Perché le persone vanno in vacanza? Che cosa le spinge ad allontanarsi da un ambiente familiare e confortevole per intraprendere viaggi lunghi e disagevoli vero mete sconosciute? E che cosa traggono da queste esperienze? Conoscenze? Relax? Divertimento? Curiosità soddisfatte? Modi di vivere alternativi?
Per l’inglese Aldous Huxley (1894-1963), il celebre autore di Brave New World (1932), Island (1962) e The Doors of Perception (1954), la risposta al perché le persone vanno in vacanza è semplice: per imitazione (ed emulazione). In particolare, per imitazione di quello che fanno le persone migliori di loro. È questa la molla che spinge milioni di individui nel mondo a sperimentare situazioni che non sperimenterebbero mai in patria, al solo scopo di vedere accresciuto il proprio status sociale e di farlo valere nei confronti di chi non mette mai il becco fuori di casa.
Viaggiare è un booster sociale: chi viaggia con una certa frequenza appare diverso agli occhi di chi non viaggia. Inoltre, ha mille argomenti di cui parlare e con cui intrattenere i suoi amici sedentari. Loro non sanno, ma il viaggiatore sa. E poco importa se i suoi racconti sono vistosamente ricamati, imbellettati, sofisticati; se i suoi inevitabili intervalli di noia si trasformano in periodi di interesse e divertimento ininterrotti; se, al di là dei confini natii, tutto appare “troppo” meraviglioso, magico “aureolato”. Del resto, al di là dei racconti, ci sono foto e video, in cui i protagonisti sono sempre sorridenti, soddisfatti e ammiccanti, ad attestare la verità delle pretese del viaggiatore.
Il viaggiatore per imitazione (emulazione) valorizza gli stereotipi correnti sui luoghi che visita, confermandoli e rafforzandoli. Così, se la profezia iniziale vuole che Londra sia fantastica, Londra finirà con l’essere effettivamente tale nei racconti ratificanti spacciati dai veterani del viaggio che, ovviamente, trascureranno gli intermezzi noiosi, le banalità incontrate, le difficoltà vissute, le esperienze ordinarie a favore di una narrazione coerentemente idilliaca, mitologica, straordinaria, degna delle migliori guide patinate sull’argomento. In questo modo, la realtà si trasfonderà in mito e l’altrove sfuggirà per sempre dal timore di essere mediocre, uguale a ogni altro posto sulla faccia della terra. Gli altri saranno sempre migliori; i luoghi del viaggio sempre più significativi dei luoghi domestici; le abitudini altrui sempre più interessanti delle proprie.
Simbolo di tutto questo è la illustre Sirenetta situata all’ingresso del porto di Copenaghen: scultura anonima, misera, mediocre come poche, eppure celebrata da chi l’ha vista dal vivo nemmeno fosse un’opera d’arte. È proprio il caso di dire che la narrazione della Sirenetta è molto più interessante della statua reale.
Il turista opera una reductio a pochi tratti significativi dei posti che visita; reductio rispetto alla quale i locali sono vocati a conformarsi, pena la delusione dell’ospite. Un napoletano che non gradisca o offra con orgoglio la sfogliatella o che non mostri riverenza nei confronti di san Gennaro è l’incubo di ogni tour operator, chiamato, per mestiere, a (di)mostrare ai suoi clienti quanto stretta sia la relazione tra quello che declama nei suoi opuscoli e la realtà vissuta dal viaggiatore che di quegli opuscoli è il lettore ideale. L’oscenità odeporica del napoletano autentico a cui non piace la pizza margherita fa sbandare la bussola cognitiva del turista, che si trova così nudo di fronte alla complessità irriducibile della vita.
Paradossalmente, l’unica esperienza autentica possibile per il viaggiatore sarebbe proprio la delusione: il disappunto della non coincidenza tra quanto promesso dai testi sacri delle guide e quanto sperimentato dall’incontro con l’indigeno di turno. Il disinganno è l’apriti sesamo di una realtà “reale” non riconducibile a pochi stereotipi liofilizzati tra le pagine dell’ennesimo dépliant dell’Ufficio informazioni. È trasgressione del prevedibile; violazione dell’attesa; affronto alla credenza interiorizzata dal turista.
Ma è proprio questo che il turista non vuole. Ciò che importa non è quello che si è vissuto “oltre confine”, ma come lo si riporta ai connazionali, convocati irrimediabilmente in qualità di testimoni per corroborare con il loro stupore (e la loro invidia) la grande impresa compiuta. La verità, come detto, è che viaggiare porta sempre con sé un forte elemento di delusione: la realtà visitata è sempre meno luccicante di quella immaginata. Ma non appena si torna a casa, quella patina sfavillante si ricompone nei commenti dei protagonisti fino a rimpiazzare la realtà “reale” del vissuto turistico. Una finzione, come altre, che contribuisce a fissare e confermare le gerarchie che la società ci impone fin dalla nascita.
Ovviamente, molte cose sono cambiate dai tempi di Huxley. Il turismo a cui fa riferimento lo scrittore britannico è quello elitario delle classi superiori – aristocratiche e borghesi – della Gran Bretagna degli anni Venti del XX secolo. Niente a che fare con l’odierno turismo low cost di massa che, sempre più, assume i contorni di un comportamento che risponde soprattutto a finalità di “consumo dislocato”, ossia semplicemente spostato in altri luoghi, e di “consumismo compensatorio”, ossia un consumismo che serve a compensare le frustrazioni e le alienazioni della vita contemporanea, in particolare, quelle che maturano in ambiente lavorativo.
Data l’inconsistenza e la mancanza di senso di molti lavori della contemporaneità, non a caso ribattezzati con il nomignolo Bullshit Jobs (che dà anche il titolo a un suo libro, pubblicato nel 2018), ossia “lavori di merda”, dall’antropologo e attivista anarchico americano David Graeber (1961-2020), non sorprende che si tenti di realizzarsi seguendo strade alternative, le quali, però, non sfuggono all’imperativo erculeo dei nostri giorni, quello che si riassume nel verbo “consumare”. Qualsiasi tipo di attività, nella società odierna, implica il consumo e le classi alienate che la abitano possono solo sperare di trarre un significato compensativo da quello che consumano. Un significato ovviamente illusorio, perché sempre di consumo si tratta, ma un consumo di tipo evasivo, lotofago, rimozionale che, almeno per lo spazio di pochi giorni, ci fa dimenticare i nostri “lavori di merda”, rigenerando le forze appassite per offrirle nuovamente in olocausto ai nostri “padroni di merda”, in un ciclo infinito di spossatezza-rigenerazione-spossatezza che è solo “funzionale al sistema”, come si sarebbe detto qualche anno fa.
Il viaggio finisce, dunque, per essere oggi quella sostanza euforizzante che lo stesso Huxley, in Brave New World, denominava “soma”, unica droga in grado di anestetizzarci nei confronti della realtà insopportabile imposta dal sistema turbocapitalistico in cui viviamo e rimetterci in sesto per tollerare quote sempre più tediose e alienanti di realtà.
Le ossessioni odeporiche contestate da Huxley come un vizio belluino sono diventate oggi una necessità che permette la sopravvivenza sia della società dei consumi da noi abitata sia di noi stessi, schiavi perenni di occupazioni senza senso che, sempre più, prendono possesso della nostra esistenza, invadendola come milizie di conquista. A questa invasione mortificante, questa colonizzazione in pianta stabile del nostro tempo, delle nostre energie e del nostro immaginario, rispondiamo talvolta con il viaggio, che non serve – lo nota bene Huxley – ad allargare le nostre menti provinciali, a stimolare la nostra immaginazione inceppata, a educarci a un pensiero liberale, ma semplicemente a dimenticare chi siamo e che cosa facciamo su questo pianeta.
Perché obliare il dolore è quanto di più meritevole possa donarci il viaggiare (o, se per questo, il leggere un libro o il vedere un film). Anche se siamo bravi a scovare ogni sorta di razionalizzazione per giustificare e legittimare questa forma di smarrimento dalla vita nel nome della cultura, dell’istruzione, dell’edificazione e di chissà quante altre idee che il nostro senso comune apprezza tanto.
Invito a leggere qui il saggio di Huxley Perché non rimanere a casa? nella versione da me introdotta e tradotta.