In un’epoca come la nostra in cui il turpiloquio è diventato mezzo di persuasione di massa a livello politico e quotidiano, perché percepito come indicatore di autenticità e di veridicità, quasi che chi inveisce e dice parolacce non possa per ciò stesso mentire, molti hanno dimenticato l’uso degli eufemismi, parole create per attenuare o aggirare l’asprezza e la volgarità di alcuni termini. Chi usa eufemismi, infatti, viene percepito come inutilmente affettato, manierato, forse falso e cinico. Insomma, qualcuno di cui non ci si può fidare. Sembra che tutti abbiano fatto proprio, pur non conoscendone la fonte, il detto di George Bernard Shaw: «Tutte le grandi verità cominciano come bestemmie» e, allora, forza con improperi e volgarismi, che se ne guadagna in credibilità e reputazione.
Se gli eufemismi sembrano vivere una vita grama, lo stesso non può dirsi dei disfemismi, quelle parole che piegano termini volgari e dispregiativi a un’accezione ironicamente positiva. È disfemistico, ad esempio, l’uso di “stronzo” rivolto affettuosamente al proprio partner, magari con un angolo delle labbra tirato in su, dopo una battuta cinica. O il “Che cretino!” lanciato dalla ragazza al suo “moroso” dopo che questi le ha fatto una proposta oscena. Sono esempi di disfemismo anche il ‘birbante’ con cui la mamma chiama il bambino, il ‘vecchio’ con cui il figlio chiama il padre, come ci insegna la bella voce dedicata al disfemismo del sito unaparolaalgiorno.it. Naturalmente i disfemismi possono essere manipolati a fini retorici. Ad esempio, si può insultare con epiteti pesanti il proprio interlocutore e poi, alla reazione alterata di questi, ribattere: «Non te la prendere. Stavo scherzando. Lo sai che ti voglio bene!». Ciò che differenzia la parolaccia tout court dal disfemismo è ovviamente l’intenzione del parlante e questa può sempre venire simulata o dissimulata. Infatti, cogliere la reale intenzione della persona con cui si parla non è sempre facile. Nemmeno quando si pensa di conoscere l’altro bene.