Il numero del 21/27 febbraio di Internazionale riporta alcune interessanti ricerche condotte sul rapporto tra turpiloquio e resistenza al dolore (pp. 48-49). Uno psicologo della Keele University, Richard Stephens, trovandosi accanto alla moglie in procinto di partorire, notò che la donna riusciva a superare i momenti più dolorosi del parto sparando “raffiche di imprecazioni”, comportamento caratteristico, secondo i medici, di molte partorienti.
Incuriosito, Stephens decise di condurre un esperimento sul perché, quando proviamo dolore, spesso ci lasciamo andare al turpiloquio. Chiese ad alcuni studenti di tenere una mano dentro dell’acqua gelata, pronunciando termini neutri e a un altro gruppo di studenti di fare la stessa cosa pronunciando termini volgari. Ebbene, gli studenti “volgari” riuscirono a tenere la mano nell’acqua più a lungo e riferirono di provare meno dolore. Il turpiloquio non funzionava da “distrattore”. Infatti, il battito cardiaco degli studenti aumentava quando imprecavano. Ciò, secondo Stephens, sta a indicare che pronunciare parole che provengono dai circuiti cerebrali della rabbia comporta l’innalzamento della soglia di tolleranza del dolore, lo stesso che si verifica quando il corpo si prepara a subire lesioni.
La conclusione è che, come riferisco in Turpia, il turpiloquio non è riconducibile a una semplice disgrazia linguistica, ma è un tipo di linguaggio che ha un rapporto privilegiato con alcuni aspetti della nostra psicologia e neurologia. Un rapporto che aspetta ancora di essere indagato in profondità.
Romolo propone sempre ricerche mirate portandole ad un ottimo livello anche sotto l’aspetto della pura comunicazione.
Sulla materia conoscevo di un’altra ricerca dove si sostituiva l’imprecazione con la preghiera.
Sembra che la preghiera funzionasse ancora di più dell’imprecazione.