“Sono ben altri i problemi”

Nel post precedente, ho discusso di uno dei dispositivi retorici attualmente più in voga per screditare l’avversario in una relazione dialettica: l’argomento secondo cui ciò che afferma l’oppositore scaturisce dal fatto che questi “ha tanto tempo libero”.

Un altro dispositivo, anche questo molto diffuso, è talmente celebre da aver meritato la coniazione di un neologismo ad hoc e una voce su Wikipedia e sulla Treccani. Sto parlando del “benaltrismo”.

Il benaltrismo è la strategia retorica che consiste nello svalorizzare il discorso dell’avversario contrapponendogli questioni o problemi “ben più” gravi, seri, importanti, rilevanti di cui discutere.

Secondo la funzione Ngram Viewer di Google, la frequenza d’uso del termine ha cominciato a decollare dal 1985, almeno considerando il corpus testuale di cui dispone Google. Ma è ormai evidente che il ricorso a questo espediente sia estremamente popolare, soprattutto in contesti dialogici.

Gli esempi sono numerosissimi.

Si va dal tifoso che, di fronte all’evidenza di un rigore fasullo concesso alla propria squadra, obietta: “E allora, i due rigori regalati alla tua squadra?” al sostenitore dei diritti civili degli omosessuali che si sente contestare: “E allora i diritti sociali?”. C’è chi evidenzia i gravi problemi di inclusione sociale patiti dagli immigrati solo per sentirsi contrapporre la “maggiore importanza” dei problemi degli italiani, che, naturalmente, vengono prima. O chi caldeggia la costruzione di un ponte sullo Stretto di Messina e viene contestato da chi ritiene che i problemi infrastrutturali della Sicilia sono ben altri. O chi accusa il Governo russo di violare i diritti umani in Ucraina per poi sentirsi ribattere che anche l’Occidente ha violato i diritti umani.

Il benaltrismo confina con un’altra strategia retorica, denominata whataboutism, dall’inglese “What about…?” (“E allora…?”), che consiste nel rinfacciare all’avversario la medesima accusa che l’avversario scaglia su di noi, come nel seguente esempio: «Voi avete candidato alle elezioni X che è stato condannato per concussione. Non vi vergognate?». «E voi, allora, che avete candidato Y, già condannato per corruzione in primo grado?».

Sia nel caso del benaltrismo che in quello del whataboutism, l’obiettivo è sempre lo stesso: deviare il discorso, evitare il dibattito, eludere il problema. I contendenti si rimpallano in continuazione la rilevanza dei loro temi, opponendo agli avversari una sorta di celodurismo argomentativo. Questi, a loro volta, rispondono simmetricamente, generando un circolo vizioso in cui tutti delegittimano tutti e dei temi non si discute mai.

Il risultato è che nessuno riesce più a confrontarsi su niente perché ci sarà sempre un argomento più degno, più meritevole, più urgente di cui parlare. Chi ne esce sconfitto ed esautorato è il dibattito pubblico. Per riconquistarlo, è necessario accantonare ogni forma di benaltrismo, anzi ogni forma di elusione, e avere il coraggio di non rifugiarsi dietro paraventi verbali che servono solo a disinnescare la discussione e a spodestarla sin dall’inizio.

Il benaltrismo è l’arma di chi non tollera il confronto con l’altro, di chi preferisce il non fare al fare. È il sintomo di un’accidia da cui siamo afflitti in molti e di un assestamento su posizioni esclusivamente difensive che serve solo a scansare guai. Meglio, allora, riporlo in soffitta insieme alle (tante) altre armi che avvelenano il dibattito pubblico.

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