Che cosa succede quando un uomo si suicida per l’amore, non corrisposto, di una bella donna? Come sempre, quando accadono simili tragedie, si attivano una serie di potenti meccanismi cognitivi, che agiscono sul senso comune, suscitando una serie di interpretazioni diffuse della realtà. Una di queste attribuisce alla donna “ingrata” una colpa più o meno forte a seconda dei tempi e delle culture. Lo possiamo vedere nella storia di Grisostomo e Marcella, narrata nel Don Chisciotte di Cervantes, ne I morti, racconto tratto da Gente di Dublino di James Joyce, o in prodotti della cultura popolare come la celeberrima canzone Malafemmena (1951) di Totò (che pure non parla di un amore che porta al suicidio, sebbene alla colpevolizzazione della donna). In tutti questi casi, il senso comune ragiona in questi termini: “Sì, una donna è libera di amare chiunque, ma, di fronte a un amore così intenso da portare addirittura al suicidio, non è senza torto. La sua indifferenza la condanna. Di fronte alla morte, lei porta con sé un po’ di responsabilità e dovrebbe sentirsi in colpa”. Questo ragionamento è in parte dovuto al fatto che ogni morte, soprattutto se tragica e dolorosa, induce in chi è vicino al morto, tentativi di spiegazione e di attribuzione di colpa. Attribuire la colpa a qualcuno disinnesca il significato minaccioso e misterioso della morte, fa sentire meglio i sopravvissuti, che possono dare un nome e un perché a quel gesto così inquietante che è il suicidio, ristabilisce una sorta di equilibrio emotivo e sociale che colma l’abisso di disperazione in cui cade il parente del morto, proietta all’esterno – in questo caso sulla donna inutilmente amata dal suicida – la responsabilità del tutto. Ma perché questa dovrebbe essere una “malafemmena”, come vuole la canzone di Totò? Perché, a dispetto dell’intensità dell’amore non corrisposto, la donna dovrebbe avere una colpa nella faccenda, che si traduce, di volta in volta, in parole come “fredda”, “altera”, “glaciale”, “indifferente”, addirittura “non umana”? La migliore difesa – una delle più lucide e appassionate – delle donne per le quali si muore per amore è contenuta nel Don Chisciotte di Cervantes ed è narrata, in prima persona, dalla bella pastora Marcella, per la quale Grisostomo si uccide, e che viene indicata a colpa da Ambrogio, amico di Grisostomo. Ecco le sue parole:
– Ambrogio, io non vengo per nessuna delle ragioni che tu hai detto – rispose Marcella – ma per difendermi e far capire quanto hanno torto tutti quelli che m’incolparono dell’angoscia e della morte di Grisostomo. Quindi vi prego tutti voi che siete qui, di stare attenti, ché non ci vorrà molto tempo, né molte parole, per dimostrar la verità alle persone di senno. Il cielo, secondo quello che voi dite, mi fece bella, e tanto bella, che la mia bellezza vi costringe ad amarmi senza che ne possiate fare a meno; e per l’amore che mi dimostrate, voi dite e anche volete che io sia obbligata ad amarvi. Io conosco, con la naturale intelligenza che Dio mi ha dato, che ogni cosa bella è degna d’amore, ma non comprendo che tutto ciò che è amato perché è bello, possa essere obbligato ad amar chi l’ama per la ragione d’esser amato. Tanto più che potrebbe darsi che colui che ama il bello fosse brutto, ed essendo il brutto degno di essere odiato, sarebbe molto mal detto: « Io ti amo perché sei bella: tu mi devi amare, quantunque io sia brutto». Ma dato anche il caso che uguali sian le bellezze, non per questo è necessario che siano uguali le inclinazioni; perché non tutte le bellezze innamorano. E infatti alcune rallegran la vista, ma non soggiogan la volontà. Se tutte le bellezze innamorassero e soggiogassero, i desideri ne rimarrebbero o confusi e sviati, senza sapere su qual bellezza posarsi, perché essendo infinite le bellezze, infiniti dovrebbero essere i desidèri. E a quel che ho sentito dire, il vero amore è indivisibile, e deve essere spontaneo e non forzato. Dunque, perché volete che sottometta la mia volontà per forza, per la sola ragione che voi dite che mi volete bene? Ma ditemi se il cielo nel modo che mi fece bella, mi avesse fatta brutta, sarebbe stato giusto che io mi lamentassi di voi perché non mi amavate? D’altra parte dovete considerare che la mia bellezza non l’ho chiesta io, cosi com’è, me la dette il cielo per sua grazia, senza che io la chiedessi, né la scegliessi. Quindi come la vipera non merita d’essere accusata per il suo veleno, benché con esso uccida, perché glielo ha dato la natura, tanto meno merito io dei rimproveri per la mia bellezza. La bellezza nella donna onesta è come il fuoco lontano, è come una spada acuta. Quello non brucia e l’altra non ferisce chi non s’accosta. L’onore e la virtù sono ornamenti dell’anima, senza i quali il corpo, anche se bello, non deve parerlo. E se l’onestà è una delle virtù che più adornano ed abbelliscono il corpo e l’anima, perché una donna bella, e per questo amata, dovrebbe perderla al puro scopo di corrispondere ai desidèri di colui che, soltanto per suo piacere con tutte le sue forze e tutte le arti cerca di fargliela perdere? Io son nata libera, e, per poter vivere libera, scelsi la solitudine dei campi: gli alberi di queste montagne son la mia compagnia, l’acqua chiara di questi ruscelli i miei specchi; agli alberi e all’acqua confido i miei pensieri e dono la mia bellezza. Sono un fuoco lontano e una spada riposta. Quelli che ho fatto innamorare col mio aspetto, li ho disingannati con le mie parole, e se i desidèri si nutrono di speranze, non avendone io data alcuna a Grisostomo, né ad alcun altro di loro, ben si può dire che li uccide la loro ostinazione, piuttosto che la mia crudeltà. E se mi si dice che i loro pensieri erano onesti e che per questo ero obbligata a corrisponderli, io rispondo che, quando in questo medesimo posto, dove ora si scava la sua fossa, egli mi dichiarò la serietà delle sue intenzioni, io gli dissi che la mia intenzione era invece di vivere per sempre in solitudine e di fare godere soltanto alla terra il frutto della mia segregazione e le spoglie della mia bellezza. Se poi lui, nonostante questo avvertimento, volle ostinarsi contro la speranza e navigare contro vento, qual meraviglia che annegasse nel mare magno della sua imprudenza? Se lo avessi lusingato, sarei stata falsa; se lo avessi appagato, avrei agito contro le mie più care intenzioni e i miei propositi. Egli si ostinò quantunque disingannato, e si disperò senza essere odiato: considerate ora se è giusto che del suo tormento si dia a me la colpa. Si lamenti chi è stato ingannato, si disperi chi ha avuto speranza da promesse poi non mantenute, speri chi abbia ricevuto da me buona accoglienza, e vanti i suoi diritti quegli a cui io abbia dato il mio consenso; ma non mi chiami crudele, né omicida, chi non ha avuto né promesse, né inganni, né accoglienze, né consensi. Il cielo finora non ha voluto che il mio destino fosse d’amare, e il credere che io debba amare per mia spontanea volontà è un errore. Questo avvertimento dato in generale serva a tutti coloro che mi fanno premura per il loro particolare sentimento e si tenga ben presente d’ora in avanti che se qualcun altro morisse per me, non muore né per gelosia né per il mio disprezzo, perché chi non ama nessuno, non può far nascere gelosia in nessuno, e i disinganni non si debbono tenere in conto di disprezzi. Chi mi chiama belva e basilisco, mi lasci stare come cosa cattiva e pericolosa; chi mi chiama ingrata, non mi offra i suoi servigi; chi mi chiama sconoscente, non cerchi di conoscermi; chi mi dice crudele, non mi segua; perché questa belva, questo basilisco, questa ingrata, questa crudele, questa sconoscente di certo non li cercherà, non offrirà loro i suoi servigi, non farà nulla per conoscerli, né li seguirà in nessuna maniera. Se la propria impazienza e i propri ardenti desidèri hanno ucciso Grisostomo, perché si deve incolpare il mio onesto procedere e il mio contegno riservato? Se io conservo la mia purezza vivendo fra gli alberi, perché deve voler che la perda chi pretende che io viva fra gli uomini? Come sapete, sono ricca del mio, e non desidero le ricchezze degli altri; sono libera e non mi piace assoggettarmi; non amo né odio nessuno, non inganno questo, né lusingo quello, non scherzo con uno, né mi diverto con un altro. Mi diverte la conversazione onesta delle ragazze di questi casolari e la cura delle mie capre. I miei desidèri non vanno oltre queste montagne, e se ne escono, escono per contemplare la bellezza del cielo. Sono i passi con cui l’anima s’avvia a tornare verso la sua prima dimora (Cervantes, 1991, Don Chisciotte, Mondadori, Milano, vol. I, pp. 119-123).
A dispetto della difesa di Marcella, credo che alle belle donne per le quali si muore, il senso comune continuerà ad attribuire colpe e responsabilità. Così come continuerà ad attribuire colpe e responsabilità alle donne che sono stuprate (“Se l’è andata a cercare con quella minigonna”) o vittime di molestie e stalking (“Quanto fa la preziosa!”). Ma la dichiarazione di Marcella è un manifesto che le donne dovrebbero portare con sé fiere, e che ha valore anche nel caso inverso: cioè quando, per un amore non corrisposto, l’uomo uccide la donna, anziché uccidersi. Ma su questo, conto di tornare in un post successivo.