L’ultima in ordine di tempo è stata Ilaria Naldini di Castelfranco di Sopra, in provincia di Arezzo; l’ultimo genitore (per il momento) in Italia a dimenticare la propria figlia in auto. Una dimenticanza fatale che ha causato la morte di Tamara Rossi di appena 16 mesi. Le cronache dicono che, a seguito dell’accaduto, i genitori della bambina hanno dovuto chiudere i loro profili social, essendo diventati bersaglio di incessanti contumelie. Secondo l’opinione corrente, infatti, chi si rende protagonista di un atto del genere, per quanto involontario, è un genitore degenere, che non merita nemmeno la qualifica di essere umano. Un mostro che non ha scusanti. Un aborto della natura. Un essere raccapricciante come pochi. Un pazzo, forse. Non a caso chi biasima episodi del genere tende a pensare che “questo non potrebbe mai accadere a me”.
In realtà, stando ad alcuni dati (un po’ superati, a dire il vero) riportati in un opuscolo del Ministero della Sanità, il fenomeno è tutt’altro che raro. Leggiamo ad esempio:
Negli Stati Uniti muoiono ogni anno in media 36 bambini a causa dell’ipertermia per essere stati lasciati in auto, per un totale di 468 morti negli ultimi 12 anni.
In Francia la Commissione per la sicurezza dei Consumatori ha rilevato che, tra il 2007 e il 2009, ci sono stati 24 casi di ipertermia in bambini rimasti chiusi in macchina, di cui 5 mortali.
Il 54 % dei genitori aveva lasciato intenzionalmente il bambino in auto, per svolgere qualche commissione, sottovalutando il rischio legato a tale comportamento.
Il 46% aveva dimenticato il bambino in automobile recandosi al lavoro o tornando a casa.
Secondo un’altra fonte, in Italia, sono 6 i casi verificati dal 2008 a oggi.
Sono tutti folli o immorali i protagonisti di questi numeri? E se la follia e l’immoralità non fossero una spiegazione valida, come è possibile interpretare questi casi di “morte per ipertermia” come recita la dizione tecnica?
Gli psicologi spiegano questi episodi in termini di “sovraccarico cognitivo”: viviamo in una società che ci sottopone a continui stimoli, pressioni, impegni. Spesso siamo chiamati a fare più cose contemporaneamente – guidare, parlare al telefono, inviare SMS, passare rapidamente dal luogo di lavoro alla palestra, alla scuola – a prendere più decisioni insieme, a trovare soluzioni immediate a richieste subitanee e contestuali. Tutto ciò condiziona il nostro sistema cognitivo che, avendo dei limiti, non riesce a performare al meglio (per usare un brutto calco linguistico). Troppe cose, tutte insieme. È probabile che chi ama coniare etichette definirà un giorno la nostra società la “società della contemporaneità”.
Gli psicologi parlano anche di “amnesia dissociativa”, quando la persona “al momento del fatto era completamente incapace d’intendere e di volere per il verificarsi di una transitoria amnesia dissociativa”, e di “cecità e sordità da disattenzione”, quando un determinato stimolo visivo o sonoro entra nel nostro campo percettivo senza essere elaborato dal cervello. In questo modo, non riusciamo a vedere o sentire uno stimolo che pure è lì davanti a noi. Così chi è convinto di aver trasportato il figlio a scuola, preso da mille altre sollecitazioni, può addirittura vederlo o sentirlo nel retro della macchina, senza vederlo o sentirlo davvero perché, intanto, altri stimoli reclamano la sua attenzione.
Come dice Massimo Blanco, autore di Fondamenti di Neurosociologia, la disattenzione sociale è direttamente legata al nostro stile di vita ed è probabile che, con l’intensificarsi della vita quotidiana simili episodi accadranno con sempre maggiore frequenza, pur rimanendo comunque assolutamente minoritari:
I telefoni cellulari, Internet, i social network, i servizi di messaggistica istantanea, gli iPod, la televisione ecc., influiscono sulle nostre attività cerebrali compromettendo la nostra vita sociale, dal livello interattivo più basso, come una semplice occhiata con un passante per strada, sino ad arrivare alle complesse relazioni sociali come l’accudimento genitoriale, passando per le attività potenzialmente a rischio sicurezza come la guida di un veicolo. Le cause di tutto ciò non sono psichiche ma sociali.
È importante sottolineare la dimensione sociale di eventi del genere, perché la loro eccessiva psicologizzazione corre il rischio di ingenerare una attenzione eccessiva al singolare, all’unico, all’eccezione, al folle, quando, invece, è la forma particolare che ha assunto la vita di tutti noi nell’ultimo secolo a incubare distrazioni del genere. Sicuramente, prendersela con i genitori, inveire contro di loro e chiamarli mostri non serve a nulla, se non ad aggiungere danno a tragedia.
Un’ultima notazione riguarda chi accusa i genitori sbadati di immoralità e cattiveria. Agisce in questo caso un bias mentale particolarmente potente – detto outcome bias, in inglese – per cui l’esito funesto di un evento, come la morte di un bambino, fa scattare nella mente degli osservatori l’idea che a “effetto grande” debba corrispondere una “causa grande” e quindi a una morte debba corrispondere una causa superiore a una semplice distrazione. Di qui l’imputazione di perversità, malvagità, immoralità. In ambito giudiziario, questo bias si palesa in tutta la sua evidenza nei processi per reati colposi quando le conseguenze dannose sono particolarmente gravi: più è grave la conseguenza, più si tenderà ad attribuire al responsabile colpe maggiori. Questo è esattamente quello che succede nel caso dei bambini morti in auto per una dimenticanza.
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