Si può profetizzare a ritroso? È possibile applicare facoltà “straordinarie” per divinare il passato invece che il futuro? E se queste facoltà non fossero poi tanto straordinarie, ma solo “vecchio” senso comune applicato metodicamente?
Sembra essere questa l’essenza dell’ossimorico termine “profezia retrospettiva”, coniato da Thomas Henry Huxley (1825-1895), scienziato positivista, nonché inventore del termine “agnosticismo” (1869), il cui principale insegnamento morale ed epistemico è riassumibile in poche parole d’ordine: umiltà di fronte alle prove della scienza, rifiuto di avventurarsi nell’inconoscibile e fede nell’ordine della natura e nell’assoluto determinismo.
Autore di un numero straordinario di pubblicazioni scientifiche, evoluzionista intelligente e convinto, tanto da essere soprannominato il “bulldog di Darwin” per l’ostinata difesa delle teorie del maestro dalle dure accuse rivoltegli da religiosi suoi contemporanei, secondo cui la selezione naturale finiva con l’avvilire la religione e la dignità umana, Huxley scrisse di biologia, antropologia, paleontologia, zoologia, etnologia, filosofia, politica, sociologia (seppure una sociologia ante litteram), critica religiosa (celebri ancora oggi i suoi testi polemici in favore della libertà di pensiero e dell’interpretazione critica dei testi sacri), mostrando una versatilità ammirevole che, unita a una notevole vis pugnandi, ne fecero uno dei personaggi più noti e influenti della scena filosofica inglese di fine Ottocento.
Rispettabile membro dell’establishment vittoriano e titolare in tarda età di una serie di cariche prestigiose (componente del London School Board, presidente della Royal Society, fiduciario del British Museum), Huxley propugnò vivacemente l’applicazione costante e inflessibile del metodo delle scienze della natura, unico metodo in grado di produrre il vero sapere. Fu uno dei primi scienziati ad abbracciare la scienza come professione, in un’epoca, quella vittoriana, in cui essa era per lo più praticata da persone che disponevano di tempo libero. Fidando razionalmente nel metodo scientifico basato sull’analisi empirica dei fatti, lo scienziato inglese era convinto che esso fosse da applicare non solo ai fatti del presente, ma anche a quelli del passato.
Ed è a questo riguardo che Huxley conia, nell’articolo “On the Method of Zadig. Retrospective Prophecy as a Function of Science” (1880), qui da me tradotto in italiano, l’espressione “profezia retrospettiva” che, lasciata inesplicata, potrebbe indurre dei dubbi sulla coerente adesione dello scienziato a una visione positivista e deterministica del mondo. In realtà, il termine “profezia” non va inteso in senso mistico-religioso ma come facoltà in grado di farci comprendere “ciò che fino a prima andava oltre la sfera della conoscenza immediata”, facendoci vedere “ciò che era invisibile al senso naturale del vedente”. Tale comprensione non avviene in seguito a una intuizione trascendente o metafisica, bensì per mezzo dell’applicazione di un metodo rigorosamente empirico, fondato sull’osservazione meticolosa e sull’assioma “secondo cui da un effetto si può risalire alla causa competente a produrre quell’effetto”.
Centrale in questa impresa è la capacità di osservare con sagacia le relazioni tra cause ed effetti. In questo senso, Huxley fa sua la lezione di Zadig, il personaggio fantastico di cui parla il filosofo francese Voltaire (1694-1778), che da una semplice traccia nel terreno o una depressione nella sabbia è in grado di ricostruire il passaggio del cavallo del re o della cagna zoppicante della regina (“indovinando” anche che era zoppa). La sagacia non è qualità di tutti: non a caso le doti di Zadig sono fraintese dai suoi contemporanei per abilità quasi magiche e gli costano guai a ripetizione. Un po’ come le doti di un altro personaggio vittoriano di fantasia, Sherlock Holmes, in grado di stupire amici e nemici, esibendo capacità di osservazione fuori del comune.
Ma questa facoltà di “vedere” il passato, ossia di applicare quello che sarà poi chiamato metodo abduttivo, non è appannaggio di personaggi di invenzione, ma è alla base del progresso delle scienze naturali e storiche, tanto che sue brillanti illustrazioni sono rinvenibili nell’attività di scienziati come lo zoologo George Cuvier (1769-1832) capace di risalire “magicamente” da un dente o da un osso al tipo di animale dotato di quel dente o osso, o in discipline come l’archeologia, grazie alla quale è possibile risalire da un frammento di pietra a un insediamento umano di migliaia di anni prima con una buona approssimazione alla verità, o come l’astronomia, in grado di rivelarci il verificarsi di remoti fenomeni celesti di cui altrimenti non sapremmo nulla.
Il metodo di Zadig è universale perché si basa sulla regolarità dell’ordine naturale ed è congeniale al senso comune in quanto presuppone che ogni azione umana si regga, come detto, sul postulato che a ogni effetto corrisponda una causa. Alla luce di tale metodo, perfino la ricostruzione dei fatti miracolosi narrati dalla Bibbia appare altamente improbabile ed è più facilmente spiegabile ricorrendo a nozioni di biologia e fisiologia che ai redattori del Nuovo e dell’Antico Testamento erano sconosciute. Al contrario, la fede, che presuppone la credenza in eventi altamente improbabili conservandone l’improbabilità, non ha interesse ad applicare i metodi della scienza e si colloca così su un orizzonte coerentemente impossibile agli occhi di quella. La fede disdegna le investigazioni che potrebbero ridurre a fatti umani e spiegabili miracoli e personaggi e ricerca significati non riconducibili al vaglio della ragione. È per questo che, secondo Huxley, scienza e teologia sono nemici mortali destinati a darsi battaglia fino al prevalere di uno dei due.
Lo scienziato inglese conclude il suo articolo, “profetizzando”, da buon positivista, che “in un futuro non molto distante, l’applicazione del metodo di Zadig a un maggiore numero di fatti di quanti l’attuale generazione abbia la possibilità di esaminare, consentirà al biologo di ricostruire lo schema della vita fin dai suoi inizi e di descrivere con sicurezza le caratteristiche di esseri da tempo estinti, ma di cui non si è conservata alcuna traccia”.
Si tratta di un’affermazione forte, il cui vigore, quasi fideistico, contrasta con il clima di spaurita sfiducia nella scienza che noi che abbiamo la ventura di vivere nel terzo millennio sperimentiamo ogni giorno. I rivali del buon senso – gli equivalenti dei “maghi” con cui si confrontava Zadig – sono ancora lontani dall’estinguersi, come si augurava Huxley, e, anzi, prosperano, magnificando la propria irrazionalità dai tanti pulpiti social che la contemporaneità offre loro. Abbondano, peraltro, i laureati dell’Università di Internet, tanto diversi dai “laureati dell’Università della Natura”, che sempre Huxley celebra nel suo articolo.
Ciò, comunque, non è un buon motivo per smettere di coltivare la sagacia e l’impegno che sono attributi propri della scienza. Anzi, in fondo, dovrebbe stimolarci ancora di più a (continuare a) leggere “On the Method of Zadig”, nella speranza che lo spirito del personaggio di Voltaire possa sempre illuminare le nostre conoscenze.