L’immagine che vedete riproduce il comunicato diffuso pochi mesi fa dalla squadra di calcio inglese del Liverpool a tutti i suoi associati, calciatori compresi. Il tentativo è quello di “sradicare ogni forma di discriminazione e di comportamento discriminatorio da dentro e fuori il campo di calcio”, come recita il documento. Il comunicato può però essere letto anche come un indicatore delle principali forme di discriminazione esistenti oggi nel calcio: 1) Razza/religione; 2) Orientamento sessuale; 3) Genere; 4) Disabilità. Interpretando “allo specchio” il testo, si potrebbe dire che, finora, il calcio è stato roba da bianchi occidentali di religione cristiana, rigorosamente eterosessuali, di genere maschile e privi di disabilità. Tutto il resto è considerato “deviante” o almeno non pertinente. Tanto da essere oggetto di turpiloquio. Le offese che ogni domenica si sentono sul campi di calcio e fuori riflettono un’idea estremamente rigida di normalità calcistica. Questa idea di normalità è per lo più data per scontata, ma emerge facendo riferimento a ciò che per calciatori, tecnici e altri uomini di calcio è “deviante” e, quindi, traducibile in offese. Quante volte, anche in Italia, sentiamo sui campi di calcio (sui quali abbiamo giocato anche noi) espressioni come: “Non fare la femminuccia”, “Giochi come uno spastico”, “Corre come un ricchione”. Riflessi di un modo preciso di vedere il mondo.
In sociologia, si dice che per comprendere l’estensione e i confini di una norma bisogna valutarne le deviazioni. In altre parole, la devianza ci suggerisce la normalità. E la normalità che ci restituisce la devianza individuata dal comunicato del Liverpool parla di una realtà maschilista, che non riconosce spazi a donne, gay e disabili (se non come spettatori passivi), che riconosce solo il corpo giovane e atletico, che non vorrebbe colori della pelle diversi dal bianco. Una normalità che scorre, dunque, su binari che percorrono un’unica direzione e non tollerano direzioni diverse. Solo che non ce ne accorgiamo. Perché quelle offese, quegli insulti li sentiamo da quando siamo bambini e si sono ormai sedimentati nel nostro senso comune che, come insegna ancora la sociologia, è refrattario, per definizione, a ogni problematizzazione.
È indubbio che il calcio sia ancora una riserva tacita di troppi “ismi”. Che comunicati come quello del Liverpool possono appena scalfire. E che possono essere sradicati solo con una lunga e intensa opera di rieducazione. Dalla quale la società tutta non può più esimersi.