La vicenda dell’austriaca Natascha Kampusch è nota a tutti. Rapita a dieci anni, nel 1998, da Wolfgang Přiklopil, rimase nelle grinfie del suo aguzzino per più di otto anni fino a quando, approfittando di una distrazione del rapitore, riuscì a fuggire e ritrovare la libertà. La storia della Kampusch è narrata nel libro autobiografico 3096 giorni. Ciò che colpisce il lettore è soprattutto la capacità di resistere di una bambina sottratta traumaticamente alla propria famiglia e costretta a vivere in una segreta di pochi metri quadrati per diversi anni, spesso vittima di pestaggi, umiliazioni e non raramente tormentata dalla fame. Come è possibile che una bambina riesca a farcela mentalmente e fisicamente in queste condizioni? Gli psicologi scomoderebbero il concetto di resilienza. In effetti, la stessa Kampusch descrive tutta una serie di “tecniche” attraverso cui riuscì a sopravvivere. Tra queste: immaginare di essere altrove, fantasticare di essere libera, non lasciarsi mai umiliare psicologicamente (anche se vi furono alcuni tentativi grossolani di suicidio), lottare contro il marchio di vittima impotente che il rapitore tentò a ogni costo di affibbiarle.
Uno dei metodi di sopravvivenza più sorprendenti fu il ricorso a comportamenti che di solito condanniamo nella vita quotidiana ma che, nelle circostanze estreme in cui si trovò la Kampusch, si rivelarono estremamente funzionali: graffiti e parolacce. Ecco quanto scrive la ragazza austriaca:
Disegni. Avevo bisogno di più disegni raffiguranti il mio mondo, che avrei realizzato io. Immagini che non erano in relazione con la fantasia malata del rapitore e che mi avrebbero parlato da ogni angolo della stanza. Cominciai poco a poco a colorare le assicelle di legno con cui erano rivestite le pareti, usando i pastelli a cera che avevo nel mio zaino. Volevo lasciare qualcosa di mio. Come fanno i prigionieri che scarabocchiano le pareti delle loro celle con disegni, massime e tacche per ogni singolo giorno. Non lo fanno solo per noia, adesso lo capivo: dipingere è un modo per venire a patti con il senso di impotenza e la sensazione di trovarsi in balia di qualcun altro. I detenuti disegnano sulle pareti per dimostrare a se stessi e a tutti quelli che mai entreranno nella loro cella, che esistono, o almeno che, una volta, sono esistiti.
La mia pittura murale aveva anche un altro scopo: in questo modo mi creavo uno sfondo, sul quale potevo immaginare di essere a casa. Per prima cosa cercai di dipingere sulla parete l’ingresso del nostro appartamento: disegnai una maniglia sulla porta della cella e, sulla parete accanto, il piccolo comò che si trova ancora oggi in corridoio, a casa di mia madre. Dipinsi con accuratezza il contorno e le maniglie dei cassetti: per fare di più non mi bastò il colore, ma fu sufficiente a creare l’illusione. Quando adesso stavo sdraiata sul lettino e guardavo verso la porta, immaginavo che presto si sarebbe aperta e sarebbe entrata mia madre che mi avrebbe salutata, mentre appoggiava la chiave sul comò.
Subito dopo disegnai sulla parete un albero genealogico. Il mio nome era in fondo, poi venivano i nomi delle mie sorelle, dei loro mariti e dei bambini, di mia madre e del suo compagno, di mio padre e della sua compagna e infine quelli dei miei nonni. Dedicai molto tempo alla realizzazione di questo albero genealogico. Mi restituiva un posto nel mondo e mi assicurava che ero parte di una famiglia, di un intero, e non un atomo disperso, fuori dal mondo reale, come mi sentivo spesso.
Sulla parete di rimpetto dipinsi una grossa auto. Doveva essere un Mercedes SL di colore argento, la mia auto preferita: a casa avevo un modellino e una volta diventata adulta, avevo intenzione di comprarmela. Al posto degli pneumatici, disegnai dei seni turgidi. Lo avevo visto una volta in un graffito su una parete di cemento, nelle vicinanze del nostro complesso residenziale. Non so più esattamente perché scelsi proprio quel motivo. Volevo esprimere evidentemente qualcosa di forte, presumibilmente di adulto. Anche a scuola, negli ultimi mesi, qualche volta avevo provocato il mio insegnante. Nei minuti che precedevano la lezione, avevamo il permesso di disegnare con il gesso alla lavagna, se poi cancellavamo in tempo. Mentre altri bambini dipingevano fiori e personaggi dei fumetti, io scarabocchiavo “Protesta!” “Rivoluzione!” oppure “Fuori gli insegnanti!”. Non sembrava un comportamento appropriato a quella piccola classe di venti bambini, dove imparavamo protetti, come se fosse un prolungamento della scuola materna. Non so se allora mi ero semplicemente avvicinata alla pubertà un po’ più dei miei compagni oppure se in questo modo volevo dare dei punti a tutti quelli che solitamente mi canzonavano soltanto. Comunque sia, nella prigione, la piccola ribellione che conteneva quel disegno, mi dette forza. Proprio come la parolaccia che scarabocchiai a piccole lettere in un punto nascosto sulla parete: “Str…”. In questo modo volevo mostrare di avere capacità di resistenza e fare qualcosa di proibito (Kampusch, N., 2011, 3096 giorni, Bompiani, Milano, pp. 105-107).
Nel mio libro Verso una criminologia enantiodromica. Appunti per un modo diverso di vedere il crimine, ho posto in rilievo come spesso comportamenti devianti, in date circostanze, possano produrre effetti positivi sulla società, spesso a dispetto di quello che la stessa società pensa. È il caso anche di graffiti e parolacce. Come nella vicenda della Kampusch, questi comportamenti possono rivelarsi estremamente funzionali alla sopravvivenza fisica e mentale di chi li mette in pratica secondo una logica che ho definito enantiodromica che ci fa capire anche perché è molto improbabile che essi spariranno mai del tutto. Rimando al mio libro per un approfondimento di questo sorprendente, “perverso” meccanismo di funzionamento sociale.