«[…] sappiamo tutti che è ammirato quello che è lontano e quello che meno di ogni altro espone alla prova la sua reputazione» (Tucidide, 2019, La guerra del Peloponneso, BUR, Milano, Libro Sesto, 11, pp. 1015-1017).
Questa frase colpisce il lettore di Tucidide come un fulmine a ciel sereno. Nel mentre discorre di battaglie, scontri, orazioni e nomi celebri di una delle più famose guerre dell’antichità, il padre della storia occidentale inserisce una rara osservazione psicosociologica che, a distanza di millenni, conserva tutto il suo valore, che anzi risulta incrementato.
Pensiamoci su. Ammiriamo le lingue straniere perché siamo affascinati dal loro suono esotico e, quanto più è distante tale suono da quello della nostra lingua, tanto più siamo inclini a rinvenirvi significati misteriosi e profondi. Perfino le “brutte parole”, dette in un’altra lingua, acquisiscono una connotazione diversa al cui confronto le nostre usurate parolacce appaiono decisamente ordinarie.
Ammiriamo la letteratura straniera perché ci sembra nasconda chissà quali significati allegorici, a noi per sempre interdetti a causa dei limiti intrinseci della nostra lingua. Così adoriamo Rimbaud e Baudelaire a scapito di Foscolo e Leopardi; Proust e Joyce a danno di Svevo e Verga, troppo provinciali o forse resi antipatici da anni di nozionismo scolastico.
In politica, ciò che fanno gli altri governi è sempre migliore, sempre desiderabile, da importare assolutamente se vogliamo essere all’altezza della situazione. È sufficiente che una proposta politica venga da un “esperto” straniero per apparire improvvisamente risolutiva, magica. Come abbiamo fatto a non pensarci prima? E non importa che anche all’estero ci siano scandali, corruzioni e congiure. Da noi è sempre peggio. Perché, naturalmente, anche la moralità estera è superiore.
Allo stesso modo, i programmi televisivi, di intrattenimento, radiofonici ecc degli altri sono sempre di una qualità superiore: più divertenti, più intriganti, più stimolanti, forse anche più intelligenti, anche se non ci rendiamo conto che spesso i nostri scaturiscono dai medesimi format, adattati al nostro paese. O forse ce ne rendiamo conto, ma vuoi mettere gli spettacoli degli altri?
E le canzoni? Basta ascoltare un qualsiasi motivo dotato di lyrics inglesi che, immediatamente, tendiamo a sopravvalutarne la qualità, l’attrattiva, l’immancabile profondità. Lo stesso motivo cantato da un italiano con parole italiane appare inevitabilmente “ciociaro”, limitato, parrocchiale.
Propongo di definire questa infondata tendenza ad ammirare tutto ciò che è straniero “fallacia esotica”. Si tratta di una fallacia ubiquitaria, contagiosa, insinuante a cui è difficile sfuggire perché ciò che è esotico esercita su di noi una seduzione potente e irrazionale. Il motivo lo rivela Tucidide nella stessa frase di apertura di questo post. Ciò che è straniero e lontano appare non ben definito, non ben compreso e comprensibile, vago, brumoso, lattiginoso per cui possiamo proiettare su di esso tutti i nostri desideri, aspettative, credenze, pregiudizi fino a farne qualcosa di perfetto, compiuto, inarrivabile, anche se tale perfezione è frutto più della nostra immaginazione e ignoranza (intesa come “non conoscere bene l’altro”) che di altro. Ma soprattutto, ciò che è esotico e lontano ci appare perfetto perché raramente mettiamo alla prova la sua reputazione e la accogliamo at face value, giudicandola sulla base dell’impressione che esercita sui nostri sensi esterofili.
Non so quanti di voi conoscano il significato di at face value, ma sono sicuro che, per il semplice, fatto di essere una frase inglese, vi sembrerà una espressione più competente, più efficace, più “fica”, anzi cool. A riprova che da Tucidide abbiamo ancora molto da imparare.