È un dato di fatto. Chi crede nelle pseudoscienze (omeopatia, fiori di Bach, scie chimiche ecc.), sposa teorie antiscientifiche (come l’antivaccinismo) o accoglie acriticamente bufale e fake news oggi è spesso laureato. Paradossalmente, chi possiede un alto titolo di istruzione, titolo che dovrebbe esercitare una azione profilattica nei confronti della sua mente e metterlo al riparo da false teorie e idee balzane, sembra essere maggiormente attratto da tesi che di scientifico non hanno niente e che fanno leva sull’emotività, la diffidenza nei confronti di tutto ciò che è “ufficiale” o si configura come una “autorità”, il complottismo più sfrenato, un individualismo fortemente egocentrico, se non narcisistico (“Io so. Gli altri sanno solo se la pensano come me!”), una astensione perenne dal metodo scientifico.
Varie ricerche hanno dimostrato che i più istruiti tendono a fare le proprie ricerche in Internet, Google, Facebook, luoghi privilegiati di documentazione, nella presunzione di saper distinguere la bontà delle fonti in cui ci si imbatte e di riconoscere l’affidabilità dei contenuti intercettati. Tale presunzione si accompagna a una fiducia eccessiva nelle proprie abilità cognitive, che si traduce nella convinzione che, avendo frequentato una qualsiasi università, chiunque sia in grado di interagire alla pari con qualsiasi esperto (“Sarò pur laureato, no?”), e a una profonda sfiducia nelle autorità istituzionali, percepite come luoghi nefandi votati alla copertura della verità. Il rischio, però, è quello di ritrovarsi in una echo chamber, ossia in gruppi di internauti che la pensano tutti alla stessa maniera e, quindi, di evitare il dialogo, il confronto costruttivo, per abbandonarsi al perpetuo consolidamento delle proprie posizioni.
Ma la laurea non dovrebbe proteggere da simili rischi? Il laureato non dovrebbe essere tutelato dalle tentazioni delle pseudoscienze in virtù del suo maggiore livello di istruzione? In realtà, no. E questo per varie ragioni, che provo qui a sintetizzare.
1) La “cultura” dei laureati. Siamo franchi. Chi frequenta o ha frequentato l’università sa che gli studenti spesso leggono solo i libri di testo, quelli adottati dai loro professori (ma a volte nemmeno quelli). Sono spesso superficiali e pragmatici. Mirano più a sostenere il maggior numero di esame possibile ed evitare di andare fuoricorso (quando va bene) che ad approfondire quello che studiano. Gli ambienti accademici sono pieni di individui che si vantano di aver sostenuto un esame dopo aver studiato “per due settimane” o “di averci provato”. Raramente vengono sviluppate quelle competenze cognitive, di indagine, metodologiche o di ricerca, che dovrebbero fare la differenza tra un laureato e un non laureato. Prevalgono le motivazioni “estrinseche” (il voto, il pezzo di carta) su quelle “intrinseche” (la conoscenza per la conoscenza). Al momento della tesi le cose non vanno meglio e lo studente si ritrova ad ammassare dati e informazioni per sfangarla al grande momento. Ciò che conta è il “pezzo di carta”. Non sono rari i casi di persone che giungono al termine del percorso di studi senza essere cambiati per nulla rispetto agli inizi. Spesso, poi, una volta terminata l’università, il laureato non studia più e, anzi, dimentica quello che ha appreso. I libri non servono più. A ciò contribuiscono anche le politiche universitarie italiane per le quali ciò che conta è il conseguimento del titolo finale nel più breve tempo possibile e il sapere è unicamente finalizzato alla conquista di un posto di lavoro. La conoscenza deve “servire” a qualcosa, ma spesso non a conoscere.
2) I laureati sono condizionati da fattori sociologici. Quando le persone crescono in una determinata cultura, questa diventa una seconda natura di cui è difficile sbarazzarsi, se pure lo si voglia. San Gennaro si insinua nei precordi dell’animo del laureato napoletano in maniera praticamente indelebile. Un medico italiano, per quanto illuminato, cederà spesso alle superstizioni del suo luogo di nascita. Il più positivista degli ingegneri continuerà ad andare in chiesa a pregare. Insomma, talvolta la superstizione sopravvive alla scienza. Non sempre, per fortuna.
3) La laurea come compartimento stagno. Chi studia psicologia non sa nulla di medicina o ingegneria. Chi studia architettura ignora la sociologia. Chi studia legge non sa nulla di botanica. L’università erige steccati di conoscenze. Gli steccati producono ignoranza. L’iperspecializzazione coltivata dalle università, poi, rende ignoranti anche all’interno del proprio campo disciplinare. Un laureato in medicina può sapere tutto di ginecologia e quasi niente di ortopedia. Ma il termine “laurea” sembra godere di uno status ecumenico che mette in grado chi può fregiarsi del titolo di “laureato” di pontificare su tutto: “Tanto sono laureato!”. Tra i laureati dilaga quella che potremmo definire la “sindrome di Sherlock Holmes”. Ricordate come Watson presenta Sherlock Holmes in Uno studio in rosso, il primo libro dedicato al celebre investigatore? «Cognizioni di Sherlock Holmes. 1. Letteratura: zero. 2. Filosofia: zero. 3. Astronomia: zero. 4. Politica: scarse. 5. Botanica: variabili. 6. Geologia: pratiche, ma limitate. 7. Chimica: profonde. 8. Anatomia: esatte. ma poco sistematiche». E così via. Il laureato è uno Sherlock Holmes che, però, non può vantare nemmeno di essere un detective, né, almeno nella maggior parte dei casi, di possedere conoscenze profonde in qualche materia.
4) I professionisti non “hanno tempo”. Un medico che lavora per ore e ore al giorno non ha tempo per dedicarsi ad altro. Al massimo, si aggiorna, L’ignoranza tra le categorie professionali è stupefacente (oltre che preoccupante). Posso dire, senza tema di smentita, ma con le dovute eccezioni, che chi occupa alte o altissime posizioni sociali o occupazionali è talmente assorbito dal proprio ruolo da non riuscire a fare altro. Il grande direttore del dipartimento è uno strenuo seguace dell’omeopatia. Il politico di fama aderisce al complottismo più sfrenato. Il magnate di grido sostiene il metodo Di Bella e anche Stamina. Nessuno ha tempo per analizzare, approfondire, studiare (parola quest’ultima che ha quasi una connotazione infantile).
5) Il laureato è spesso un analfabeta funzionale. È un dato di fatto che non sappiamo mettere in pratica ciò che apprendiamo sin dalle scuole elementari. Come afferma Wikipedia: «Il termine analfabetismo funzionale indica l’incapacità di un individuo di usare in modo efficiente le abilità di lettura, scrittura e calcolo nelle situazioni della vita quotidiana. L’analfabetismo funzionale si concretizza quindi nell’incapacità di comprendere, valutare e usare le informazioni a disposizione nell’attuale società». Ancora: «Una persona completamente analfabeta non è in grado di leggere o scrivere. Di contro, una persona funzionalmente analfabeta ha una padronanza di una base dell’alfabetizzazione (può leggere e scrivere e svolgere semplici calcoli matematici) e riesce a comprendere il significato delle singole parole, ma è carente nel ricollegare tutto il quadro di un discorso complesso. Un analfabeta funzionale si distingue perché è “incapace di comprendere adeguatamente testi o materiali informativi pensati per essere compresi dalla persona comune (articoli di giornale, contratti legalmente vincolanti, regolamenti, bollette); non è in grado di eseguire semplici calcoli matematici; né di utilizzare gli strumenti informatici (sistemi operativi, uso della rete, software di videoscrittura, fogli di calcolo, ecc.); non conosce fenomeni scientifici, politici, storici, sociali ed economici; fa largo uso di stereotipi e pregiudizi; ha scarso senso critico e tende a credere ciecamente a tutto ciò che si legge o si sente”. Il laureato è spesso un analfabeta funzionale.
Insomma, alla luce di queste rapide considerazioni, è ancora possibile credere nel mito secondo cui il laureato è al riparo dalle pseudoscienze?