Sono passati quasi 60 anni dalla sua pubblicazione, ma The image (1962) di Daniel J. Boorstin (1914-2004) continua ad essere una lettura estremamente interessante e attuale, se non profetica, della nostra società. Come predetto dal sociologo americano, infatti, la nostra è una società basata su pseudoeventi, eventi non spontanei e con un rapporto ambiguo con la realtà, che si impongono alla nostra mente in ogni dimensione della nostra vita e che trasformano la nostra esperienza in una illusione perenne. Come definire, se non illusioni, gli eventi creati ad arte da pubblicitari, addetti alle pubbliche relazioni, giornalisti, imprenditori ecc. per promuovere un’azienda, una iniziativa, una offerta commerciale, ma anche un progetto politico, una scuola (open days ecc.), un libro, un’opera d’arte ecc.
Siamo talmente abituati a questo genere di illusioni che quasi non ci facciamo più caso. Eppure, fu proprio Boorstin a tematizzare la loro rilevanza, coniando appunto il termine pseudoevento, oggi usatissimo.
Ma che cos’è uno pseudoevento? Boorstin lo definisce nel modo seguente:
Uno pseudoevento, dunque, è un accadimento che possiede le seguenti caratteristiche:
(1) Non è spontaneo, ma ha luogo perché qualcuno lo pianifica, lo produce, lo spinge. Tipicamente, non è un disastro ferroviario o un terremoto, ma un’intervista.
(2) Viene prodotto soprattutto (non sempre esclusivamente) allo scopo immediato di comunicarlo o riprodurlo. Pertanto, esso viene organizzato a vantaggio dei mezzi di comunicazione o di riproduzione. Le relazioni temporali in esso presenti sono di norma fittizie o artificiose; viene annunciato in anticipo perché sia programmato “prossimamente” e composto come se fosse accaduto nel passato. La domanda “È reale?” è meno importante della domanda “Fa notizia?”.
(3) Il suo rapporto con la realtà sottostante della situazione è ambiguo. Il suo interesse scaturisce per lo più proprio da questa ambiguità. Riguardo a uno pseudoevento, la domanda “Che cosa significa?” acquista una nuova dimensione. Se l’interesse della notizia di un disastro ferroviario sta nel cosa è accaduto e nelle sue conseguenze reali, l’interesse di un’intervista riguarda sempre, in un certo senso, se abbia davvero avuto luogo e i possibili motivi della sua occorrenza. Il significato di quella dichiarazione coincideva davvero con le parole con cui è stata pronunciata? Senza una certa ambiguità, uno pseudoevento non può essere realmente interessante.
(4) Solitamente, il suo esito è una profezia che si autoavvera. I festeggiamenti per il trentesimo anniversario dell’hotel, nel momento in cui annunciano che l’hotel è un edificio illustre, lo rendono tale (Boorstin, D. J., 1987, The image, Vintage Books, New York, pp. 11-12).
Oggi, dicevo, siamo circondati da pseudoeventi, ma anche da pseudopersonalità, personaggi famosi per la loro well-known-ness, per usare un altro celebre neologismo di Boorstin. Seguendo il sociologo americano, infatti, una celebrità è definibile come “una persona nota per il fatto di essere nota”. Questa definizione ricorda lo status dei cosiddetti influencer odierni, persone note non tanto perché possiedono talenti particolari, ma, appunto, per il fatto di essere noti. Il fatto di essere noti crea ulteriore notorietà in un circolo autopropulsivo che oggi domina non solo il mondo dello spettacolo, ma anche quello della politica, dell’economia, dell’istruzione, della religione. Mondi in cui il reale ha ceduto da tempo il terreno all’immagine, anche se, avvezzi come siamo a cascate iconiche provenienti da ogni media possibile, non ci facciamo più neppure caso.
“Pseudoeventi” e “well-known-ness” sono i due concetti per cui Boorstin è più famoso. Ma tutta la lettura di The image continua a essere frizzante e suggestiva, se non altro perché il libro è scritto da un testimone che, con uno sguardo non ancora reso opaco dall’abitudine e dalla ordinarietà, riesce a farci avvertire come “strano” un mondo che per noi oggi è normale. Penso che basti questo per fare del libro di Boorstin un vero e proprio classico della contemporaneità.