Traggo spunto da due frasi in cui mi sono imbattuto durante la lettura di Fontamara (1933) di Ignazio Silone, capolavoro per molto tempo misconosciuto della letteratura italiana, per alcune riflessioni su turpiloquio e bestemmia.
La prima è questa:
«Io so bene che il nome cafone, nel linguaggio corrente del mio paese, sia della campagna sia della città, è ora termine di offesa e dileggio; ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore» (Silone, I., 2016, Fontamara, Mondadori, Milano, p. 5).
Può accadere che un termine adoperato per offendere e dileggiare si trasformi in altro e, anzi, acquisti una sua onorabilità? L’ambizione di Silone è che un termine come “cafone”, ancora oggi adoperato come “titolo ingiurioso per significare persona rozza, grossolana, maleducata”, ma il cui primo significato è quello di “contadino” (Treccani), diventi un nome di rispetto. Ciò può verificarsi, afferma lo scrittore abruzzese, solo quando si riconoscerà il valore del lavoro del contadino. In effetti, la connotazione negativa di alcune parole è strettamente associata al valore che riconosciamo al ruolo sociale di cui quelle parole sono etichette. Per tanto tempo, il lavoro del contadino è stato giudicato degradante, inferiore, umiliante. E ciò ha comportato una squalifica sociale dei termini che lo designano, come “agreste” e “rustico”. Ma si pensi anche a “bifolco”, “burino”, “pacchiano”, “villano”, “zappaterra”.
Oggi, le cose sono un po’ diverse. La rivalutazione del “verde”, della “natura”, della “campagna” in contrapposizione all’alienante condizione urbana ha permesso, in parte, di rivalutare il lavoro nei campi, tanto che termini come “agricoltore” o, ancora di più, “imprenditore agricolo” sono oggi considerati con rispetto, soprattutto se poi l’imprenditore agricolo è laureato e non più analfabeta.
Nonostante ciò, “cafone” continua ad avere una connotazione negativa, che si è però trasferita quasi del tutto dalla condizione contadina a ogni forma di comportamento incivile e rozzo, che può appartenere anche a chi contadino non è. In altre parole, “cafone” si è emancipato dalla sua accezione principale per designare una condotta socialmente riprovevole, chiunque la metta in atto.
La seconda frase tratta da Fontamara è:
I Fontamaresi «invece di cantare, volentieri bestemmiano. Per esprimere una grande emozione, la gioia, l’ira, e perfino la devozione religiosa, bestemmiano, ma neppure nel bestemmiare portano molta fantasia e se la prendono sempre contro due o tre santi di coloro conoscenza, li mannaggiano sempre con le stesse rozze parolacce» (Silone, I., 2016, Fontamara, Mondadori, Milano, p. 9).
La bestemmia qui assume una funzione di surrogato espressivo in persone che non sono in grado di dare altra forma ai propri stati d’animo. Secondo una vecchia teoria, turpiloquio e bestemmie suppliscono a importanti carenze verbali in coloro che, non essendo sufficientemente scolarizzati, non posseggono altre risorse per esprimere le proprie emozioni o per indicare gli oggetti che li circondano. Se ci pensiamo, è quello che accade a chiunque quando non trova le parole necessarie per significare qualcosa: “Passami quel c* di coso!”.
A Fontamara, i cafoni locali, poco istruiti, non hanno altro mezzo che “mannaggiare” per riferire le proprie emozioni, il che, fra l’altro, ci fa capire come turpiloquio e bestemmie, in alcuni contesti, assumano una importanza vitale a scopo comunicativo. Se mancassero, alcune persone sarebbero semplicemente condannate a una sorta di afasia esistenziale. Un fatto di cui i moralisti dovrebbero tenere conto prima di condannare, senza diritto di replica, parolacce e imprecazioni.
D’altro lato, parolacce e imprecazioni possono essere assunte come indicatori di disagio sociale e quindi divenire strumenti di accesso a realtà nei confronti delle quali, superficialmente, saremmo tentati di esprimere solo condanne morali. Il ricorso frequente a turpiloquio e bestemmie può divenire un modo per significare malessere: un sintomo, per così dire, di una realtà più profonda che sarebbe troppo semplice disapprovare.
Questo, Silone lo sapeva benissimo. Dovremmo impararlo anche noi.
Per altre riflessioni sociologiche su turpiloquio e bestemmie, rimando al mio Turpia. Sociologia del turpiloquio e della bestemmia.