Sappiamo che non tutti coloro che commettono un reato sono sanzionati o finiscono in carcere. Alcuni – molti – delinquono senza essere mai “beccati”. Ma quali sono le conseguenze di ciò in termini di identità e di giudizio nei confronti degli altri?
In un recente, interessante articolo, la criminologa Denise Woodall evidenzia che chi la fa franca tende spesso a “dimenticare” di aver commesso un reato, coglie più lentamente le differenze tra sé e coloro che hanno ricevuto una sanzione e ritiene di essere diverso da questi ultimi, anche in termini di identità.
Se studi precedenti hanno dimostrato che le persone tendono a invocare risposte punitive più severe nei confronti degli autori di reato il cui comportamento deviante viene attribuito a fattori individuali piuttosto che sociali, altri studi dimostrano che chi commette un reato senza essere mai arrestato, senza essere, cioè, mai “marchiato” dal sistema penale, tende a non pensarci più di tanto, anzi dimentica facilmente la propria condotta criminale e questa non viene integrata come parte saliente della propria identità.
Le conclusioni di Woodall scaturiscono, come accade spesso in sociologia e psicologia, da una serie di questionari somministrati a 209 studenti (per lo più studentesse bianche, tra cui molte cristiane e repubblicane) della University of North Georgia, invitati a esprimere la loro opinione su alcuni reati (per lo più non gravi) e a “confessare” eventuali condotte criminali a partire dai 14 anni.
Una volta appreso che tali condotte avrebbero potuto avere come conseguenza un certo numero di anni di prigione, un numero rilevante di soggetti della Woodall ha ammesso di “sentirsi più simile ai criminali” e ha dichiarato di essere meno favorevole a pene severe.
Sebbene sia dubbia la validità esterna di tali ricerche, Woodall evidenzia che semplicemente riflettere sul fatto che ognuno di noi, come rivelano tantissime indagini criminologiche, ha commesso un certo numero di reati, non necessariamente gravi, nella propria vita induce un atteggiamento diverso nei confronti del crimine e una maggiore empatia nei confronti dei criminali. In alcuni casi, tale diversa consapevolezza conduce alla ricerca di modi alternativi di “punire” il criminale o, almeno, a mettere in discussione il modello esclusivamente retributivo di reazione alla criminalità.
Le conclusioni della Woodall ci ricordano che siamo naturalmente portati a ritenerci persone migliori di quanto non siamo, anche se la nostra “biografia criminale” non è esattamente immacolata, quando abbiamo la fortuna di non venire scoperti. Tali distinzioni sono, però, fondamentalmente illusorie e rispondono più a un bisogno psicologico di percepirci come “buoni” che a una nostra reale differenza rispetto ai “cattivi”. Il manicheismo può essere infondato da un punto di vista religioso, ma è una tentazione psicologica fortissima a cui cediamo per vivere in pace con noi stessi.
Fonte: Denise Woodall, 2018, “We Are All Criminals. The Abolitionist Potential of Remembering”, Social Justice, vol. 45, n. 4, Penal Abolition: Challenging Boundaries, pp. 117-140