Il termine shibbolet (anche shibboleth, scibboleth o scibbolet) designa una parola che, per la sua difficoltà di suono e pronuncia, è scelta come contrassegno per distinguere i parlanti di una comunità da quelli di un’altra. Uno shibbolet ha la funzione sia di escludere sia di includere: esso infatti permette di escludere quelli che non sono capaci di pronunciare correttamente una parola e di includere quelli che vi riescono.
Di shibbolet, della loro origine e dei più famosi di essi, mi sono occupato ampiamente nel mio libro 111 errori di traduzione che hanno cambiato il mondo, oltre che in diversi post (ad esempio qui, qui e qui).
Un bell’articolo di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo, Folklore di guerra: gli shibbolet, password linguistiche, mi consente di “aggiornare” i tanti esempi riportati nel mio libro con un riferimento, “a metà fra l’episodio reale e il folklore bellico”, come precisano i due autori, all’attuale conflitto russo-ucraino. Dicono Lincos e Stilo:
Non sappiamo come sia iniziata; ma già il 26 febbraio, il terzo giorno di guerra, l’utente George Yeromin ha postato su Twitter un breve video in cui, a quanto pare, un automobilista ucraino incappa in un gruppo di soldati nella nebbia. Per capire se si tratta davvero di connazionali, chiede loro di pronunciare la parola palyanytsa (паляниця), un tipo di pane il cui nome, a quanto pare, i russi storpierebbero in modo da rendersi riconoscibili.
Da quel momento la storia del pane-scopri-russi è dilagata e ha raggiunto anche i media internazionali. Il 1° del mese, Newsbeezer.com la menzionava sostenendo una cosa interessante, e cioè che la storia risaliva “ai vecchi tempi delle guerre sovietiche” – forse con riferimento alla vicende complicate che toccarono l’Ucraina nella Seconda Guerra Mondiale e, ancora prima, al duro periodo del comunismo sovietico.
L’articolo però si soffermava su un altro aspetto interessante: a Kyiv, il timore dei sabotatori e dei paracadutisti russi aveva assunto toni paranoici. Li si vedeva dappertutto, e, oltre che il sistema antispie della palyanytsa, si diceva fossero utili anche altri mezzi: ad esempio, chiedere ai sospetti se sapevano indicare dove si trovava la più vicina filiale di una banca che – lo sapevano tutti, in Ucraina – svolgeva solo attività online. Secondo l’agenzia France Press invece un certo Pasha, tassista della capitale, aveva escogitato un altro trucchetto: cominciare a cantare una hit musicale ucraina recente, che iniziava con le parole Oleinïi, Oleinïi, per poi chiedere al sospetto russo di continuare con i versi successivi.
Il 4 marzo, alla parola palyanytsa è stata dedicata attenzione specifica da parte di France Press. […].
Ancora il 12 marzo, di nuovo su Twitter, ecco una testimonianza di prima mano: il giornalista Christopher Curtis ha scritto che, in una stazione ferroviaria ucraina sul confine polacco, è stato sospettato per un momento di essere una spia russa. Per provare di non esserlo, gli avevano chiesto di pronunciare palyanycia (in questo caso il termine in cirillico è stato traslitterato così). Dopo aver biascicato la parola, conclude Curtis, gli ucraini soddisfatti lo avrebbero lasciato andare. Infine sei giorni dopo, il 18 marzo, un altro utente di Twitter scriveva che palyanytsa era ormai diventata la parola che gli occupanti temevano più di tutte.
Vi invito naturalmente a leggere l’intero articolo di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo, ricco di storie curiose e interessanti. Per il momento, mi sento di aggiungere solo che la storia degli shibbolet ci insegna, ancora una volta, che le parole non sono “solo” parole, ma possono decidere addirittura della vita e della morte delle persone, come insegna, fra l’altro, la vicenda degli errori di traduzione a cui è dedicato il mio libro 111 errori di traduzione che hanno cambiato il mondo.