Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro fra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione. – Così il bisogno di società, che scaturisce dal vuoto e dalla monotonia della propria interiorità, spinge gli uomini l’uno verso l’altro; le loro molteplici repellenti qualità e i loro difetti insopportabili, però, li spingono di nuovo l’uno lontano dall’altro. La distanza media, che essi riescono finalmente a trovare e grazie alla quale è possibile una coesistenza, si trova nella cortesia e nelle buone maniere. A colui che non mantiene quella distanza, si dice in Inghilterra: keep your distance! – Con essa il bisogno del calore reciproco viene soddisfatto in modo incompleto, in compenso però non si soffre delle spine altrui. – Colui, però, che possiede molto calore interno preferisce rinunciare alla società, per non dare né ricevere sensazioni sgradevoli (Arthur Schopenhauer, 1998, Parerga e paralipomena, Adelphi, Milano, cap. XXXI, vol. II, p. 884).
Letta con le lenti di un protagonista di quest’epoca pandemica, la storiella del filosofo Arthur Schopenhauer appare riassumere le nostre preoccupazioni riguardo alla pratica della distanza sociale.
Sappiamo che possiamo avvicinarci ai nostri simili, ma sappiamo anche che dobbiamo rispettare una distanza fisica da loro, che varia dal metro ai due metri o più, secondo l’esperto e il contesto di turno. E guardiamo di sbieco chi non rispetta tale distanza – l’insidioso aculeo della contemporaneità – quasi fosse un criminale, tanto che, in strada, stiamo ben attenti a non accostarci troppo – per non parlare di “toccare” – ai simili che incrociano il nostro cammino, sollevando per prudenza la mascherina o assicurandoci che sia ben indossata perché – non voglia mai dio – il minimo contatto, la minima trascuratezza nel rispetto di quella bolla invisibile, ma mentalmente rocciosa, che chiamiamo distanza fisica, potrebbero essere fatali.
Sicché trascorriamo il nostro tempo praticando l’arte di trovare “una moderata distanza reciproca”, di non pungerci con le spine degli altri, anche se, degli altri, abbiamo bisogno, come testimoniano i disturbi che sembrano affliggerci in questo periodo e che rimandano costantemente all’assenza del simile e ai modi, anche patologici, di farvi fronte.
Oggi le persone che ci circondano presentano un difetto insopportabile in più rispetto a prima: possono contagiarci. E questo rischio, a cui non si può rimediare con la cortesia e le buone maniere, ci muove a spingerle lontano, anche se non troppo lontano, comunque dietro una immaginaria coltre d’aria.
Così, percorriamo la nostra vita tra mille incertezze, la principale della quale è se avvicinarci o no all’uomo o alla donna che siedono a pochi passi da noi. Farò bene? Potrò fidarmi di lui (lei)? E se fosse…
Nel dubbio rimaniamo distanti. E non sappiamo se tale distanza verrà un giorno a ricomporsi, se ritornerà a essere una faccenda di cortesia e buone maniere o se determinerà per sempre un nuovo modo di sopportare gli aculei degli altri.