Ho l’impressione che Tom Wolfe (1930-2018), il celebre autore, recentemente scomparso, de Il falò delle vanità, avesse ragione quando diceva: «Il successo dipende da tre cose: da chi parla, da cosa dice e da come lo dice. E di queste tre, il cosa dice è la meno importante».
Prendiamo un qualsiasi argomento: calcio, politica, letteratura. Invitiamo due persone diverse a parlarne. È assodato che, a parità di contenuto, risulterà più credibile – e quindi avrà più successo – chi, per un qualsiasi motivo, apparirà più autorevole, istituzionale, competente, affidabile. L’opinione di un ex arbitro su un episodio calcistico sarà tenuta in maggiore considerazione di quella di un individuo qualsiasi, anche se le due coincidono. Un politico che esprime un suo punto di vista sarà ritenuto più degno di attenzione del vicino di casa che pure dice la stessa cosa. Un giudizio sprezzante su un romanziere sarà considerato più valido se a pronunciarlo è un critico letterario piuttosto che un compagno di classe. Talvolta, l’effetto “fonte” è talmente evidente da apparire imbarazzante. È il caso degli ex presidenti di una nazione o degli ex parlamentari, prima ricercati da tutti per le loro opinioni, poi abbandonati a se stessi una volta tornati “persone normali”.
Ma il successo di un contenuto dipende non solo da chi lo dice, ma anche da come lo dice. Oggi, è evidente che sbraitare, indignarsi, insultare, ridicolizzare, impedire all’altro di parlare sono tecniche sempre più vincenti, che trasferiscono al pubblico la convinzione che chi è più in grado di interpretare “ruoli sbraitanti” abbia ragione e debba essere premiato in termini di ascolti e successo. Ciò che più inquieta è il fatto che la prevaricazione verbale sia diventata una vera e propria tecnica dialogica, e sia talmente diffusa che, quando non è presente, il pubblico si sente defraudato, quasi mancasse un elemento essenziale della comunicazione.
Altro che “parlare forbito e misurato”. Oggi il comunicatore di successo deve essere sbracato e strafottente perché il pubblico ama proiettare le proprie frustrazioni su dibattenti televisivi che fanno a gara a chi più copre di insulti grossolani l’altro. Il ricco bagaglio della retorica viene così ridotto al solo turpiloquio e chi impreca viene premiato dal bacio lebbroso di spettatori troppo impegnati a ridere all’ennesimo “vaffanculo” per intendere quello che gli altri veramente dicono.