Devo confessarlo. Ogni volta che un politico usa la parola “popolo” sono preso da un attacco di orticaria, un moto comiziale, un conato istintivo. Perché so che sta mentendo; so che sta cercando di imbonirmi, aggirarmi, mesmerizzarmi. Perché so che lui (o lei) sa che “popolo” è un termine che fa breccia, attraversa menti e cuori, ci fa sentire uniti ed è per questo che lo usa. Ma so anche che lui (o lei) sa che “popolo” è un termine vuoto, disponibile a essere farcito in molteplici modi secondo molteplici necessità. Voglio, però, provare ad aggirare l’aggiratore, a scoprire cosa c’è al di là di questa cortina verbale. Voglio provare a riflettere.
Appellandosi a una entità astratta chiamata “popolo”, il politico non riconosce (o fa finta di non riconoscere) la complessità e molteplicità della nozione di cui fa tanto disinvoltamente sfoggio, né di conseguenza il fatto che il “popolo” in realtà è composto di maggioranze e minoranze, privilegiati e diseredati, subculture e controculture, ceti, classi, gruppi di interesse spesso in conflitto tra loro, categorie non riducibili a formule semplicistiche, fazioni, frange, individui diversissimi per demografia, geografia, istruzione, lavoro, stile di vita, gusti televisivi, musicali, letterari, alimentari e tanto altro ancora. In altre parole, il “popolo” non esiste, esiste una società segmentata, articolata, composita, complessa. Ma, come ogni ente che non esiste, pretende, attraverso chi se ne fa agitatore verbale, di convincerci che esiste e che addirittura possiede una realtà superiore all’esistente.
Nell’Ottocento, la nozione di “popolo” fu sbandierata da tedeschi, italiani e altri come finzione ideologica, letteraria e romantica in cui gli individui, nonostante le loro differenze, potessero riconoscersi per esigenze di unificazione nazionale. In seguito, e ancora oggi, il termine è diventato un grimaldello retorico-politico, in verità molto dilavato ideologicamente, per ottenere il consenso delle persone che dovrebbero rientrare nella sua finzione. Effettivamente, la nozione di “popolo” comunica compattezza, solidarietà, unità, comunanza di interessi e di vita, comunità coese e omogenee, tutto il contrario di ciò che esso è nella realtà. Richiamandosi e appellandosi al popolo, di conseguenza, il politico, in particolare il populista, richiama entità connotate positivamente e si appella a valori connotati positivamente. Ma, lo ripeto, si tratta di una finzione, che nell’epoca dell’individualismo esasperato preteso dal turbocapitalismo in cui viviamo, apparirebbe addirittura ridicola, se non venisse biascicata impunemente a ogni istante. Il problema è che la politica si regge su finzioni, retoriche, metafore. Cose che non esistono, ma sono trattate come se esistessero allo scopo di perseguire precisi obiettivi di parte. Dunque, facciamo tanta attenzione quando un politico invoca il “popolo” a sostegno delle sue argomentazioni. La sola menzione del termine dovrebbe suscitare un moto di sfiducia in noi che ascoltiamo, far risuonare un campanello di allarme nelle nostre menti. Impariamo a leggere criticamente le parole della politica e a interpretarle per quello che sono: dispositivi verbali per la conquista del consenso.