Chi ricorda oggi Tito Signorelli (1875-1958), pastore della Chiesa metodista episcopale e sovraintendente della Chiesa Evangelica Metodista d’Italia? Forse solo qualche storico della sua chiesa di appartenenza o qualche oscuro bibliotecario italiano. Eppure, Signorelli, nato a Treviso, figlio dell’evangelista Luigi Signorelli, fu, in vita, un uomo molto attivo, non solo sul fronte religioso.
Negli anni della Prima guerra mondiale si occupò prima della chiesa metodista episcopale di Savona e poi di quella a Roma, dove rimase fino al 1918. Nel corso della sua permanenza nella capitale, si distinse per una lunga serie di sermoni e conferenze in cui tuonò contro la guerra, il militarismo e la violenza dilagante. Dopo aver trascorso due anni a Firenze (1918-1920), venne inviato per un anno a occuparsi della chiesa metodista di Genova Sestri Ponente e qui si dedicò al miglioramento delle condizioni sociali ed economiche della sua comunità.
Dotato di un carattere forte ed energico, fu uno scrittore prolifico, autore di libelli dissacranti contro vere e proprie istituzioni del cattolicesimo come la sacra sindone e il rosario.
Del 1932 è il testo che a me più interessa, ossia Il Rosario. Studio storico-critico, apparso per i tipi della Tipografia La Speranza di Roma in cui attaccò polemicamente e violentemente la “pia” tradizione del salterio di Maria che vuole che esso sia stato consegnato bell’e fatto nelle mani di san Domenico di Guzmam (1170-1221) direttamente dalla Beata Vergine.
L’attacco, condotto sulla base di precisi documenti storici e di una lettura non agiografica di quello che l’autore definisce “l’oggetto papista” per eccellenza, costituisce ancora oggi una delle critiche più feroci alla Chiesa cattolica, seppure scagliata da parte del rappresentante di un movimento religioso – quello dei valdesi – che non conserva un buon ricordo dell’istituzione del rosario: sempre secondo la “pia tradizione”, infatti, il rosario fu adoperato dal fondatore dell’Ordine dei Frati Predicatori per sconfiggere gli eretici valdesi e albigesi. Signorelli, dunque, non era esattamente imparziale nella scrittura del suo studio storico-critico, come è evidente dal ricorrere del termine “papista”, con cui i protestanti da tempo descrivono causticamente condotte e oggetti della Chiesa cattolica.
Sin dalle prime pagine, Signorelli denuncia contraddizioni, assurdità e “misteri” del rosario, devozione assimilata a un inesauribile borbottio, pratica paganeggiante, ripetizione di formule fisse senza senso. Per il pastore trevigiano, il rosario scaturisce da una assurda superstizione, quella secondo cui san Domenico sarebbe l’ideatore e l’autore di questa pratica, leggenda smentita clamorosamente dalla storia, ma ratificata da innumerevoli pontefici nel corso del tempo – Sisto IV, Leone X, Pio V, Gregorio XIII, Sisto V, Alessandro VII, Benedetto XIII, tra gli altri (“l’uno citando l’altro”) – che hanno contribuito a trasformare una favola in un “fatto storico”, non tenendo conto del fatto che il rosario era preesistente a s. Domenico e che nessun contemporaneo del santo fa parola della presunta rivelazione della Madonna che sarebbe alla base della leggenda stessa.
Del resto, strumenti per contare le preghiere sono noti fin dal tempo dell’eremita Paolo, vissuto nel IV secolo, e di s. Gertrude vissuta nel VII secolo, per non parlare delle “corone” adoperate in Siria e in Palestina nel secolo XI.
Con Domenico di Guzman, il rosario diviene semplicemente lo strumento da imporre in funzione antieretica per reprimere ogni forma di dissenso tra le masse analfabete.
Con il tempo, il rosario si trasforma in un rito “maggiore”, associato a un gran numero di indulgenze, espressione suprema di quel “religiosismo papista” che, secondo Signorelli, ha cacciato il cristianesimo del Vangelo fuori dalle chiese.
Per Signorelli, il rosario è paragonabile a una sorta di pallottoliere con cui addizionare, moltiplicare e dividere le preghiere e fare il bilancio delle indulgenze lucrate e viola direttamente la famosa riprovazione pronunciata da Gesù contro ì Farisei: «Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro…» (Matteo VI, 7-8).
Tramite il rosario, il cristiano vede atrofizzare in lui il senso della preghiera, che non può mai essere una filastrocca imparata a memoria, un cilicio superstizioso, una “meccanica ripetizione di dicerie con cabalistici segni di croce”, ma sempre colloquio diretto e spontaneo dell’anima con Dio. Alla perdita di significato della preghiera, contribuiscono anche le tante indulgenze che fanno di questa devozione una formula ragionieristica, che soffoca ogni sincero anelito di preghiera e di amore di Dio.
In conclusione, il rosario non è altro che “propalatore di leggende”, “essiccatore dello spirito di preghiera”, “sterpo di spine”, “meccano di superstizione” e solo la sua rimozione dalla vita religiosa degli italiani potrà far risorgere, per il pastore metodista, l’autentico spirito della preghiera.
Al di là dello spirito polemico e fazioso, Il Rosario. Studio storico-critico rappresenta ancora oggi una lettura stimolante, soprattutto se si considera che la stragrande letteratura esistente sul rosario – anch’essa di parte, ovviamente – è di natura agiografica e coltiva la “leggenda” di san Domenico come se fosse verità assodata. Non si può non avvertire un refolo di aria fresca, una voce diversa, leggendo l’opuscolo di Tito Signorelli. È per questo motivo che ho trascritto integralmente il testo, ormai da tempo introvabile, in modo da offrire al lettore italiano la possibilità di leggere qualcosa di eterodosso sul rosario, nonostante tutti i limiti e la partigianeria presenti nelle pagine del pastore trevigiano.