In quest’epoca in cui è diventato ordinario incontrare volti mascherati, ci capita di cadere vittime di un’illusione su cui non mi pare sia stato detto o scritto, ma che mi sembra parecchio frequente.
Mi riferisco all’incongruenza tra l’immagine che ci costruiamo delle fattezze complessive del volto mascherato dello sconosciuto in cui ci imbattiamo e le fattezze dello stesso una volta che la maschera sia venuta via. In altre parole, a partire dagli occhi, e in mancanza di altre informazioni, tendiamo irresistibilmente a completare il resto del volto di chi ci è davanti sulla base delle esperienze pregresse, delle nostre supposizioni, più o meno consapevoli, delle nostre aspettative, credenze, convinzioni.
Spesso tali “completamenti” ci inducono anche ad elaborare aspettative sul tipo di persona che abbiamo di fronte; aspettative che riguardano la sua psicologia, lo status sociale, il lavoro, gli studi e così via.
In ciò, giocano un ruolo sicuramente alcuni principi storici della percezione, come i principi gestaltici della “chiusura o completamento” (il nostro cervello tende a percepire forme chiuse anche quando non ve ne sono), dell’“esperienza passata” (l’esperienza ci induce a modellare un volto secondo figure note), della “continuità” (gli elementi di un volto sono percepiti uniti in base alla direzione che seguono), del “destino comune” (gli elementi del volto con movimento uguale tra loro e diverso da altri vengono accomunati dal nostro cervello) ecc.
Ma gioca un ruolo importante anche la “pareidolia”, l’illusione consistente nel vedere figure dotate di senso in stimoli ambigui. Da questo punto di vista, gli occhi rappresentano uno stimolo ambiguo da cui partiamo per “comporre” il ritratto del volto completo, ma a noi sconosciuto sulla base, come detto, di esperienze pregresse, aspettative, convinzioni ecc..
Di solito, se la persona che abbiamo di fronte è perfettamente sconosciuta, lo svelamento, intenzionale o casuale, del volto (ad esempio perché la persona abbassa la mascherina per mangiare o parlare al telefono) è spesso causa di stupito disincanto. Il viso non è come ce lo aspettavamo, è più brutto o più bello, comunque difforme dalla nostra illusione.
Ci sembra così di conoscere la persona in modo diverso e, contemporaneamente, elaboriamo nuove aspettative e credenze su di essa, nuove ipotesi su psicologia, status sociale, lavoro, studi, magari destinate a essere “corrette” se abbiamo modo di conoscere meglio la persona.
Insomma, quest’epoca pandemica favorisce la genesi di illusioni interpersonali come mai prima d’ora (probabilmente). Se consideriamo che siamo già abituati a interagire con le persone in modo mediato (e quindi illusorio) grazie ai filtri dei vari social con i quali dialoghiamo con esse (filtri che, una volta caduti, ci rivelano ben altro da quello che ci attendevamo), si può dire che il nostro tempo sia particolarmente propenso a favorire l’illusione di conoscere l’altro.
Speriamo di non dover battezzare questo periodo come “l’era del velo di Maya”, il velo delle illusioni (di induista memoria) che separa la realtà dalle apparenze.