“Sì, ma aveva altre patologie”

La psicologia delle epidemie si spende abitualmente su preoccupazioni, ansie e angosce o su reazioni patologiche quali depressioni e disturbi ossessivo-compulsivi o forme parossistiche di egocentrismo o di altruismo. Poco spazio, anche a livello divulgativo, viene concesso al bisogno di conforto e rassicurazione che pure appare imponente di questi tempi.

Alcune espressioni di questo bisogno appaiono manifeste. Pensiamo alla ripetizione martellante dei consigli per la prevenzione del Covid-19, la cui rilevanza non ha un significato meramente informativo, ma anche tranquillizzante (“Se seguirai questi consigli, non sarai contagiato”). Oppure a uno slogan come #andràtuttobene, declinato in varie salse per diversi mesi e diventato così popolare da dare il nome perfino a una polizza assicurativa. La funzione rasserenante di questo genere di comunicazioni è indubbia ed è riconosciuta da tutti. Ma esistono formule di conforto meno evidenti, che pure si sono insinuate imperiosamente nella nostra mente, fino a divenire mantra che (ci) ripetiamo in continuazione per trovare sollievo dalla minaccia quotidiana del dilagare del virus.

Una di queste è sicuramente la frase “Sì, ma aveva altre patologie” che ormai decliniamo meccanicamente, anche se forse inconsapevolmente, ogni volta che i comunicatori del virus recitano i loro bollettini alfanumerici e si soffermano sulle vite che il coronavirus sottrae alla nostra demografia ingenua giorno dopo giorno. La glossa “Sì, ma aveva altre patologie” serve a darci l’illusione che il coronavirus non sarebbe così letale se non occorressero altre circostanze che lo rendono tale. Serve a dirci che, in fondo, non dobbiamo preoccuparci più di tanto perché, a dispetto di quanto affermano i soliti menagrami, chi è sano non deve temere granché da questa maledetta infezione. I non sani, così, vengono esclusi dalla conta letale, quasi che non appartenessero al genere umano, ma fossero un residuo marginale, un prodotto di scarto della biografia della collettività.

Questo dispositivo di rassicurazione si basa, dunque, sull’esclusione programmata di alcune persone – malati e vecchi – dal novero degli aventi diritto alla vita e ha la stessa finalità di un altro frequentatissimo dispositivo che adoperiamo, altrettanto meccanicamente, quando apprendiamo che qualcuno di nostra conoscenza non c’è più: “Di che cosa è morto?”; “È morto di cancro, infarto, polmonite ecc.”. Quando insistiamo indiscretamente affinché ci sia rivelata la causa della morte del nostro conoscente, non siamo spinti da un impulso meramente epistemologico, ma vogliamo rassicurarci che, in assenza di quel morbo, la vita sarebbe continuata, forse indefinitamente.

È una illusione consolatrice di cui abbiamo particolarmente bisogno in quest’epoca che ha rimosso la morte e che blatera di immortalità a ogni piè sospinto. Un tempo si diceva “morto di vecchiaia”. Oggi, una frase così anodina non ci è più utile. Vogliamo sapere di più. E vogliamo sapere per illuderci che la causa della morte sia sormontabile. Del resto, non si guarisce ogni giorno dal cancro, dall’infarto, dalla polmonite? E, allora, se la causa della morte è superabile, forse anche la morte è superabile, relegabile a un passato distante anni luce.

“Sì, ma aveva altre patologie” è il passe-partout magico che consente l’accesso a un mondo al di là della vita e della morte. Un mondo sostenuto da un imperioso avverbio affermativo e da una umile congiunzione avversativa.

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