Giudizi superficiali e affrettati hanno suscitato diversi articoli di stampa relativi alla vicenda di Michele Cataldo, reo confesso dell’uccisione della moldava Olga Matei il 5 ottobre 2016 a Riccione. Secondo tali articoli, la Corte di Appello di Bologna avrebbe ridotto la pena inflitta all’uomo da 30 a 16 anni di reclusione perché, si legge su «La Repubblica» del 3 marzo 2019, «strangolò la donna che frequentava da poche settimane in preda a una “tempesta emotiva” scatenata dalla gelosia» (p. 15). Un delitto in seguito a un raptus, insomma
Opinionisti da tastiera e femministe dell’ultimo secondo hanno gridato alla reintroduzione del delitto d’onore e al ritorno della cultura patriarcale senza approfondire la notizia, né concedendole uno sguardo più che superficiale. Ma che cosa è successo realmente?
Innanzitutto, alcune precisazioni. Come ricordo nel mio Delitti, il concetto di raptus non ha alcun fondamento scientifico ed è usato come forma stenografica giornalistica per descrivere vicende di omicidio “inspiegabili” o che sembrano verificarsi in assenza di segnali di allerta. In realtà, andando a scavare, si trova sempre che i segnali c’erano ed erano stati sottovalutati o non erano ancora noti ai giornalisti. Non “inspiegabilità”, dunque, ma ignoranza dei fatti.
In secondo luogo, contrariamente a quanto si sente spesso dire nelle conversazioni quotidiane, per la legge italiana (art. 90 del Codice Penale), «gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità» (intendendo per imputabilità la capacità di intendere e di volere). La legge prevede cioè che le persone, purché sane di mente, debbano esercitare un controllo sulla propria sfera emozionale e non debbano cedere a impulsi antisociali in seguito all’azione di passioni ed emozioni. Ad oggi, l’art. 90 non è stato abolito, né è stato reintrodotto il famigerato art. 587 che concedeva importanti attenuanti a chi compiva un delitto per salvaguardare l’onore suo e della famiglia.
Alla luce di queste precisazioni, ritorniamo sui fatti. Che cosa è successo realmente nella vicenda di Michele Cataldo? Cataldo non è stato improvvisamente riconosciuto incapace di intendere e di volere a spregio dell’art. 90 del Codice Penale. Come ricorda un importante articolo pubblicato su Giurisprudenza penale, La Corte di Appello di Bologna gli ha riconosciuto una serie di circostanze attenuanti generiche, inizialmente non riconosciute dai giudici di primo grado, tra cui la confessione dell’imputato, l’aver tentato di iniziare a risarcire la figlia minore della vittima e, appunto, il forte stato di gelosia.
Si legge, infatti, nella perizia psichiatrica: «La gelosia provata dall’imputato, sentimento certamente immotivato e inidoneo a inficiare la sua capacità di autodeterminazione a causa delle poco felici esperienze di vita, determinò una soverchiante tempesta emotiva e passionale, considerata idonea a influire sulla misura della responsabilità penale». La perizia, dunque, riconosce che la gelosia non inficia la capacità di intendere e di volere, ma può incidere sulla misura della responsabilità penale. Secondo la legge italiana, infatti, «gli stati emotivi e passionali possono essere eventualmente rilevanti ai fini del riconoscimento delle attenuanti generiche» (Cass. Pen., Sez. I, 29 gennaio 2018, n. 4149).
In conclusione, la riduzione della pena inflitta in primo grado a Michele Cataldo non ha nulla a che vedere con il ritorno del delitto d’onore, con la cultura patriarcale, con la prevalenza del raptus e via dicendo, ma rientra in un affermato orientamento giurisprudenziale che concerne la questione delle circostanze attenuanti generiche. È vero. Qualcuno non farebbe rientrare gli stati emotivi tra le attenuanti, ma questo è un altro discorso.
Rimando al mio Delitti per una migliore comprensione del concetto di raptus e della sua (in)fondatezza scientifica.