Perchè diciamo le parolacce che diciamo

TurpiaNel mio libro Turpia, proponevo al lettore una domanda ancora oggi lontana dall’aver ricevuto una risposta definitiva: perché per ingiuriare qualcuno o bestemmiare utilizziamo proprio le parole che usiamo? Perché la maggior parte di queste deriva dai campi semantici della religione, delle funzioni sessuali ed escretorie e da altri settori considerati volgari? George Thomas White Patrick (1857-1949), uno psicologo americano noto probabilmente solo ai frequentatori di Archive.org, ci fornisce una possibile risposta in un sorprendente articolo del 1901, intitolato The Psychology of Profanity, uno dei primi in assoluto a occuparsi di psicologia del turpiloquio. Nell’articolo Patrick sostiene che le parole che derivano dai campi citati posseggono tutte una qualità, una qualità “che tutte le armi possiedono, la facoltà di produrre uno shock in colui contro il quale esse sono dirette”. In altre parole, il turpiloquio è un’arma verbale che “colpendo” il destinatario degli improperi lo espone a un proiettile metaforico che, pur non uccidendo fisicamente, colpisce con veemenza l’immaginazione dell’aggredito in virtù dell’associazione con domini linguistici ritenuti tabù. Possedendo questa qualità, secondo Patrick, il turpiloquio svolge una funzione positiva e catartica per l’umanità: nella misura in cui gli esseri umani surrogano l’aggressività fisica con quella verbale consentono all’umanità stessa di progredire e all’aggressore di trovare comunque una soddisfazione sostituiva.

Spero di trovare un giorno il tempo di tradurre il breve articolo di Patrick. Nel frattempo, chi volesse leggerlo può trovarlo in inglese qui.

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