I comportamenti alimentari, come è noto, non sono dettati unicamente dalla bontà degli ingredienti, ma anche dai significati che ogni società attribuisce al cibo. Mangiare non è solo una questione fisiologica, ma anche semiologica e sociologica. Ciò è evidente dall’atteggiamento che contraddistingue molte scelte alimentari oggi. Ad esempio, etichettare un cibo come “bio” non significa semplicemente comunicare informazioni sugli ingredienti che compongono quel cibo, ma un intero modo di vedere il mondo che si regge su dicotomie essenziali – buono/cattivo, naturale/artificiale, salutare/non salutare – e reti di significato che spesso conferiscono agli alimenti un alone quasi magico. Ormai, basta aggiungere queste tre lettere – “bio” – a un cibo per renderlo diverso e più appetibile. Perché “bio”, nel nostro immaginario collettivo, vuol dire “salutare”, “positivo”, “migliore”. E “bio” è anche un differenziatore sociale, perché le persone si dividono in chi consuma “bio” (e può permetterselo) e chi non lo fa (e non può permetterselo). A volte, tutto ciò porta a comportamenti schizofrenici. Molti consumatori preferiscono acquistare prodotti “senza glutine”, “senza olio di palma”, “senza lattosio”, anche se non solo allergici al glutine e al lattosio e anche se l’olio di palma non fa più male del burro o di altre sostanze simili. Il campo semantico e sociologico in cui viviamo, però, ascrive l’assenza di quelle sostanze a un polo positivo, la loro presenza a un polo negativo. Non sappiamo esattamente perché lo facciamo, ma lo facciamo. Perché “fa bene”, o almeno così crediamo.
Questi comportamenti schizofrenici non sono una peculiarità dei nostri tempi. Il cibo è spesso stato utilizzato per operare distinzioni sociali. L’introduzione del pane bianco al posto di quello scuro, ad esempio, è dovuta al fatto che quest’ultimo veniva associato, nel Settecento come nella prima metà del Novecento, al mondo dei contadini, reputato rozzo e incivile. Come si può leggere in un famoso manuale di psicologia sociale di qualche tempo fa,
La trasformazione del buon pane scuro del contadino nel soffice, inappetente, insipido bianco americano costituì un’innovazione artificiosa introdotta al fine di appagare l’intenso desiderio del ceto medio americano di evadere da una condizione sociale inferiore e da quanto la simboleggiava.
Nel diciottesimo secolo, lo scrittore inglese Tobias Smollett osservò nel suo romanzo Humphrey Clinker, pubblicato nel 1771, che la gente bene della città di Londra preferiva mangiare pane bianco piuttosto che quello più scuro dei contadini:
Il pane che mangio a Londra è un impasto deleterio, mescolato con gesso, allume e cenere di ossa; insipido al gusto e nocivo alla salute. La gente-bene non ignora questa adulterazione ma preferisce ugualmente questo tipo di pane a quello integrale perché è più bianco: sacrificano così gusto e salute nonché la vita dei propri bambini, alla più assurda delle soddisfazioni… e il mugnaio, o il fornaio, sono costretti ad avvelenarsi insieme alle loro famiglie, se vogliono continuare a vivere della loro professione” (Krech, D., Crutchfield, R.S., Ballachey, E.L., 1970, Individuo e società, Giunti e Barbera, Firenze, p. 103).
Oggi, paradossalmente, il “pane scuro dei contadini” ha riacquistato una valenza positiva. Ne sa qualcosa la pubblicità che valorizza molti prodotti alimentari ricordando che “sono fatti come una volta” o che la minestra è quella “del contadino”.
Una sottile, quasi invisibile, patina retorica e persuasiva avvolge i cibi che consumiamo oggi come in passato. Questa patina ci spinge a comportamenti spesso senza senso, se analizzati criticamente, ma che adottiamo cedendo ai “vocabolari di motivi” del momento.
Sono sicuro che un giorno “bio” non sarà più la parola magica che è adesso. Ma sono altrettanto sicuro che al suo posto subentrerà un’altra parola.