Si discute molto ultimamente dell’efficacia o no dei sondaggi. Sono uno strumento di conoscenza o di manipolazione? Riflettono la realtà o la creano? Non voglio impegnarmi in una discussione metodologica riguardante vizi e virtù dei sondaggi in generale, ma riflettere sulle conseguenze di un sondaggio online commissionato dalla Chiesa Anglicana alla ICM Research, somministrato a 2.015 adulti residenti in Inghilterra, Scozia e Galles e condotto tra il 13 e il 14 marzo 2013. Leggendo la sintesi dell’indagine si apprende che quattro britannici su cinque credono nel potere della preghiera. Non solo. Ma che il 31% degli intervistati ha pregato per la pace nel mondo, il 27% per la fine della povertà, il 26% per un familiare, il 16% per “gratitudine”, il 15% per curarsi e via dicendo. Commentando i risultati del sondaggio, il vescovo di St Albans, Alan Smith ha detto: «La preghiera è una delle risposte umane più naturali e istintive. Questi dati, dunque, non mi sorprendono. Quasi ogni giorno incontro persone che vogliono parlarmi della preghiera e di come pregare». Sembrerebbe, dunque, che la preghiera sia un elemento importante della vita di molti britannici. Se si va a fondo, però, si scopre che le cose non stanno esattamente così. Basta leggere il comunicato della Church of England per rendersi conto che, semplicemente, non è vero che quattro britannici su cinque credono nel potere della preghiera. La domanda principale del sondaggio, da cui scaturiscono i risultati descritti, infatti, è: “Irrespective of whether you currently pray or not, if you were to pray for something at the moment, what would it be for?” che, tradotta, significa: “Indipendentemente dal fatto che lei preghi o no, se ora dovesse pregare per qualcosa, per che cosa pregherebbe?”. La domanda, quindi, non chiede all’intervistato se crede nel potere della preghiera, né se abitualmente prega, ma propone uno scenario virtuale entro cui può agire tanto il credente quanto l’ateo più convinto. Le rispose possono essere al più un indicatore del grado di importanza di certi temi rispetto ad altri (anche se “pregare per la pace nel mondo” sa tanto di frase fatta o di facile lezioncina appresa a scuola), ma certamente non misurano l’impatto che la preghiera ha nella vita delle persone né le loro credenze al riguardo.
Si può senz’altro dire che, in questo caso, i risultati dell’indagine siano stati manipolati o piegati a interessi di parte in un periodo “ideologicamente propizio” per la Chiesa (parlo della pasqua). E che da questa notizia è possibile ricavare una lezione di vita fondamentale per i nostri tempi: prima di leggere i titoloni relativi agli esiti di una ricerca, bisogna sempre informarsi su come la ricerca è stata condotta e quali sono le domande poste.
C’è dell’altro, però. Indagini del genere segnalano l’interesse religioso per la preghiera e le sue conseguenze. Ma le preghiere sono davvero efficaci? Se volete una risposta a questa domanda, vi invito a leggere un breve testo di sir Francis Galton, statistico, matematico e pensatore inglese dell’Ottocento, da me tradotto e intitolato Indagini statistiche sull’efficacia della preghiera, in uscita prossimamente presso la casa editrice Il Nuovo Melangolo di Genova. Si tratta di una lettura eccentrica, brillante e innovativa a proposito di un tema su cui tutti si sono, prima o poi, interrogati nella vita: se prego per un amico malato, questo guarirà più facilmente di un individuo per il quale nessuno prega? Una domanda affascinante alla quale Galton risponde in maniera altrettanto affascinante.
A presto per ulteriori notizie.