“Se ne vanno sempre i migliori”

In occasione dei funerali è quasi d’obbligo. Dopo le rituali “sincere e sentite” condoglianze, bisbigliare o declamare a voce alta che “sono sempre i migliori che se ne vanno” è una di quelle frasi che trova immediata condivisione tra i presenti, i quali annuiranno convinti alla forza indubbia di questo atavico luogo comune. Anche perché, in un momento in cui non si sa che cosa dire e ogni parola sembra vana di fronte al “mistero” della morte, il “ricordo dei migliori” serve a riempire il vuoto e sollevare sé stessi e gli altri dall’imbarazzo, magari ricordando le “gesta memorabili” del defunto o gli aspetti maggiormente positivi della sua esistenza.

Certo, la sensazione di ipocrisia in questi momenti è forte. Il latino condolēre, da cui deriva il termine “condoglianze”, è composto da cŭm (“con”) e dolēre (“provare dolore”) e significa propriamente “provare dolore con”, “partecipare al dolore di”. Ma è dubbio che un estraneo che porga le sue condoglianze provi il medesimo dolore del marito, della moglie, del figlio o del genitore del defunto. La sua partecipazione alla sofferenza è puramente convenzionale. Si tratta, tuttavia, di un’ipocrisia ritualizzata, legittimata dalla tradizione, spesso apprezzata: un dispositivo convenzionale per rendere più tollerabile l’agonia del lutto.

Una buona dose di ipocrisia è presente anche quando si afferma che “se ne vanno sempre i migliori”. Basta pensarci. Se ad andarsene sono sempre i migliori, che ne è dei peggiori? Non muoiono mai? O si convertono anche loro in migliori al momento del trapasso? O forse l’appellativo di “migliori” serve una banale funzione consolatoria nei confronti dei sopravvissuti?

Curiosamente, il luogo comune “se ne vanno sempre i migliori” trova un forte alleato in un altro popolare modo di dire “L’erba cattiva non muore mai”, che lascia intendere che, per qualche motivo, chi vive a lungo è cattivo. Il premio per la bontà sarebbe dunque una vita breve, mentre ai cattivi sarebbe concesso continuare a comportarsi male a lungo? Ma, se le cose stanno in questi termini, ci si potrebbe domandare a che serve comportarsi bene e onestamente per tutta la vita, se poi non si possono godere a lungo le bellezze e i piaceri dell’esistenza. Un interrogativo inquietante che meriterebbe una risposta tratta da un manuale di filosofia etica.

Ma ritorniamo al luogo comune del “se ne vanno sempre i migliori”. La frequenza d’uso di questa massima fa sorgere il dubbio che dietro di essa si celi più di quanto non appaia a prima vista. L’apoftegma sembra nascondere atteggiamenti atavici nei confronti della morte, in cui si mescolano timore e speranza, angoscia e sollievo. Un’ambivalenza apparentemente incomprensibile, ma che è stata approfonditamente indagata dall’antropologia e dalla psicologia.

Secondo un’interpretazione classica (Frazer, 1985), gli uomini hanno un atteggiamento duplice nei confronti dei cari deceduti: da un lato, soffrono per la loro scomparsa, dall’altro temono che il contatto con essi possa avvicinarli incautamente alla morte. Di conseguenza, assumono una serie di precauzioni che prendono spesso la forma di riti di evitamento per liberarsi dei pericolosi spiriti dei trapassati. Tra queste forme di evitamento compare anche la tendenza a idealizzare i defunti e a trasformarli in modelli di virtù. Lodare i defunti risponde, dunque, a una funzione psico-antropologica di cui vi è traccia in tantissime popolazioni di tutte le epoche e latitudini.

Questa tesi di ordine antropologico è esemplificata dalla celebre massima latina, attribuita al legislatore Chilone di Sparta (620 a.C. circa – 520 a.C. circa), De mortuis nihil nisi bonum (“Non si parla male dei morti”), che richiama, appunto, il dovere di parlare bene dei defunti. Ma anche dalla locuzione meno nota, ma affine in spirito, Parce sepulto di Virgilio, rinvenibile in Eneide, III, 41 (traduzione: “Abbi rispetto per il sepolto” e, quindi, per il defunto). La frase è pronunciata dallo spirito di Polidoro, trasformato in una fronda che Enea afferra da terra per coprire l’altare del sacrificio eretto per Giove. Dal ramo il defunto così si rivolge a Enea: «Perché strazi, Enea, l’infelice? Parce sepulto. Risparmia deh! un sepolto, risparmia di bruttar le pure mani» (Virgilio, 1963, p. 46).

Il senso superficiale di entrambe le espressioni è che ai defunti è opportuno tributare il massimo rispetto e astenersi dal parlarne male. In realtà, tuttavia, dietro il richiamo al rispetto, si celano motivazioni più profonde, spesso inconsce.

Su tali motivazioni, ha scritto parole illuminanti Sigmund Freud (1856-1939). L’inventore della psicoanalisi riteneva che, nel nostro inconscio, ognuno di noi sia convinto della propria immortalità e che le persone si comportano in un modo molto singolare nei confronti del morto:

Ci asteniamo dal criticarlo, gli perdoniamo i suoi eventuali torti, sentenziamo: de mortuis nihil nisi bene e troviamo giusto che, nell’orazione funebre e nell’epitaffio non si celebrino che le sue lodi. Il rispetto per i morti, di cui pure i morti non hanno più alcun bisogno, è per noi più importante del rispetto per la verità, e, per la maggior parte di noi, anche del rispetto per i vivi» (Freud, 1915, p. 138).

Questo atteggiamento rimonta alla notte dei tempi e al particolare atteggiamento dell’uomo primitivo. Questi, secondo Freud, è piuttosto propenso a uccidere i propri nemici. Al tempo stesso, «il selvaggio teme la vendetta degli spiriti di coloro che ha ucciso. Ma gli spiriti dei nemici abbattuti altri non sono che l’espressione della sua coscienza per il sangue versato» (Freud, 1915, p. 143). Di qui una fondamentale ambivalenza che trova soluzione nel considerare i deceduti come persone migliori di quello che sono state. Questo atteggiamento, per Freud, è proprio anche dell’uomo civilizzato, anche lui parecchio incline ad augurare la morte ai suoi nemici, come rivelano espressioni come “Che la morte lo colga” che a tutti noi capita di concepire in alcuni momenti della nostra vita.

Così anche noi, considerati in base ai nostri inconsci moti di desiderio, altro non siamo, come gli uomini primordiali, che una masnada di assassini. È una bella fortuna che tutti questi desideri non posseggano l’efficacia che gli uomini preistorici attribuivano loro, giacché altrimenti sotto il fuoco incrociato delle maledizioni reciproche l’intera umanità, compresi gli uomini più buoni e saggi e le donne più dolci e belle, sarebbe già da gran tempo andata distrutta (Freud, 1915, p. 145).

Sull’ambivalenza dell’atteggiamento nei confronti dei defunti ha scritto anche l’antropologo Louis-Vincent Thomas (1922-1994), il quale, però, pone l’accento su un tipo diverso di duplicità:

La morte di una persona cara, a maggior ragione se si tratta dell’essere amato, comporta atteggiamenti molto ambivalenti, testimonianza dello smarrimento provato e della sua profondità. Tenuto sospeso a lungo tra la speranza e la disperazione, vivendo di illusioni, il parente non può sopportare questo stato: all’ignoranza preferisce infine la certezza, fosse anche quella del decesso. Giunge anche a immaginarsi il male, a spiare i più piccoli segni, tutto questo in un clima di fatale impotenza. Pian piano si augura che la morte venga presto per sollevare il morente e anche se stesso; ma qualche istante dopo desidera ritardare il più possibile l’ultimo respiro. Non si perdona al moribondo di tenerci legati a lui, di condizionare la nostra vita; e subito dopo lo si rimprovera di lasciarci. Ci si lascia affascinare da ricordi della vita in comune; poi ci si sorprende a immaginare lucidamente quella che sarà l’esistenza senza di lui… Forse ciò che tormenta di più chi assiste il malato è il fatto di dovergli costantemente nascondere la verità, fingere davanti a lui (Thomas, 1976, pp. 321-322).

Thomas fa qui riferimento alla ambivalenza del caregiver che, da un lato, vorrebbe che la persona cara vivesse ancora a lungo, dall’altro, stremato e afflitto dal pesante lavoro di cura, desidera, non sempre inconsapevolmente, che la morte venga presto a porre fine alle sue afflizioni. In particolare, chi assiste è straziato dal continuo oscillare tra verità e menzogna, tra il fingere di non sapere che la fine della persona amata è vicina e il rimorso per non aver rivelato al sofferente le sue reali condizioni.

Anche questa particolare forma di duplicità favorisce un atteggiamento benevolo nei confronti del defunto. Considerarlo uno dei “migliori che se ne vanno” serve, in questo caso, ad attenuare il rimorso per aver desiderato, seppure ambiguamente, la sua morte e a rendere più accettabile il sollievo derivante dal fatto di essere consapevole che il supplizio della cura ha avuto ormai termine.

Se, dopo la morte, dunque, tutti appaiono più buoni è perché questo giudizio consente di soffocare la profonda ambivalenza che avvertiamo nei confronti del defunto, che deriva sia da un freudiano quanto ancestrale timore della vendetta degli spiriti sia dal senso di colpa per aver desiderato la morte della persona amata in fin di vita.

Questo atteggiamento provoca una forma apotropaica di memoria selettiva per cui si ricordano solo i lati positivi della vita e della personalità del defunto, mentre tutti gli aspetti più negativi passano in secondo piano o sono del tutto dimenticati. Ciò contribuisce a mitigare il dolore del lutto e a mantenere un equilibrio psichico che rischierebbe di essere compromesso da rimorsi, sensi di colpa e timori ancestrali. 

I “migliori che se ne vanno” sono, dunque, tali non perché lo siano necessariamente, ma affinché siamo in pace con la nostra coscienza e ci liberiamo della paura del contagio della morte che, ancora oggi, affligge l’umanità contemporanea che, pure, fa di tutto per rimuoverla dal proprio orizzonte di vita.

Riferimenti

Frazer, J. G., 1985, La paura dei morti nelle religioni primitive, Mondadori, Milano.

Freud, S., 1915, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte in Idem, 1989, Opere. 8 Introduzione alla psicanalisi e altri scritti 1915-1917, Bollati-Boringhieri, Torino.

Lorenzetto, S., 2019, Chi (non) l’ha detto. Dizionario delle citazioni sbagliate, Marsilio, Venezia.

Thomas, L.-V., 1976, Antropologia della morte, Garzanti, Milano.

Virgilio, 1963, L’Eneide, Zanichelli, Bologna, Edizione, Edizione Liberliber.

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