Si prenda una “s”. La si trasformi in una “t”. Si mescoli tutto con dichiarazioni non verificate di collaboratori di giustizia e l’ostentazione spettacolare di manette e altre gogne. Si otterrà uno degli errori giudiziari più tristemente noto della recente storia italiana: il “caso Tortora”.
Enzo Tortora, giornalista e presentatore televisivo di una delle trasmissioni più note negli anni Ottanta – Portobello –, fu arrestato all’alba del 17 giugno 1983 nell’ambito di un maxi blitz concluso con più di 400 arresti, con l’accusa di essere un pericoloso trafficante di droga, affiliato alla camorra cutoliana, addirittura battezzato da Cutolo in persona: un “camorrista ad honorem”. I non più giovani ricorderanno le immagini televisive di quel giorno, ritraenti un Tortora confuso, smarrito e ammanettato che si fa largo tra poliziotti, giornalisti e gente comune, nemmeno fosse il più pericoloso dei criminali della camorra.
Da allora le tappe della sua vicenda si svolgono rapide e fatali insieme. Rapide perché la sua odissea dura “solo” poco più di tre anni. Fatali perché lasciano una impronta mortale (letteralmente) sulla sua persona. Eccole in forma di date:
Il 17 giugno 1983 viene arrestato.
Il 17 gennaio 1984 ottiene gli arresti domiciliari.
Il 17 giugno 1984 viene eletto al Parlamento europeo nelle liste dei radicali di Marco Pannella.
Il 17 agosto 1984 arriva il rinvio a giudizio.
Il 20 febbraio 1985 inizia il processo.
Il 17 settembre 1985 viene condannato a dieci anni di reclusione.
Il 15 settembre 1986 viene assolto con formula piena.
Il 20 febbraio 1987, ritorna sugli schermi televisivi e si presenta al suo pubblico con la frase (diventata famosa): «E allora, dove eravamo rimasti?».
Il 18 maggio 1988, muore stroncato da un cancro ai polmoni.
Ad accusare Tortora i camorristi e pluriomicidi Giovanni Pandico (schizoide e paranoico per i medici, assassino di due impiegati comunali che tardavano a dargli un certificato) e Pasquale Barra (detto “o animale”, autore di 67 omicidi) ai quali si aggiungono ben presto altri “pentiti” (saranno infine 19) allettati dalla prospettiva di sconti di pena e altri vantaggi premiali.
Tortora fu arrestato in base alle sole dichiarazioni di Pandico e Barra. Riscontri: zero. O meglio uno solo.
Un’agendina sequestrata il 15 maggio 1983, un mese prima del blitz, nell’abitazione di Giuseppe Puca, detto “‘o giappone”, uno dei killer di Cutolo. Nella rubrica dell’agenda, sotto la lettera T, compariva un nome scritto in corsivo, “Tortora Enzo”, con accanto due numeri di telefono. Una prova “schiacciante” secondo gli inquirenti che non si prendono nemmeno la briga di verificare l’identità dell’intestatario dei due numeri. Cinque mesi dopo, i magistrati scoprono che l’agenda appartiene alla compagna di Puca, che il nome nell’agendina non è quello di “Tortora Enzo” bensì di tale “Tortosa Enzo”, e che i numeri corrispondono al proprietario di un deposito di bibite di Caserta, amico della signora.
In breve, Tortora fu condannato perché una “s” era stata confusa con una “t”. E perché i magistrati non eseguirono verifiche fattuali, pedinamenti, intercettazioni telefoniche e si basarono solo sulle dichiarazioni di criminali incalliti affamati di sconti di pena.
«Io non sono innocente. Io sono estraneo» ripeteva Tortora a chi gli chiedeva di definire la sua posizione. Lo stesso Tortora, prima di morire, chiese ai familiari di mettere nella sua tomba una copia della Storia della colonna infame di Manzoni. Come quella descritta dallo scrittore milanese, anche la sua fu una vicenda surreale. Purtroppo nemmeno l’ultima in questa Italia fondata sul lavoro e sugli errori giudiziari.
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