Siamo abituati sin dai primi mesi sui banchi di scuola a percepire la grammatica in senso normativo, ossia come un insieme di regole rigide e immodificabili la cui violazione provoca biasimo e sanzioni da parte di maestri e maestre. In passato, queste si traducevano in umilianti freghi rossi e blu (ricorderete: il colore rosso indicava gli errori meno gravi, il blu quelli gravi e gravissimi).
Ma anche la grammatica, come è ovvio, subisce gli attacchi del tempo e modificazioni di ogni tipo che, una volta sedimentate, diventano regole altrettanto ferree e implacabili come quelle che sostituiscono.
Per rendersene conto, basta consultare una qualsiasi grammatica del passato. Ciò che colpisce è che qualsiasi compilatore di regole grammaticali assume un atteggiamento rigorosamente normativo, spacciando per precetti intangibili quelli che, qualche anno dopo, saranno probabilmente considerati errori o solecismi.
Prendiamo, ad esempio, i Brevi avvertimenti di grammatica e aritmetica (1984, D’Auria, Napoli) di Alfonso Maria De Liguori (1696-1787), dottore della Chiesa e fondatore della Congregazione del Santissimo Redentore. Questo breve scritto, composto intorno alla metà del XVIII secolo a vantaggio soprattutto dei religiosi meno istruiti, offre al lettore odierno una serie di regole sconcertanti, meritevoli, considerato gli standard contemporanei, di numerosi tratti di matita blu.
A proposito dei verbi, Liguori suggerisce di dire io leggeva o leggea, non io leggevo (p. 18); debbo e deggio, non devo; inalzare, non innalzare; sieno, non siano (p. 20).
A proposito di nomi, raccomanda abbate, non abate; abozzo, non abbozzo; avezzo, non avvezzo; malvaggio, non malvagio; sagro, non sacro; ubbidienza, meglio che obbedienza (pp. 21-23).
Si potrebbe continuare. Ciò che è importante osservare è che il tono e l’atteggiamento di Liguori rispetto a quelli che noi considereremmo errori, sono altrettanto imperiosi di quelli di molti altezzosi grammatici moderni, pronti a fustigare con sdegno chiunque osi contravvenire le regole divine da essi descritte.
Il confronto con grammatiche del passato induce nel lettore contemporaneo una sensazione di straniamento che, tuttavia, ci fa comprendere come anche le regole della scrittura sono relative a tempi e luoghi.
Alla luce di queste considerazioni, considero davvero spocchiose le sopracciglia alzate di tanti eruditi bacchettoni, disposti a linciare chi non si conforma alle regole della grammatica del momento. Un po’ di umiltà dovrebbe insegnare loro che la regola aurea che tanto strenuamente sostengono potrebbe essere contraddetta di lì a qualche anno per il semplice mutare di tempi e sensibilità.
Insomma, una certa dose di sociologia della grammatica ci renderebbe tutti più indulgenti e comprensivi.