«Serve un contratto per lo smart working che negozi, ad esempio, tempi e pause» ha affermato Maurizio Landini, segretario generale della CGIL, il primo maggio scorso, commentando quella che è probabilmente la principale novità verificatasi nel mondo lavorativo a seguito della pandemia da coronavirus. Nei media e nei discorsi quotidiani, per smart working si intende genericamente lo svolgimento del proprio lavoro da casa tramite le tecnologie informatiche. In realtà, si tratta di molto di più. La legge 22 maggio 2017 n. 81, che disciplina, seppur vagamente, questa modalità lavorativa, ne parla come di una misura volta “a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”, stabilita “mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”.
Lo smart working non va confuso con il telelavoro, concetto di vecchia data che si differenzia per il fatto che, in esso, il datore di lavoro è tenuto a fornire gli strumenti di lavoro e l’allestimento della postazione, cosa che non è generalmente prevista (almeno non ancora) per lo smart working.
Il fatto curioso è che l’origine normativa dello smart working, la citata legge 22 maggio 2017 n. 81, non contiene in nessuno dei suoi 26 articoli questa parola, preferendo ad essa l’italianissimo “lavoro agile”. Il secondo fatto curioso è che smart working è uno pseudoanglicismo, ossia, come spiegato nel mio post precedente, una parola che sembra inglese, ma che non è adoperata né in Inghilterra né negli Stati Uniti, In inglese, infatti, questa modalità di lavoro si chiama remote working oppure working from home (home working), mentre smart working indica genericamente una modalità di lavoro flessibile basata su strumenti e tecnologie informatiche (quindi non necessariamente da casa).
A che cosa si deve la maggiore diffusione di questo termine rispetto all’italiano “lavoro agile”? Un’ipotesi potrebbe essere che, come afferma Antonio Zoppetti, «smart è da noi ben assestato, e si appoggia alla diffusione di altri composti che lo rendono suadente, comprensibile e manipolabile: le smart card, gli smart drink e le smart drug, lo smartphone, le smart city, gli smart glasses (occhiali potenziati), la smart tv e via dicendo. Insomma, è un anglicismo piuttosto prolifico». Un’altra ragione potrebbe essere la perenne propensione italica per quanto abbia un suono non locale, straniero, esotico che sembra “nobilitare” qualsiasi cosa sia da esso investito. Sta succedendo anche con termini come rider, delivery, lockdown e task force (per citarne solo alcuni), che hanno spesso un suono imponente e mistificante oltre ogni logica.
Per tornare al mondo del lavoro, sembra proprio che smart working sia destinata a fare compagnia ad altri pseudoanglicismi che da tempo riempiono le giornate di lavoratori pubblici e privati,come ticket e badge.
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Nel 2016 in Agilità sul lavoro! avevo evidenziato le principali differenze tra flexible working, smart working e agile working in inglese. Avevo espresso perplessità sulle scelte terminologiche per quella che allora era ancora una proposta di legge, proprio perché lavoro agile era ed è un potenziale falso amico. L’impressione che mi ero fatta era che qualcuno con conoscenze poco approfondite dell’inglese avesse visto agile working e smart working, espressioni che in inglese nel frattempo sono meno in voga, e ne avesse fatto un uso superficiale senza capire che si trattava di due concetti distinti.
“Lavoro agile” è stato promosso come l’alternativa più corretta anche dalla Crusca. E la distinzione con telelavoro (anche meno flessibile negli orari) che leggo è ineccepibile.
Credo però, distinguendo l’ambito dei tecnicismi di settore lavorativo e giuridico da quello della lingua comune, che espressioni come lavoro da casa (o da remoto) e anche telelavoro siano comprensibili e accettabili nella loro accezione larga. A volte ci si dimentica che le lingue vive hanno una capacità di allargare il proprio significato, di subire una “risemantizzazione” e di evolvere. L’autoscatto un tempo era un dispositivo legato a un filo (oltre al risultato fotografico che ne scaturiva), e con l’evoluzione della tecnologia è passato poi a indicare il dispositivo a tempo delle macchine elettroniche, in modo naturale. Poi è arrivato il selfie, e questo allargamento pare essersi inceppato: gli autoscatti sono quelli di una volta, sempre meno estendibili alle nuove tecnologie (lo stesso è avvenuto al calcolatore, poi anche elaboratore, ma oggi c’è solo computer). Credo che questo dipenda soprattutto dall’uso, se le parole non si forzano ampliandole (come tamponare oggi significa anche fare i tamponi) si cristallizzano. Questo per perorare la causa del “telelavoro” che con la giusta forzatura nel linguaggio di tutti i giorni potrebbe anche subire una risemantizazione basata proprio sul suo etimo e indicare la nuova situazione (è solo un mio pensierino, naturalmente).
Probabilmente la traduzione di “smart working” come “lavoro agile” (lo si ritova anche in IATE, la base di dati terminologica della UE) andrà rivista. Perlomeno in ambito aziendale. Sul sito di Valore D, una associazione di imprese, sono descritte somiglianze e differenze: https://valored.it/news/smart-working-e-agile-working-differenze-e-somiglianze/