Pubblicato postumo nel 1776, A Sermon upon sleeping in church di Jonathan Swift (1667-1745), a cui ho già dedicato un post, affronta un argomento “di costume” a prima vista marginale, ma estremamente attuale anche nella nostra epoca scristianizzata. Perché il sermone (come dicono i protestanti) o l’omelia (come dicono i cattolici) della domenica sono proverbialmente avvertiti come soporiferi? Perché i devoti percepiscono quello che dovrebbe essere il momento forse più importante della celebrazione religiosa come una noia mortale? Perché hanno difficoltà a prestare attenzione alle parole del loro parroco o presbitero al punto da stentare a tenere gli occhi aperti?
A questi interrogativi, Swift offre risposte brevi, ma varie, sulle quali non è il caso di soffermarci per intero. Colpisce, comunque, che non chiami in causa quello che è oggi un dogma comunicativo ripetuto talmente tante volte da essere diventato noioso come una predica (appunto!): ogni discorso va formulato in funzione della platea degli interlocutori e deve tener conto delle caratteristiche generali di questi. Preti e presbiteri dell’epoca di Swift (e, in parte, anche della nostra) non conoscevano questo fondamentale principio comunicativo e sproloquiavano indifferenti anche per trenta minuti (oggi perfino papa Francesco ha ammesso che il tempo massimo dell’omelia deve essere di otto minuti!), condannando alla noia la ricezione delle proprie parole.
Tra le risposte offerte da Swift, tuttavia, ce ne sono due che, a mio avviso, rimandano a stati e meccanismi psicologici analizzati dalle scienze della mente dell’ultimo secolo. Leggiamo un brano del sermone di Swift per intero:
Molti vengono in chiesa per salvare o guadagnare una reputazione; oppure perché non vogliono apparire diversi, ma semplicemente adeguarsi alle consuetudini, anche se portano il peso e la colpa dei loro antichi peccati. Essi non si aspettano di ascoltare nient’altro che terrori e minacce, la denuncia molto realistica dei loro peccati e una prospettiva di eterna condanna come conseguenza. Niente di strano, quindi, che si turino le orecchie, volgano altrove i propri pensieri e cerchino qualsiasi diversivo piuttosto che lasciare attizzare l’inferno dentro di loro.
Un’altra causa, contro questa indifferenza verso la predicazione, sta nell’animo rivolto alle cose terrene. Le persone che, durante tutta la settimana, hanno la mente schiavizzata da tali questioni non possono sciogliere o rompere improvvisamente la catena dei loro pensieri per poter prestare attenzione a un discorso del tutto estraneo a ciò che sta loro più a cuore. Parlate a un usuraio di carità, di compassione e di restituzione, e parlerete a un sordo: il suo cuore, la sua anima e tutti i suoi sensi sono imprigionati tra i suoi sacchetti pieni di denaro, o dorme pesantemente e sogna un’ipoteca. Dite a un uomo d’affari che le preoccupazioni mondane soffocano il «buon seme», che non dobbiamo esagerare e che la salvezza della sua anima è la sola cosa necessaria: voi vedrete, certamente, la figura di un uomo davanti a voi, ma la sua mente se n’è andata lontano, fra clienti e documenti, a pensare come difendere una cattiva causa o trovare difetti in una buona, oppure passerà il tempo in sonnolenti cenni di approvazione (Swift, J., 2016, Predica sul dormire in chiesa, EDB, Bologna, pp. 38-40).
Riguardo al primo punto, la psicologia della comunicazione ha rivelato da tempo che terrorizzare la propria audience in modo estremo, mettendo in risalto le conseguenze negative, se non mortali, di una condotta (si pensi al fumo), non sortisce spesso alcun effetto in termini persuasivi, anzi induce una sorta di reattanza o reazione di sfida che spinge ad adottare quel comportamento ancora più saldamente. Similmente, soffermarsi macabramente sulle conseguenze ultraterrene della nostra condotta mondana può indurre un atteggiamento diversivo, come afferma Swift, che allontana il pensiero dalle terribili punizioni che ci riserverà l’inferno.
Anche il secondo punto è degno di interesse psicologico. Il sacerdote o presbitero pretende dall’individuo comune un’astrazione quasi radicale dalle proprie vicende terrene e un’attenzione massima riservata ad aspetti profondamente spirituali e religiosi, non facilmente attingibili. Ma, come ricorda Swift, per uomini e donne comuni, ciò non è semplice. È, anzi, più facile che il pensiero torni alle preoccupazioni quotidiane, agli affari di ogni giorno, in cui è immerso in maniera prepotente.
In questo senso, il sacerdote commette quello che si chiama “errore dell’esperto”, vale a dire presume che i propri fedeli siano in grado di dedicarsi agevolmente ad alti temi spirituali e religiosi come fa egli stesso ogni giorno “per mestiere”. Il trascendente è, tuttavia, spesso ostico per la mente comune al punto da essere a tratti inavvicinabile.
Insomma, c’è tutta una psicologia della predica di cui, ancora oggi, i protagonisti delle funzioni religiose sono inconsapevoli, ma a cui sarebbe interessante dedicare uno studio accurato.