Essendo un ateo dichiarato, sono stato spesso interrogato sul motivo della mia scelta. Nel nostro paese, infatti, gli atei devono giustificarsi per essere tali. Una delle reazioni più frequenti alla mia professata mancanza di religione è riassumibile in quella che definisco “teoria del trauma”. In sostanza, l’interlocutore razionalizza la mia scelta nei termini di un trauma che avrei subito (preferibilmente in tenera età) e che avrebbe “pervertito” la “naturale” inclinazione umana alla religione. I tipi di trauma sono i più vari: la perdita di un genitore, una delusione sentimentale, una sofferenza fisica o morale, una lunga malattia. In questo modo, è come se l’interlocutore credente volesse giustificare la mia “anomalia” (gli atei sono sempre un’anomalia agli occhi di chi crede) con un’altra anomalia (il trauma, appunto) che spiegherebbe il mio ateismo dichiarato. “Se non ci fosse stato il trauma”, ragiona il credente, “crederesti ancora in Dio”. Seguono poi rassicurazioni sulla costante presenza divina nella mia vita e incoraggiamenti a credere. E a nulla valgono le mie rimostranze di non aver subito alcun trauma e di aver vissuto una infanzia serena. Non ci credono. E qualcuno avanza addirittura spiegazioni di tipo freudiano: «Forse, hai subito un trauma e non lo ricordi. Dopo tutto, la mente rimuove le esperienze negative». In questo modo, che lo ammetta o no, un trauma lo avrò sempre subito. Hai voglia di protestare, obiettare, discutere. È tutto inutile.
In questa reazione è implicita una convinzione sulla quale vorrei proporre una riflessione: in sostanza, lo stesso credente che avanza la “teoria del trauma” come spiegazione dell’ateismo obietta che non credere a causa di un trauma “non vale”, nel senso che, se si perde la religione in seguito a un qualche tipo di turbamento, non si è compiuta una vera scelta. Un ateismo di tal fatta – sostiene – è mal riposto perché il trauma ottunde la mente, annebbia il giudizio, impedisce di vedere come stanno davvero le cose; e le cose stanno come dice Dio, ovvero come dice lui, il credente.
Stranamente però, a parti invertite, la “teoria del trauma” sembra essere pienamente legittima. Se, cioè, si acquista la fede in seguito a un trauma – una malattia, un lutto, una delusione di qualsiasi tipo, la morte imminente – la conversione appare del tutto fondata. In questo caso, il giudizio non è annebbiato, la mente non è offuscata. Anzi, è illuminata da Dio che si avvale del trauma per far conoscere al traumatizzato la sua verità. Nel primo caso, il trauma sminuisce le facoltà mentali; nel secondo le rischiara. Nel caso dell’ateismo, il trauma non può legittimamente giustificare l’allontanamento dalla religione (“Non vale, non vale”). Nel caso della conversione religiosa, il trauma si fa strumento della volontà divina. Stessa causa; opposte valutazioni etiche e religiose.
Ho sempre ritenuto sorprendente questa discrepanza valutativa. Ma forse non dovrei. I discorsi della religione, così densi di metafore, simboli e astrazioni, si piegano da sempre a ogni possibile torsione interpretativa e ogni argomento può essere portato a sostegno o discredito di qualsiasi posizione. Dovrei farci il callo, ma non ci riesco. Le torsioni mi fanno male. E poi vuoi vedere che, sotto sotto, un trauma l’ho subito davvero?
Sarà colpa del trauma di vedere così tanti idioti in giro?
Credo che sia possibile. Un trauma si trova sempre…