Nel mio libro Apofenia, descrivevo il concetto che dà il titolo al libro secondo la definizione fornita dallo psichiatra tedesco Klaus Conrad che, nel 1958, coniò il termine: l’«osservazione immotivata di connessioni [tra fenomeni accompagnata] da una precisa sensazione di anormale significatività». A tutti noi capitano esperienze apofeniche: pensiamo a una persona e questa, dopo pochi minuti, ci telefona; sogniamo un accadimento e questo, la mattina successiva, si verifica davvero. In tali circostanze, è difficile vedere in queste esperienze mere coincidenze. Alcune persone si spingono a parlare di poteri paranormali, messaggi telepatici o prove dell’esistenza della sfortuna, come quando, dopo che un gatto nero ha attraversato loro la strada, incorrono in un incidente. In altre parole, alcune persone sono colte da una “sensazione di anormale significatività”.
Questi fenomeni, per lo più trascurati dalla nostra cultura, rivestono enorme importanza in alcune società dominate da religioni, come l’induista e la buddhista, dove è radicata la credenza nella reincarnazione. È interessante constatare come, qui, alcune coincidenze che per noi non avrebbero nessun significato, rivestono un interesse eccezionale che le rende prove indubitabili della “verità” della reincarnazione.
Un esempio tra i tanti disponibili è fornito da un classico della ricerca sulla reincarnazione: il libro di Ian Stevenson, Twenty Cases Suggestive of Reincarnation (pubblicato anche in Italia da Armenia nel 1975 con il titolo Reincarnazione. 20 casi a sostegno). Stevenson cita il caso di Derek Pitnov, un uomo di cultura Tlingit (gli indiani Tlingit credono nella reincarnazione) residente a Wrangell in Alaska. Nel 1962, all’età di 44 anni, Pitnov mostrò a Stevenson un segno sull’addome situato leggermente al di sotto dell’ombelico. A suo dire, quando era giovane, il segno assomigliava a una ferita. Pitnov sapeva che tra i suoi antenati c’era un celebre personaggio locale, di nome Chah-nik-kooh, che fu ucciso nel 1852 o 1853 in occasione di un regolamento di conti intertribale. Le anziane di Wrangell associarono il segno di Pitnov alla ferita mortale subita da Chah-nik-kooh in combattimento. Di qui l’ipotesi che spinse Stevenson a recarsi in Alaska per intervistare l’uomo: Pitnov era la reincarnazione di Chah-nik-kooh. Indipendentemente dalle credenze di ognuno di noi (Stevenson, ad esempio, credeva fortemente nella reincarnazione), ci troviamo qui di fronte a una situazione apofenica per la cultura Tlingit e puramente casuale per la maggior parte degli occidentali. Riscontrare una somiglianza tra il segno della pelle di un individuo e quello di un suo parente, per la maggior parte di noi, probabilmente avrebbe un significato meramente ereditario o al più una banale coincidenza. A (quasi) nessuno verrebbe in mente di essere di fronte alla prova di una credenza religiosa. Per i Tlingit, invece, si tratta di un possibile, significativo indizio di reincarnazione.
Questa vicenda (Stevenson ne propone molte altre simili nei suoi libri) ci insegna che culture diverse interpretano i fenomeni e le relazioni tra essi in maniera diversa. Come se le culture fossero filtri visivi che ci permettono di vedere le cose in un modo o nell’altro. Nessuno che abbia credenze religiose è immune da tali forme di apofenia religiosa. Quante volte, macchie di umidità sui muri sono interpretate da cattolici, anche istruiti, come manifestazioni del divino in base a somiglianze, pur vaghe, con celebri icone religiose del cattolicesimo? È quasi impossibile eludere esperienze apofeniche, se si è religiosi. Ma, anche se non si crede. Le “sensazioni di anormale significatività” sono costantemente in agguato. Per il semplice fatto che siamo esseri che vivono di cultura.