C’è qualcosa che colpisce più di ogni altra considerazione nella vicenda di Silvia Romano, la ragazza italiana (le cronache preferiscono il termine “cooperante”) rapita in Kenya il 20 novembre 2018 e liberata in Somalia tra l’8 e il 9 maggio 2020. Non mi riferisco a questioni geopolitiche o diplomatiche, né alla vexata quaestio dell’eventuale pagamento di un riscatto per la sua liberazione. Mi riferisco ai sentimenti di odio acrimonioso e di rancore acido che sono stati riversati sulla sua persona fin dal suo primo apparire e che hanno generato accuse di ingratitudine e neoterrorismo, favorito minacce e provocato perfino il lancio di oggetti contro la sua abitazione.
Tutto è cominciato, come è noto, all’aeroporto militare di Ciampino, quando Silvia Romano è apparsa dopo un anno e mezzo dal suo rapimento indossando il jilbab, l’abito verde (nemmeno religioso) tradizionalmente indossato dalle donne somale nella vita quotidiana, ed è continuato più tardi quando la stessa Romano ha dichiarato di essersi spontaneamente convertita all’Islam («È vero, mi sono convertita all’Islam. Ma è stata una mia libera scelta, non c’è stata nessuna costrizione da parte dei rapitori che mi hanno trattato sempre con umanità»), di essere stata trattata con dignità dai suoi rapitori, nutrita e curata, di non aver subito violenze, di non aver avuto alcuna relazione sessuale o sentimentale con nessuno dei sequestratori, né di essere stata costretta a sposarsi. Atteggiamento, questo, che ha immediatamente innescato accuse di irriverenza verso le istituzioni italiane, ingratitudine verso i liberatori, nonché di islamizzazione forzata, lavaggio del cervello, irresponsabilità. E non manca chi ha sparso l’idea che attendesse addirittura un figlio dai suoi rapitori… Nonostante le pronte smentite delle tante menzogne diffuse sul suo conto, l’immagine di Silvia Romano è rimasta invischiata in una cappa di sospetti e malumori che persistono ancora oggi e che suscitano interrogativi impervi a ogni obiezione: come è possibile che la ragazza italiana si sia convertita di sua libera scelta a una religione “tanto estranea alla nostra identità”? Come è possibile che non abbia subito violenze fisiche o sessuali da parte di terroristi feroci e senza scrupoli? Per quale ragione non ha preso le distanze in modo netto dai suoi rapitori, una volta liberata? Come si spiega il fatto che abbia ringraziato la comunità musulmana d’Italia per la solidarietà dimostratale al ritorno in patria»?
Lo sconcerto suscitato dalle dichiarazioni e dalla condotta di Silvia Romano ha immediatamente provocato un ampio dibattito, condito da formule psicologiche ormai consolidate in questi casi, tutte accomunate dal ricorso a meccanismi difensivi e psicopatologici. Per comodità li ridurrò a tre.
Il primo è il meccanismo noto in psicanalisi con il nome di “identificazione con l’aggressore”, proposto per la prima volta da Sándor Ferenczi e ripreso da Anna Freud, figlia del più noto Sigmund. Secondo la psicanalisi, in situazioni particolarmente minacciose per l’io, l’individuo può introiettare alcune caratteristiche dell’oggetto che provoca ansia, assimilando così l’esperienza angosciosa appena provata. Assumendo il ruolo dell’aggressore e i suoi attributi e imitando la sua aggressione, l’individuo si trasforma da minacciato in minacciante e riesce così a dominare la situazione ostile. Un esempio spesso citato di identificazione con l’aggressore è il comportamento di alcuni prigionieri ebrei nei campi di concentramento nazisti. Alcuni di essi – i cosiddetti kapò, a cui venivano affidate funzioni di comando dai tedeschi – si comportavano peggio dei nazisti nei confronti degli altri prigionieri tanto da essere particolarmente temuti. Nel caso di Silvia Romano, è improprio, a mio avviso, fare riferimento a questo meccanismo di difesa. Per quanto a nostra conoscenza, la ragazza non ha espresso parole di odio nei confronti degli occidentali o della religione cattolica, non ha interiorizzato norme e valori dei suoi carcerieri, né la loro aggressività. L’unico “sintomo” di tale meccanismo sarebbe la sua conversione all’Islam, ma interpretare una conversione religiosa come un sintomo psicopatologico sarebbe un grave errore di etnocentrismo. Inoltre, Silvia Romano potrebbe essersi “aggrappata” all’islamismo semplicemente perché, nel momento e nel luogo della sua prigionia, era l’unico concreto sistema simbolico trascendente disponibile cui affidare la propria disperazione. Come recita il protagonista della serie televisiva Homeland, Nicholas Brody, reduce da una prigionia di otto anni in Iraq e convertitosi all’Islam, «You live in despair for eight years; you can turn to religion, too. And, the King James Bible was not available». Infine, la tesi dell’identificazione con l’aggressore contraddice evidentemente l’ipotesi dell’islamizzazione forzata avanzata con forza dai detrattori di Silvia Romano.
Il secondo meccanismo è noto con il nome di “sindrome di Stoccolma”. L’espressione fu coniata dallo psichiatra Nils Bejerot in occasione di una rapina in Svezia il 23 agosto 1973, a conclusione della quale, dopo sei giorni, gli ex ostaggi espressero sentimenti benevoli nei confronti dei rapinatori. “Sindrome di Stoccolma” indica un particolare legame affettivo che si instaura tra sequestratore e sequestrato e che spesso ha per quest’ultimo il significato di un meccanismo di difesa. La Sindrome di Stoccolma si caratterizza per la presenza di almeno tre elementi: 1) l’ostaggio ha sentimenti positivi nei confronti del suo carceriere; 2) il carceriere ha sentimenti positivi nei confronti dell’ostaggio; 3) l’ostaggio ha sentimenti negativi nei riguardi delle autorità che pure hanno contribuito alla sua liberazione. Per quanto il termine sia abbondantemente entrato nel vocabolario quotidiano, esso ha uno status molto controverso in ambito scientifico. Soprattutto, non sembra potersi applicare al caso di Silvia Romano. La ragazza, infatti, 1) non ha espresso sentimenti positivi nei confronti dei suoi carcerieri, essendosi limitata a dichiarare di non essere stata maltrattata; 2) i carcerieri non hanno espresso, a quanto consta, sentimenti positivi nei suoi confronti; 3) Silvia Romano, infine, non ha espresso sentimenti negativi nei riguardi delle autorità che hanno contribuito alla sua liberazione. (Per maggiori considerazioni critiche nei confronti della sindrome di Stoccolma, rimando al mio libro Delitti. Raptus, follia e misteri. Dalla cronaca alla realtà).
Il terzo meccanismo chiamato in causa nella vicenda di Silvia Romano è il “lavaggio del cervello”: la ragazza si sarebbe convertita all’Islam perché vittima di tecniche psicologiche coercitive ed estreme. Anche questo termine, però, fa riferimento a una condizione più immaginaria che scientificamente fondata. Fu inventato dall’agente della CIA Edward Hunter negli anni Cinquanta del XX secolo per “spiegare” come mai persone nate e cresciute negli Stati Uniti con ideali liberali e nazionalisti, una volta prigionieri in paesi comunisti, aderissero a idee ritenute repellenti e incompatibili con i valori americani. Il ragionamento di fondo era: una persona libera e sana di mente non professerebbe mai principi comunisti, ergo se lo fa è perché qualcosa le è successo. Questo qualcosa si chiama “lavaggio del cervello”. Il termine è oggi riconosciuto come non scientifico, propagandistico e polemico. La psicologia ha dimostrato da tempo che programmare il cervello di un individuo per trasformarlo in un automa privo di volontà e indurlo, attraverso manovre psichiche, a fare qualcosa di contrario alla sua moralità non è possibile. Eppure, il termine è particolarmente adoperato in contesti anti-religiosi, ad esempio dai familiari di individui aderenti a sette religiose, incapaci di accettare l’idea che i propri cari possano aderire a un insieme di “strane” credenze. Dal momento che per loro essere membri di una setta è qualcosa di folle, allora i loro cari “devono” essere vittime di un lavaggio del cervello. La ricerca ha dimostrato, in realtà, che la stragrande maggioranza delle persone decide liberamente di aderire a un credo religioso e che solo in pochi casi ci sono coercizioni o minacce. Etichettare gli adepti come folli serve però a prendere le distanze dalle loro decisioni e a ribadire, per converso, la razionalità delle proprie scelte. Una forma di rassicurazione che, se serve per ricordare a se stessi la giustezza dei propri (pre)giudizi, non ha alcun fondamento come spiegazione valida delle conversioni religiose. Applicando queste considerazioni al caso di Silvia Romano, l’accusa di “lavaggio del cervello” non è altro che un dispositivo retorico, legittimato da certa pseudo-psicologia, per riprovare una scelta che non si condivide.
Tutti questi meccanismi sono tentativi di risolvere in termini psicologici una condizione che appare incredibile, inattesa, paradossale. Dal momento che non riusciamo a spiegarla, invochiamo cause estreme che richiamano la sindrome psichiatrica, il meccanismo di difesa, la coercizione psicologica. Ma è possibile spiegare in modo migliore lo sconcerto che le scelte di Silvia Romano hanno suscitato in molti osservatori? È concepibile, a mio avviso, trovare una risposta soddisfacente a questa domanda, riflettendo sul concetto sociologico di “ruolo”.
In sociologia, per “ruolo” si intende generalmente l’insieme di aspettative e norme a cui un individuo è tenuto a conformarsi per il fatto di occupare una determinata posizione all’interno della società. Ognuno di noi interpreta ruoli. Di volta in volta o contemporaneamente, siamo studenti, lavoratori, coniugi, padri, figlie ecc. Ogni ruolo ha una dimensione “ideale” (come ci si dovrebbe comportare) e una dimensione “reale” (come ci si comporta). Talvolta, la dimensione ideale e quella reale entrano in conflitto con conseguenze e sanzioni di vario tipo.
Ora, per una serie di circostanze, Silvia Romano si è trovata a occupare il ruolo di ”vittima liberata”. Nella nostra società, ci si aspetta che la vittima liberata si conformi a una serie di aspettative. Ci si attende che esprima parole di riconoscenza nei confronti dei liberatori e di gratitudine nei riguardi del proprio paese; che prenda contemporaneamente le distanze dai suoi carcerieri e dai loro valori; che desideri ritornare alla “normalità” antecedente alla prigionia, considerata come forma di vita ideale; che intenda occupare ruoli sociali positivamente sanzionati all’interno della società (qualsiasi essi siano: “studentessa”, “meccanico”, “assistente sociale”, “imprenditore” ecc.); che aderisca agli standard sociali, culturali, estetici e religiosi della società di provenienza; che decida di non ritornare in alcun modo a esporsi a situazioni simili a quella che hanno portato alla sua cattura. La vittima liberata, inoltre, deve apparire, se possibile, provata, sofferente, confusa, remissiva, mite, schiva, ma anche contenta, sollevata, soddisfatta, “saggia” (“ha imparato la lezione”).
Che cosa è successo nel caso di Silvia Romano? È successo che le sue parole e la sua condotta hanno violato le aspettative a cui il suo ruolo di “vittima liberata” la portava a conformarsi. Silvia Romano ha negato di essere stata maltrattata, picchiata o violentata. Ha affermato di essere stata trattata decentemente dai suoi rapitori. È apparsa con indosso un jilbab, simbolo di vita in contrasto con gli standard estetici occidentali. Ha dichiarato addirittura di essersi convertita spontaneamente all’Islam, la religione dei suoi carcerieri. Non solo non ha preso radicalmente le distanze dalla cultura e dalle persone che l’hanno imprigionata, ma ha mostrato con convinzione i suoi segni di contaminazione rispetto a quell’ambiente. In termini sociologici, la condotta di Silvia Romano ha esibito una notevole divaricazione tra aspettative e comportamento di ruolo, tra “ruolo ideale” e “ruolo reale”. E, come ci insegna la sociologia, quando le aspettative di ruolo sono violate ne discendono sanzioni di vario tipo. In questo caso, non parliamo di sanzioni normative, naturalmente, ma di sanzioni informali: incredulità, sgomento, accuse di ingratitudine e “simpatia” nei confronti dei terroristi, sospetti di “avventure sessuali”, di islamizzazione coatta, di inclinazioni sovversive.
Il disorientamento provocato in alcuni dal “caso Silvia Romano” non è dunque spiegabile in maniera soddisfacente con il ricorso a meccanismi difensivi o psicopatologici, che servono più che altro a rassicurarci sulle nostre scelte di vita, rubricando a “follia” o “coercizione psicologica” le scelte altrui, ma in riferimento a deviazioni dalle aspettative imposte dai modelli di ruolo prevalenti nella nostra società. Il fatto che da tali deviazioni siano scaturite reazioni così forti testimonia della tenuta di tali modelli e dell’intolleranza che, in molti italiani, è evidente nei confronti della loro violazione. Professare l’islamismo, aderire a canoni estetici diversi da quelli prevalenti in Occidente, ringraziare in arabo, non manifestare odio verso culture altre sono ancora percepiti da alcuni come comportamenti estranei alla nostra società e, quindi, suscettibili di disapprovazione e di giudizi di incompatibilità con la “nostra” civiltà.
È probabile, allora, che la vicenda di Silvia Romano ci dica qualcosa più sui valori che orientano i nostri giudizi e i nostri comportamenti che sulle condizioni di una vittima liberata; più sui limiti dei nostri punti di riferimento che sulla stabilità mentale della ragazza che vive a Milano.
La vicenda di Silvia Romano è, in definitiva, la cartina al tornasole dell’etnocentrismo predominante nel nostro paese.