Il suicidio è da sempre visto come una manifestazione di disperazione individuale, un atto risalente alla tragedia di un singolo e il senso comune ha dovuto faticare non poco per acquisire la consapevolezza che esso ha anche una dimensione sociale. Da questo punto di vista, resta indimenticabile la lezione di Durkheim, che ha dimostrato la grande capacità esplicativa della sociologia nell’interpretare questo atto sconvolgente.
Suicidi, a cura di Enrico Caniglia e Cirus Rinaldi (PM Edizioni, 2021) è un’antologia che raccoglie alcuni studi inediti o di nicchia di sociologi che hanno considerato il suicidio da un punto di vista costruzionista (declinato secondo prospettive che vanno dall’interazionismo simbolico, all’etnometodologia alla fenomenologia), esaminando, cioè, come la stessa definizione di suicidio sia l’esito di un sapere condiviso e negoziato, spesso debitore del senso comune, orientato a fini pratici, ma straordinariamente interessante da indagare archeologicamente.
I contributi presentati sono di autori classici come Jack Douglas, Harold Garfinkel, Harvey Sacks e Jerry Jacobs e offrono, per dirla con i curatori, «una summa di grande interesse dei modi originali con cui le sociologie costruzioniste hanno re-immaginato lo studio dei suicidi andando oltre la rigidità dello schema “cause e cure” degli approcci positivisti ed arricchendo di sfumature la nostra comprensione del fenomeno».
Tra gli articoli presentati, vorrei ricordare quello di J. Maxwell Atkinson, intitolato “Reazioni sociali al suicidio: il ruolo delle definizioni del coroner”, che ho avuto la fortuna di tradurre.
Atkinson mostra come definire un atto “suicidio” non sia affatto facile e come il sapere del coroner e quello del senso comune contribuiscano, tramite una serie di assunti spesso dati per scontati, a questo sforzo socio-cognitivo dall’esito non sempre scontato.
Per dirla con lo stesso Atkinson:
La nostra tesi […] è che i dati ricavabili dai coroner hanno una importanza centrale per l’analisi dei significati sociali del suicidio. Non solo i coroner condividono, in una qualche misura non determinabile, le definizioni di suicidio diffuse in un dato momento nella società, ma sono nella condizione di confermare queste definizioni pubblicamente e perfino di introdurne di nuove. Definendo determinati decessi come suicidi, è come se essi, in effetti, dicessero alla società: «Questo è il tipo di decessi definibile come suicidio, questo è il tipo di situazioni in cui le persone si suicidano e questo è il tipo di persone che si suicidano». Alla luce del fatto che, in Inghilterra e Galles, le corti dei coroner sono pubbliche e che le loro inchieste sono argomento di grande e costante interesse per i media locali e, talvolta, nazionali, i coroner svolgono una funzione estremamente importante nel confermare e, qualche volta, modificare le definizioni condivise delle situazioni suicidarie, in quanto essi possono essere considerati coloro che definiscono ciò che costituisce suicidio in una data società in un dato momento. Di conseguenza, se dobbiamo individuare i significati condivisi di suicidio prevalenti in una data società, dovremo riservare uno spazio preponderante delle nostre ricerche all’analisi delle decisioni prese dai coroner e dai loro equivalenti.
Le parole di Atkinson mostrano tutta la difficoltà e l’assoluta mancanza di banalità del processo decisionale che conduce alla diagnosi di “suicidio”. Tutto il libro, poi, convalida questa difficoltà. Per quanto spesso inconsapevoli, siamo noi stessi, attraverso le nostre interazioni, le nostre parole, le nostre convinzioni e aspettative a costruire l’oggetto “suicidio” per poi, subito dopo, “dimenticare” di avere contribuito a costruirlo e considerarlo come un concetto essenziale, eterno, immutabile. Una immutabilità che il sociologo si pone il compito di decostruire radicalmente.