Sul monito “Sii te stesso!”

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Quando ero adolescente e mi ponevo il problema di come avvicinare una ragazza, mi sentivo dire immancabilmente: “Sii te stesso!”, come se in questa frase fosse celato il segreto delle relazioni umane. Da allora queste tre parole le ho sentite mille volte. Nelle conversazioni con amici, in televisione, al cinema, nei romanzi, nelle rubriche giornalistiche sui casi umani. Come se il suo significato fosse autoevidente, apodittico. Basta essere se stessi e tutto si aggiusta. Ma è davvero così? E poi: che cosa significa essere se stessi? Ho sempre pensato che noi non conosciamo mai in fondo noi stessi. Siamo ignoti, inafferrabili e imprevedibili a noi stessi. Ad esempio, crediamo che X non sarà mai di nostro gusto, poi ne facciamo esperienza e sappiamo di non poterne più fare a meno. Qual è il nostro vero sé? Quello prima o quello dopo X? Se non ho mai rubato in vita mia e improvvisamente sottraggo una banconota da cento euro a un amico, sono un ladro o no? Per la legge lo sono, certo. Ma in termini di identità, lo sono? Può il mio vero sé, onesto per 40 anni, diventare il sé di un ladro, per un gesto compiuto in pochi minuti?

Ognuno di noi è diverso in diverse fasi della vita: può desiderare ciò che un tempo rifiutava, essere disgustato da ciò che un tempo ambiva. Vedo alcune mie vecchie fotografie e rimango sbalordito dalle scelte estetiche da me compiute 20 anni fa. Qual è il mio vero io? Quello di oggi o quello di 20 anni fa? E poi che senso ha parlare di “essere se stessi” in adolescenza, un’età della vita caratterizzata da continua evoluzione (non a caso gli psicologi parlano di “psicologia evolutiva”).

Come ci insegnano la sociologia e la psicologia sociale, alcune parti di noi emergono in rapporto alla situazione sociale che stiamo vivendo o al tipo di interazione sociale in cui siamo coinvolti. «L’idea che si ha di sé è sempre riferita all’altro, perché mette in gioco condivisioni, scelte valori, comportamenti che comunque si riferiscono al proprio essere sociale» scrive Gabriella Turnaturi in Tradimenti. Io mi sento tremendamente introverso, se non addirittura timido, quando sono in presenza di certe persone; entusiasta e ciarliero in presenza di altre (ciò, fra l’altro, ci dice che sbagliamo quando pensiamo che tratti come l’introversione e l’estroversione siano assoluti). Io sono una certa persona quando sono con mio padre, un’altra quando sono con il mio capo, un’altra ancora quando sono con mia moglie. Qual è il mio vero sé? Se una ragazza che ritengo speciale mi fa sentire straordinariamente su di giri e vorrei conquistarla, che significa il consiglio “Sii te stesso!”, quando proprio con lei io mi sento come non mi sono mai sentito prima? Se lei ha stravolto il mio sé, che significa “essere me stesso”, quando sento ora di avere un nuovo “me”, completamente diverso da quello di prima? Noi cambiamo secondo le reti di relazione in cui siamo inseriti, anche se facciamo finta di non saperlo perché la nostra identità si fonda sulla convinzione che siamo gli stessi da quando nasciamo fino alla morte.

È per lo stesso motivo, incidentalmente, che il tradimento del partner ci coglie di sorpresa. Crediamo che la persona che abbiamo sposato rimarrà la stessa per tutta la vita – questo è il presupposto inconfessato del “finché morte non vi separi” – ma in realtà le persone cambiano incessantemente e cambiano a volte proprio perché sono inserite in una nuova relazione: quella matrimoniale. L’amore è eterno finché dura, afferma una nota boutade. Ed è vero. Finché siamo innamorati il nostro sentimento ci sembra speciale e destinato a durare per sempre; quando non lo siamo più svanisce e con esso la sensazione di eternità.  Abbandoniamo continuamente nuovi legami e ne intessiamo altri; cediamo vecchie appartenenze e scopriamo nuove fedeltà. Dove è il vero io in tutti questi passaggi? La verità non è unica, anche se siamo abituati a pensarlo.

Qualcuno dice che il vero sé è quello “autentico”, quello in cui ci si sente “spontanei”. Ma,  a ben vedere, nonostante il culto che la nostra epoca tributa all’autenticità – basti pensare a tutti i reality in cui i protagonisti fanno a gara a chi è più spontaneo a colpi di peti e parolacce – anche questa è una costruzione sociale: nemmeno con le persone con cui sono più intimamente in rapporto posso fare tutto ciò che voglio. Se lo facessi rischierei di compromettere la relazione. Perfino la spontaneità è regolata da sottili norme sociali (sì, esiste anche un modo socialmente regolato di dire parolacce “spontaneamente”).

Io non so che cosa significhi “essere me stesso”. Non lo sapevo nemmeno quando ero adolescente. So però che la nostra identità è mutevole e dipendente da mille circostanze sociali. Uno, nessuno e centomila. Non uno. Non nessuno. Centomila.

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