Lo sanno tutti: le apparenze, e in particolare gli abiti, ingannano. Spesso le persone non sono come si mostrano a prima vista, anzi molte volte si rivelano l’esatto contrario. Dobbiamo, dunque, essere cauti nel giudicarle. In alcuni casi, ci si veste o traveste in un certo modo per fini specifici. I truffatori si celano dietro divise delle forze dell’ordine per ingannare il prossimo. I killer professionisti si camuffano da umili inservienti per portare a termine il proprio lavoro. Ci si traveste a Carnevale e in occasione di alcuni festeggiamenti. Gli attori si mascherano per recitare la propria parte. Insomma, l’abito non fa il monaco. Lo sapeva anche il Manzoni, il quale, nei Promessi sposi, fa dire al conte zio in risposta al Padre Provinciale che aveva difeso Fra Cristoforo e la “gloria dell’abito”, in grado di far sì «che un uomo il quale al secolo ha potuto far dir di sé, con questo indosso diventi un altro»: «Vorrei crederlo: lo dico di cuore: vorrei crederlo; ma alle volte, come dice il proverbio… l’abito non fa il monaco».
Il tema dell’apparenza ingannatrice è talmente diffuso che i proverbi in argomento abbondano: “Non si giudica il cavallo dalla sella”, “Non è tutto oro quel che riluce”, “Il galantuomo non sta sotto il cappello”, “Il velo non fa la monaca”, “La libreria non fa l’uomo dotto”, in inglese: “Don’t judge a book by its cover” (“Non si giudica un libro dalla copertina”). Curiosamente, esistono anche proverbi di senso contrario, come il meno conosciuto “L’abito fa il monaco”, a significare che gli abiti che qualificano uno status conferiscono dignità e prestigio. In Siracide 19, 25-27 leggiamo: «Dall’aspetto si conosce l’uomo; dal volto si conosce l’uomo di senno. Il vestito di un uomo, la bocca sorridente e la sua andatura rivelano quello che è». Il sapere popolare sembra disposto a concedere agli abiti anche una funzione rivelatrice, oltre che ingannatrice.
E in effetti la contraddizione espressa dal libro biblico potrebbe essere solo apparente: un tempo, l’abito indicava con una certa sicurezza almeno lo status sociale della persona. Ricordiamo che, nel passato, le leggi proibivano di indossare abiti diversi dalla propria condizione sociale: ad esempio, i miserabili e le prostitute non potevano indossare abiti nobiliari. In taluni momenti storici, le cosiddette “leggi suntuarie” regolarono l’abbigliamento di determinati gruppi sociali imponendo loro un vestiario che divenne una sorta di segno distintivo, se non uno stigma (come nel caso di ebrei, eretici, prostitute). In questi casi, l’affidabilità identitaria degli abiti era molto più robusta di oggi.
Ordinariamente, è vero che il modo di vestire riflette chi si è o chi si vorrebbe essere in termini sociali, politici, religiosi, identitari, soggettivi. Anzi, se indossiamo un abito a noi non confacente ci sentiamo a disagio, ridicoli, imbarazzati. Tra abito e identità c’è un legame molto più stretto di quello che parrebbe dando ascolto al proverbio.
È anche vero che gli abiti contribuiscono enormemente a plasmare la percezione che gli altri hanno di noi. Essi possono incutere timore e rispetto (si pensi alle uniformi delle forze dell’ordine), eccitare (gli stupratori ricorrono spesso al meccanismo di difesa consistente nell’imputare agli abiti della vittima la loro irrefrenabile eccitazione: “Se l’è andata a cercare”), deprimere (come gli abiti che si indossano in occasioni funebri), esercitare effetti persuasivi o dissuasivi. Chi indossa abiti formali, ad esempio, viene percepito come più intelligente e competente di chi veste in maniera informale. Chi si presenta a un colloquio di lavoro in giacca e cravatta viene percepito come più serio e affidabile rispetto a chi non lo fa.
Alcune ricerche hanno dimostrato che il modo di vestire può suscitare o favorire nell’altro condotte prosociali. Già nel 1971, lo psicologo Leonard Bickman dimostrò che le persone che vestono in maniera rispettabile o sembrano essere di status superiore hanno maggiori probabilità di vedersi restituire una moneta lasciata in una cabina telefonica. Emswiller, Deaux e Willits (1971) dimostrarono che è più facile indurre comportamenti di aiuto se aiutante e aiutato vestono in maniera simile.
Altre ricerche hanno evidenziato che gli abiti possono spingere a comportamenti antisociali. Basti ricordare al riguardo il celebre esperimento sull’obbedienza condotto nel 1961 dallo psicologo statunitense Stanley Milgram (1975), il quale mostrò che, posti di fronte a un soggetto in camice bianco che impartisce loro degli ordini, gli individui sono disposti a eseguire azioni in conflitto con i loro stessi valori etici. Una dimostrazione agghiacciante di come operi nella contemporaneità il principio di autorità, incarnato dal camice bianco.
Un abito che simboleggia autorità può ispirare anche condotte sociali positive. In alcuni esperimenti descritti nell’articolo di Leonard Bickman “The Social Power of a Uniform” (1974), i soggetti ubbidirono a vari ordini (raccogliere un sacchetto di carta, dare una monetina a uno sconosciuto o allontanarsi da una fermata di autobus) impartiti da complici che indossavano una uniforme militare in misura maggiore rispetto a quando gli ordini venivano impartiti da civili o da soggetti vestiti da lattai. L’autorità incarnata dall’uniforme trova rispondenza negli individui in quanto associata all’idea che il militare sia legittimato socialmente a impartire ordini.
Non a caso, l’uniforme marziale ha lo scopo di enfatizzare, accrescere, esagerare aspetti del corpo che incutono dominanza, soggezione e timore nel nemico, quali l’altezza, la muscolatura e il portamento eretto. L’uso di copricapi alti non ha solo la funzione di proteggere il militare dalle avversità atmosferiche, ma anche e soprattutto quella di aumentarne l’altezza percepita. La visiera del copricapo che nasconde in parte gli occhi del militare serve a creare timore e disagio in chi osserva. L’uso di giubbe con spalline favorisce l’impressione di spalle potenti e larghe. Bottoni metallici e altri accorgimenti favoriscono la percezione a V del corpo che comunica forte costituzione e virilità. Ornamenti, mostrine, fregi, cordoni, pendagli ecc. trasmettono una sensazione di dominanza. Un abbigliamento che provoca rigidità fa apparire più marziali (Costa, 2006, pp. 247-253).
Se le ricerche citate ci rivelano qualcosa che, in fondo, già sappiamo, cioè che gli abiti trasmettono simboli e informazioni che influenzano le persone e l’ambiente intorno a noi, altre ricerche, forse meno note, ci dicono che gli abiti che indossiamo sono in grado di modificare le nostre stesse prestazioni cognitive, la nostra visione del mondo e perfino la nostra condotta sulla base di alcuni sorprendenti meccanismi psicosociali. In altre parole, l’abito può davvero “fare” il monaco.
La psicologia contemporanea ha ormai messo in discussione il vecchio nesso mente-corpo secondo cui questo sarebbe interpretabile solo in un’unica direzione, quella che dalla mente va al corpo. È oggi noto che anche il corpo può influire sulla mente in modi imprevisti, ma accertati dalla scienza. In particolare, alcune condizioni fisiologiche sembrano favorire o sfavorire determinati stati d’animo a scapito di altri, tanto che gli psicoterapeuti raccomandano di eseguire determinate azioni associate a determinate condizioni fisiologiche, se si vuole raggiungere una determinata condizione mentale. Facciamo qualche esempio, avvalendoci anche di testimonianze provenienti dalla filosofia, dalla letteratura e dalla psicologia.
Nella sua Arte di amare, Ovidio (43 a. C. – 17 d. C.) invitava esplicitamente a “simulare” l’innamoramento per innamorarsi davvero: «Devi agire da amante: la tua voce mostri che il cuor ti piange […] Spesso chi finse amore cadde in amore: pensava fosse un gioco essere amante, poi lo divenne» (1994, p. 97). In questo senso, perfino un sentimento “spontaneo” come l’amore può essere indotto attraverso la sua simulazione comportamentale.
Ne La lettera rubata di Edgar Allan Poe (1809-1849), il protagonista afferma: «Quando voglio sapere fino a qual punto uno è astuto o stupido, fino a qual punto è buono o cattivo, o quali sono attualmente i suoi pensieri, cerco di comporre il mio viso come il suo, di dargli la stessa espressione, per quanto mi sia possibile, e così aspetto per sapere quali pensieri o quali sentimenti nasceranno nella mia mente o nel mio cuore per corrispondere alla mia fisionomia» (1885, pp. 25-26). Una formulazione perfettamente in linea con la tesi di Ovidio: la manifestazione fisica dell’emozione provoca l’emozione stessa.
Charles Darwin (1809-1882), nel suo The expression of the emotions in man and animals, scrive: «Dando libero sfogo ai segni esteriori di un’emozione, la si intensifica. Viceversa, la repressione nei limiti del possibile di ogni loro segno esteriore attenua le nostre emozioni. Chi si abbandona a gesti esagitati aumenta la propria rabbia; chi non trattiene i segni della paura avvertirà la paura in misura ancora maggiore; e chi resta passivo allorché è sopraffatto dal dolore perde la migliore occasione per riacquistare elasticità mentale» (Darwin, 1872/1975, p. 365).
Un secolo dopo Darwin, lo psicologo Paul Ekman ha mostrato come i muscoli facciali svolgano un ruolo importante nel sorgere di alcune emozioni. In un noto esperimento, ad alcune persone era stato chiesto di tenere una matita fra i denti (cosa che li obbligava ad assumere un’espressione artificiosamente sorridente) mentre ad altri veniva chiesto di tenere una matita fra le labbra (il che impediva loro di sorridere). Il risultato fu che, dopo aver visto il medesimo film, il primo gruppo sosteneva di aver provato un divertimento maggiore di quanto non avesse provato il secondo (Ekman, Oster, 1979). Altri esperimenti hanno dimostrato che le persone che riproducono le espressioni facciali di emozioni come paura, rabbia e dolore, riferiscono in seguito di aver provato con maggiore intensità l’emozione riprodotta dal loro viso.
Infine, un testo sul linguaggio dei sintomi ci informa che: «È stato provato, per esempio, che camminare seguendo percorsi irregolari può aumentare la nostra creatività, stringere un pugno può accrescere costanza e determinazione, assaggiare una bevanda dolce può renderci più romantici e sedere su una sedia traballante mentre parliamo del nostro rapporto di coppia ce lo fa percepire più instabile» (Pacori, 2016, p. 3). Inoltre, camminare nella natura inibisce la tendenza a rimuginare, fare jogging impedisce la depressione e infonde buon umore e tante altre attività fisiche hanno un impatto rilevante – e spesso imprevisto – sulle condizioni mentali.
Anche la teoria dell’embodied cognition (“cognizione incarnata”, in italiano) suggerisce che corpo e mente non sono due entità cartesianamente distinte e separate, ma interagiscono in modi sorprendenti. Il corpo condiziona o stimola i processi cognitivi, nel senso che esso può vincolare, agevolare o frenare questo o quel processo cognitivo. Addirittura, le abilità cognitive che si possiedono possono essere determinate dalle caratteristiche morfologiche e dinamiche del proprio corpo (Shapiro, 2011). Ad esempio, è accertato che gesticolare durante una conversazione aiuta la comunicazione e non è un semplice orpello fisico perché indirizza il pensiero in una certa direzione. Allo stesso modo, apprendere un concetto sedendo in posizione immobile (come avviene a scuola), non è la stessa cosa che apprenderlo passeggiando. Ancora, tenere in mano la tazza di una bevanda bollente spinge a ritenere gli altri più cordiali e “caldi”, camminare lentamente attiva lo stereotipo dell’anziano, annuire con il capo mentre si ascolta un messaggio persuasivo aumenta la suscettibilità alla persuasione.
La teoria dell’embodied cognition insegna che questi principi si applicano anche al modo di vestire: se vestiamo punk ci sentiremo in un modo; se vestiamo nerd ci sentiremo in un altro; se vestiamo una tuta ci sentiremo più scattanti; se indossiamo un paio di occhiali ci sentiremo più intellettuali; se mettiamo su una divisa militare avvertiremo una maggiore rigidità e così via. E, se indossiamo un saio, la nostra condizione spirituale avvertirà un cambiamento. Il modo in cui pieghiamo il nostro corpo e i nostri muscoli, anche attraverso gli abiti, non lascia indifferente la nostra mente.
Hajo e Galinsky hanno coniato al riguardo il termine enclothed cognition per descrivere l’influenza sistematica che gli abiti esercitano sui processi psicologici di chi li indossa. Per i due ricercatori, la enclothed cognition comporta l’azione simultanea di due fattori indipendenti: il significato simbolico associato agli abiti e l’esperienza fisica dell’indossarli. In una serie di esperimenti virtuali, effettuati somministrando una prova Stroop (si tratta di un esercizio in cui ai soggetti vengono mostrate delle parole stampate con inchiostro di vari colori, e viene loro chiesto di dire di che colore è l’inchiostro, ignorando le parole. I soggetti eseguono il compito abbastanza facilmente, tranne quando si imbattono in parole che indicano colori diversi da quelli dell’inchiostro con cui le parole sono stampate. Per esempio, se la parola rosso è stampata in inchiostro verde, i soggetti spesso esitano o si confondono nel dire verde, come se non riuscissero ad ignorare il significato della parola. Il risultato finale è che occorre molto più tempo per dire che la parola “verde” è scritta in rosso piuttosto che per denominare il colore con cui è scritta qualunque altra parola che nulla ha a che fare con i colori), Hajo e Galinsky mettono alla prova l’ipotesi secondo cui indossare un camice di laboratorio aumenta la prestazione in compiti che hanno a che fare con l’attenzione ai dettagli. I risultati dimostrano che nelle situazioni in cui si indossa un camice aumenta l’attenzione selettiva rispetto a quando non si indossa un camice. Indossare il camice di un dottore aumenta l’attenzione sostenuta rispetto a quando si indossa un camice di laboratorio. In poche parole, indossare un abito ha un effetto potente sulla psiche: i vestiti che indossiamo “invadono” corpo e cervello, modificando il nostro stato psicologico.
Indossare determinati abiti induce le persone a “incorporare” il significato simbolico degli abiti. Gli abiti esercitano una profonda influenza sui processi psicologici delle persone attivando concetti astratti associati tramite i loro significati simbolici. Così, indossare il saio di un monaco ci rende persone più etiche perché questo tipo di indumento è associato, nella nostra mente e nella nostra cultura, a una condotta spirituale non ordinaria.
Di questo meccanismo era già consapevole il giornalista Indro Montanelli, il quale, nel lontano 1959, aveva individuato la seguente soluzione per debellare la “piaga” dei teddy-boys (Montanelli, 1959, cit. in Triani, 1990, p. 144):
Cosa succederebbe se si proibisse la vendita dei blue jeans? Io non ho creduto molto alle proibizioni. Ma in questo caso la misura forse avrebbe un certo effetto. I blue jeans sono, agli occhi di questa teppaglia, una divisa, che, una volta indossata, impone certi obblighi. Sono sicuro che fra i teddy boys ci sono dei bravi ragazzi che non avevano nessuna intenzione di diventarlo. Ma poi infilate le gambe in quei tubi, si lasciarono anche crescere i riccioletti sulla nuca, si guardarono allo specchio e d’improvviso si annusarono addosso puzzo di “bruciato”. Chi l’ha detto che l’abito non fa il monaco. Lo fa eccome. Provatevi a togliere a qualunque esercito l’uniforme; e vedrete che il rendimento dei soldati, il loro coraggio, la loro decisione, per non parlare della disciplina, si riducono del settantacinque per cento.
Insomma, le recenti ricerche della psicologia dimostrano, al di là di ogni esitazione, che l’abito fa davvero il monaco e che ciò che si indossa ha un indubbio effetto sulla nostra psiche a dispetto del luogo comune secondo cui il nostro vero io è indipendente da ciò che utilizziamo per coprire e ornare il nostro corpo. In casi estremi, può verificarsi anche una profezia che si autoavvera. Come diceva il filosofo francese Pascal, si può suscitare la fede in un individuo, inducendolo a comportarsi “come se” credesse, ad esempio invitandolo a pregare, a bagnarsi con acqua santa, ad andare a messa, a recitare il rosario (Pascal, 1987). E probabilmente anche a indossare un saio.
Riferimenti
AA.VV., 2016, Il pregiudizio universale, Laterza, Roma-Bari.
Bickman, L., 1971, “The effects of social status on the honesty of others”, The Journal of Social Psychology, vol. 85, pp. 87-92.
Bickman, L. 1974, “The Social Power of a Uniform”, Journal of Applied Social Psychology, vol. 4, n. 1, pp. 47-61.
Costa, M., 2006, Psicologia militare, Angeli, Milano.
Darwin, C., 1872/1975, The expression of the emotions in man and animals, University of Chicago Press, Chicago.
Ekman, P., Oster, H., 1979, “Facial Expressions of Emotion”, Annual Review of Psychology, vol. 30, pp. 527-554.
Emswiller, T., Deaux, K., Willits, J. E., 1971, “Similarity, sex and requests for small favors”, Journal of Applied Social Psychology, vol. 1, pp. 284-291.
Hajo, A. Galinsky, A., 2012, “Enclothed Cognition”, Journal of Experimental Social Psychology, vol. 48, n. 4, pp. 918–925.
Manzoni, A., 1985, I promessi sposi, Mondadori, Milano.
Meli, E., 2023, “Dimmi come ti vesti e ti dirò come ti sentirai (tutto il giorno)”, Corriere della Sera, 2 aprile, p. 49.
Milgram, S., 1975, Obbedienza all’autorità, Bompiani, Milano.
Montanelli, I., 1959, “Per sradicare i “teddy-boys” qualche proposta di buon senso”, Domenica del Corriere, 29 agosto.
Ovidio, 1994, L’arte di amare, Fabbri, Milano.
Pacori, M., 2016, Il linguaggio segreto dei sintomi, Sperling & Kupfer, Milano.
Pascal, B., 1987, Pensieri, Mondadori, Milano.
Poe, E. A., 1885, Nuovi racconti straordinari, Sonzogno, Milano.
Shapiro, L., 2011, Embodied Cognition, Routledge, London and New York.
Triani, G., 1990, Mal di stadio. Storia del tifo e della passione per il calcio, Edizioni Associate, Roma.