-Sceck, Tojo, Roosevelt, sono dei gran rompicoglioni. Da una lunga serie di anni i giornali son pieni di loro, non si leggono altri nomi, non vi si descrivono gesta di altri. Dal loro disaccordo nasce il fatto che noi siamo stati travolti in una guerra di cui non ci fregava assolutamente nulla. Con questa guerra – continuammo – ci fu promesso un mucchio di cose belle: le 4 libertà e tutto il resto. Praticamente abbiamo avuto Nenni, Cianca, Pacciardi, Schiavetti, Togliatti e altri al posto degli uomini politici che li hanno preceduti al Governo, e il modo di governare è rimasto uguale. Abbiamo avuto morti, catastrofi, miserie, fame: e tutto ciò non accenna a cessare. È o non è, questa, una rottura di coglioni?». Tutti convennero che lo era: e allora noi lanciammo la frase con le parole giuste, le quali colpirono la fantasia dei qualunqui come non l’avrebbe colpita una frase composta da parole non perfettamente aderenti alla realtà.
Si tratta di una strategia cui siamo abituati e che si può riassumere in questi termini: bisogna dire pane al pane e vino al vino, senza “sovrastrutture”, cioè senza sofismi e intellettualismi. Quindi “coglioni” è preferibile a ogni altra parola. Perché il popolo parla così. Ma è proprio questo il pericolo più grande di ogni populismo: quello di presupporre un popolo volgare e terra terra cui fare appello tramite retoriche altrettanto volgari e terra terra per promuovere una politica volgare e terra terra. La parolaccia non significa parlare “chiaro”, ma interpretare la realtà in un certo modo. Il peggiore possibile.