Tra le tante microstorie surreali che si avvitano intorno alla vicenda di Stefano Cucchi, il ragazzo di 31 anni morto nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini di Roma il 22 ottobre 2009, una mi ha colpito in modo particolare. La ricavo dall’articolo di Giovanni Bianconi “Domiciliari mancati e divieti alla famiglia. Tutti gli errori dall’arresto alla morte”, pubblicato a p. 5 del Corriere della sera del 2 novembre scorso (l’articolo è leggibile qui).
Scrive Bianconi:
Nel verbale d’arresto i militari dell’Arma scrissero che Cucchi era «nato in Albania il 24.10.1975, in Italia senza fissa dimora»; peccato che fosse nato a Roma in tutt’altra data, e che l’abitazione in cui risultava ufficialmente residente fosse appena stata perquisita, senza esito, alla presenza sua e dei genitori. Evidentemente il verbalizzante aveva utilizzato, sul computer, il modello riempito in precedenza con i dati di un albanese, senza preoccuparsi di modificarli: una sciatteria che ebbe conseguenze fin dalla mattina successiva, visto che il giudice che convalidò l’arresto negò i domiciliari per la «mancanza di una fissa dimora risultante con certezza dagli atti». Fosse tornato a casa, sia pure da detenuto, probabilmente Stefano sarebbe ancora vivo.
Che cosa ci dice questa notizia? Più cose. La prima è che la storia di Cucchi nasce da un errore che sarebbe facile definire di sciatteria, se non fosse che le conseguenze di questo errore sono state tragiche. La seconda, non desumibile dallo stralcio dell’articolo, è che la vicenda Cucchi è costellata da una serie incredibile di errori per i quali rimando alla lettura dell’intero testo di Bianconi. La terza, quella sulla quale vorrei soffermarmi, è che i guai di Cucchi sono cominciati quando, per un “mero errore materiale”, la sua condizione è stata assimilata a quella di uno straniero. Ora, la vulgata corrente vuole che gli stranieri vengano in Italia a delinquere e, in virtù del noto lassismo penale degli italiani, riescano a evitare il carcere per poi ridersela alla grande ricordando quanto sia invece duro il carcere per i delinquenti nel loro paese. La realtà ci dice una cosa diversa. La percentuale degli stranieri in carcere è molto più elevata di quella degli stranieri condannati, e ancora più elevata rispetto agli stranieri denunciati, il che significa che, in ogni tappa del percorso penale – denuncia, condanna, carcerazione – , gli italiani hanno maggiori possibilità di “uscire” rispetto agli stranieri. Inoltre, le garanzie di difesa degli stranieri, durante il processo, sono spesso ignorate: pochi hanno risorse finanziarie per pagarsi un difensore di fiducia e la possibilità di ottenere il patrocinio gratuito è rara poiché occorre dimostrare di essere poveri, cosa impossibile agli irregolari. Il difensore d’ufficio tende a chiudere il procedimento in fretta, senza approfondire troppo, senza andare al dibattimento, e chiudendo preferibilmente con un patteggiamento, dunque con una condanna. Dopo la condanna, sebbene circa un terzo dei detenuti stranieri scontino condanne inferiori ai tre anni, non godono quasi mai, a differenza degli italiani, di pene alternative, quali affidamento ai servizi sociali o arresti domiciliari (poiché di solito, per ovvie ragioni, il clandestino non ha un domicilio stabile né una famiglia che li ospiti). Infine, i dati rivelano un maggiore utilizzo del carcere come misura cautelare nei confronti delle persone straniere, evidenziando l’esistenza di un ‘doppio binario’ penitenziario per effetto del quale gli stranieri entrano più facilmente in carcere rispetto agli italiani e ne escono con molta più difficoltà, anche quando la condanna inflitta risulta di lieve entità.
Non è vero, dunque, che gli stranieri, a parità di condizione, evitano il carcere a differenza degli italiani. È vero l’esatto contrario. E spero che la vicenda di Stefano Cucchi, se non altro, sia utile a mostrarci quante bugie ancora oggi si dicono intorno al carcere e a chi lo occupa.
Fonte: Palidda S. 2008. Mobilità umane. Milano: RaffaelloCortina, pp. 125-128.