A sentire le parole di giornalisti, massmediologi, esperti a vario titolo e accademici non sembra esserci alcun dubbio. Viviamo nell’epoca della “post-verità”, delle “verità alternative”, delle fake news, degli ultracrepidarians (parola inglese poco conosciuta in Italia, che designa le persone che esprimono opinioni su argomenti di cui non hanno alcuna competenza o esperienza); un’epoca in cui ognuno può produrre news in grado di raggiungere audience estremamente distanti ed eterogenee, in cui quindi i ruoli di emittente e destinatario coincidono in maniera ubiquitaria e la verità delle notizie si basa sul fatto stesso di essere state emesse; un’epoca in cui è difficile, se non impossibile, credere che realtà e finzione si dividano il mondo del possibile, mantenendo l’una le doverose e rispettose distanze rispetto all’altra e in cui, al contrario, la prima si ammanta del fascino della seconda e la seconda si fa forte del credito della prima; un’epoca in cui è davvero difficile trovare spazio e legittimazione per le “verità vere”, per i “fatti”, o comunque si voglia chiamarli, perché anche il più rigoroso fact-checking sembra scontrarsi con le mille insidie dell’interpretazione che può avvalorare tutto e il suo contrario e con la constatazione che le persone non sembrano poi essere tanto propense a conoscere come stanno davvero le cose.
Del resto, ad ascoltare alcuni teorici contemporanei, la creazione di mondi finzionali e simulativi è il modello fondativo della nostra evoluzione come specie biologica e conoscitiva. La nostra mente, quindi, sarebbe tarata per creare simulazioni finalizzate a rendere possibile la convivenza con la realtà, immaginare scenari, definire punti di vista, motivare condotte e risoluzioni. E tenderebbe naturalmente a forme di blending cognitivo e hot cognitions, vale a dire, a mescolare cognizioni ed emozioni, pensieri ed esperienze, idee e vissuti, immagini e informazioni, ragione e odori, a tal punto che quasi non ce ne accorgiamo più. Le fake news non sarebbero altro, allora, che il prodotto di tali propensioni innate; propensioni che, un tempo, si esprimevano nella creazione di mitologie e religioni e che oggi favoriscono il falso e il finto, ma anche la pubblicità, il cinema, le serie televisive, l’informazione dopata e l’infotainment.
Come osserva il filosofo Maurizio Ferraris, l’umanità non è interessata a sapere il vero, ma ad avere ragione e a trovare conferma delle proprie convinzioni. Se nel 2003, l’allora segretario di Stato americano, Colin Powell, riuscì a vendere la fola del regime di Saddam che disponeva di armi di distruzione di massa, ciò fu possibile anche perché, in seguito agli avvenimenti dell’11 settembre 2001, il popolo americano era alla ricerca disperata di un capro espiatorio sul quale far ricadere le colpe di tutte le circa 3.000 vittime dell’attentato: un esempio di wishful thinking che sovrastò qualsiasi velleità di fare i conti con il reale.
Negli ultimi anni, si è affermata, secondo Ferraris, una nuova ideologia che ha il suo centro nella pretesa di essere nel vero a prescindere, e nel cercare riconoscimento attraverso un apparato tecnico, il web, che permette l’espressione delle idee dei singoli rendendole irrilevanti e canalizzandole in un enorme coacervo di I like che, forte dei suoi numeri, dà l’impressione della vittoria definiva e inarrestabile della democrazia, ridotta, però, per usare una argomentazione tipica dei critici della democrazia, al trionfo delle masse scriteriate e oligofreniche, degli hoi polloi che sono disposti ad accogliere tutto purché veicolato secondo i giusti algoritmi del web. In effetti, non si può sfuggire all’impressione che oggi la verifica dei fatti sia stata sostituita dal numero di Mi piace battuti, magari distrattamente, dagli utenti della Rete. Più click riceve un post più deve essere vero agli occhi di chi clicca. Come farebbero, del resto, tante persone a ingannarsi? Non ci si rende conto, però, che tale argumentum ad populum è vecchio di secoli e che l’Illuminismo ha da tempo sottolineato la fallacia in cui cade chi sostiene che una tesi è corretta solo perché sostenuta da un gran numero di persone. Eppure, l’argumentum tiene e legittima non solo pareri e opinioni, ma sancisce il successo di libri, motivi musicali, rappresentazioni teatrali, film, reputazioni sociali e altri pezzi della nostra vita.
Come è evidente, il dibattito sul destino della comunicazione nella nostra società è accesissimo e si tinge di toni e termini nuovi, giorno dopo giorno. Non dobbiamo, però, commettere l’errore di ritenere che esso abbia messo radici solo nella contemporaneità. La consapevolezza che il processo comunicativo è lungi dall’essere semplice e lineare e che non si svolge secondo modelli elementari del tipo “emittente-contenuto-destinatario” risale indietro nel tempo e investe la storia stessa della sociologia e della psicologia delle comunicazioni. Un esempio chiaro di questa consapevolezza è l’articolo pubblicato, nel 1947, dai sociologi Herbert H. Hyman (1918-1985) e Paul B. Sheatsley (1916-1989), intitolato “Some Reasons Why Information Campaigns Fail”, destinato a passare alla storia come uno dei primi articoli in grado di svelare alcuni meccanismi fondamentali sottostanti la ricezione della comunicazione. Dell’articolo si offre qui la prima traduzione in italiano con una mia introduzione che riprende parti di questo post. “Some Reasons Why Information Campaigns Fail” è un piccolo classico della storia degli studi delle comunicazioni di massa. E come tutti i classici, merita di essere letto e meditato.
Buona lettura