I numeri della Bibbia

Gli Israeliti partirono da Ramses alla volta di Succot, in numero di seicentomila uomini capaci di camminare, senza contare i bambini. Inoltre una grande massa di gente promiscua partì con loro e insieme greggi e armenti in gran numero. Fecero cuocere la pasta che avevano portata dall’Egitto in forma di focacce azzime, perché non era lievitata: erano infatti stati scacciati dall’Egitto e non avevano potuto indugiare; neppure si erano procurati provviste per il viaggio (Esodo 12, 37-39. Bibbia CEI).

Sui numeri della Bibbia sono stati scritti numerosi articoli e saggi. Certamente, anche il lettore più acriticamente disposto a credere nei suoi racconti, non può non rimanere sconcertato dal fatto che, ad esempio, in base a quanto scritto in alcuni passi dell’Antico Testamento, Matusalemme sarebbe vissuto fino all’età di 969 anni; Noè fino a 950 anni; Adamo fino a 930; Lamech fino a 777 e così via. E questo in un’epoca in cui il numero massimo di anni a cui era possibile realisticamente aspirare era inferiore ai 50!

La cabala ha tentato di interpretare questi numeri in chiave simbolica per cui, ad esempio, l’età di Adamo – 930 anni – risulterebbe dalla sottrazione di 70, numero della perfezione, a 1000, numero di Dio. Ma se consideriamo che la simbologia religiosa è estremamente fertile, sarà sempre possibile attribuire un significato simbolico a qualsiasi numero, tanto non sarà mai possibile essere smentiti. Anzi, più una interpretazione simbolica appare misteriosa ed elegante, più sembrerà credibile.

Ma ritorniamo al brano di Esodo in apertura. Una fuga di seicentomila uomini (a cui bisogna aggiungere donne e bambini, per cui il numero dei fuoriusciti dall’Egitto potrebbe toccare addirittura i tre milioni) appare francamente inverosimile, soprattutto se si considera l’assenza di provviste atte a sfamare tante persone.

Più realistico pensare a una interpretazione errata del termine ebraico elef, che non significa solo “migliaia”, ma anche “capi di famiglia”. Mosè, dunque, avrebbe condotto con sé seicento famiglie, non seicentomila uomini, per un totale di seimila persone al massimo. Un numero sicuramente impegnativo, ma sempre più gestibile di tre milioni!

Le vicende della Bibbia sono relative a una “epoca del pressappoco” in cui i numeri non avevano la medesima rilevanza della nostra “epoca della precisione”. Non dovremmo, dunque, compiere l’errore anacronistico di attribuire a genti di quattromila anni fa la stessa cultura aritmetica che noi diamo per scontata.

Anche i numeri, infatti, contrariamente a quanto ci viene insegnato a scuola, risentono di una dimensione sociale e culturale.

Fonti:

Beretta, R., Broli, E., 2002, Gli undici comandamenti. Equivoci, bugie e luoghi comuni sulla Bibbia e dintorni, PIEMME, Casale Monferrato (AL), pp. 20-24; 47-48.

Koyrè, A., 1992, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Einaudi, Torino.

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La mutevole percezione dell’autostop

In base all’articolo 175, comma 7, capo B del Codice della Strada, la pratica dell’autostop è vietata in Italia sulle autostrade e sulle strade extraurbane principali. Per la precisione, l’articolo citato stabilisce che:

sulle carreggiate, sulle rampe, sugli svincoli, sulle aree di servizio o di parcheggio e in ogni altra zona associata all’autostrada è vietato chiedere o offrire passaggi.

La ratio del divieto sta nel fatto che chiedere o offrire passaggi in autostrada è considerata una pratica pericolosa, potenzialmente in grado di causare incidenti o intasamenti.

Ciò che il Codice non rivela, però, è che, nel corso del tempo, la percezione dell’autostop come fatto sociale e culturale è radicalmente mutata. Come afferma la storica Linda Mahood, autrice dello studio “Thumb Wars: Hitchhiking, Canadian Youth Rituals and Risk in the Twentieth Century”, nella prima metà del XX secolo, una norma non scritta, ma diffusamente invalsa, stabiliva che dare un passaggio a un autostoppista fosse un gesto di generosità e umanità, da ricambiare con gratitudine, ma non con denaro. Addirittura, l’hitchhiking, come viene detto in inglese l’autostop, veniva descritto come un’occasione per dimostrare agli sconosciuti di essere persone bene educate, una sorta di esperienza edificante sia per chi concedeva sia per chi riceveva il passaggio.

L’autostop era, inoltre, pubblicamente lodato come una modalità avventurosa di viaggiare. Ad esempio, nel 1934, i giornali celebrarono le “gesta” di due diciannovenni che percorsero 2.300 miglia in autostop per incontrare il Primo Ministro canadese R. B. Bennett, raccogliendo l’autografo dei sindaci di ogni città che attraversavano. Una ragazza, la ventitreenne Nora Harris, che viaggiò da sola da Victoria a Halifax, nel 1938, dormendo e cucinando all’aperto, fu ricordata dai quotidiani canadesi con toni encomiastici.

L’autostop era, infine, incoraggiato come un modo per acquisire conoscenze su se stessi, il proprio e altri paesi. In definitiva, era percepito con un misto di paternalismo e cavalleria, bonarietà e indulgenza: un rituale basato su fiducia e mutuo rispetto, in grado di creare coesione sociale.

Fu a partire dagli anni Cinquanta del XX secolo che la percezione dell’autostop cominciò a cambiare. La condotta ingegnosa, avventurosa e lodevole di un tempo cominciò a suscitare dubbi e apprensioni, anche in seguito a casi di autostoppisti rapinati e uccisi dai loro “benefattori” negli Stati Uniti.

Le autorità si mostrarono preoccupate soprattutto per il sesso femminile. I giornalisti cominciarono a dare grande rilievo ai casi di giovani donne violentate dopo aver chiesto un passaggio a uno sconosciuto. In alcuni articoli, trapelò l’accusa che “se la fossero cercata” e che la loro condotta non fosse del tutto innocente. Il fatto, poi, che a chiedere passaggi in strada fossero hippie, capelloni e giovani considerati “non affidabili” contribuì a gettare più di un velo di sospetto sulla figura dell’hitchhiker.

Ben presto, l’autostop venne ad essere considerato una pratica rischiosa sia per gli autostoppisti sia per gli automobilisti: nessuno poteva essere sicuro di chi avrebbe trovato dall’altra parte.

In tempi recenti, film come The Hitcher (1986), Say Yes (2001), The Hitchhiker (2007) hanno contribuito ad associare alla figura dell’autostoppista significati macabri e inquietanti che sono ormai sedimentati nell’immaginario collettivo. A ciò hanno contribuito anche leggende metropolitane come quella dell’autostoppista fantasma, che narra, pur in molteplici varianti, la vicenda di una donna (o una bambina o una ragazza) misteriosa che, salita su un’automobile, scompare nel nulla dopo avere avvisato l’automobilista di un pericolo. Alla fine, quest’ultimo scopre che la ragazza era morta in un incidente stradale.

Da pratica di coesione sociale, generosità e condivisione, l’autostop è, dunque, diventato una condotta rischiosa, potenzialmente criminogena e tipica di vagabondi e marginali. Una trasformazione radicale che ne ha completamente stravolto lo status iniziale, trasformando l’autostoppista in una figura quasi deviante o almeno temibile.

Vedremo nel tempo se essa scomparirà del tutto dal novero delle figure incontrate in strada o se si rinnoverà in qualche forma al momento non prevedibile.

Riferimento:

Linda Mahood, 2016, “Thumb Wars: Hitchhiking, Canadian Youth Rituals and Risk in the Twentieth Century”, Journal of Social History, vol. 49, n. 3, pp. 647–670.

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Perché non c’era posto in albergo per Gesù?

In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo (Luca 2, 1-7. Bibbia CEI).

Il brano di Luca che descrive la nascita di Gesù e la sua deposizione in una umile mangiatoia ha sempre suscitato sorpresa e interrogativi. Irresistibilmente viene alla mente l’immagine di Giuseppe e Maria alla ricerca disperata di un albergo che non riescono a trovare. Perché? Perché a causa del censimento tutti gli alberghi erano occupati (come quando, ancora oggi, si partecipa a un evento senza prenotare una stanza e si rimane senza alloggio)? Perché i due sprovveduti non erano avvezzi a dormire in luoghi estranei? Perché il futuro salvatore del mondo doveva nascere in un luogo modestissimo per volere di Dio in modo che risaltasse ancora di più la sua condizione speciale?

In realtà, questi interrogativi potrebbero essere viziati da un errore di traduzione. Il termine greco utilizzato da Luca e tradotto con “albergo” è katàlyma, che, secondo gli esperti, può significare anche “caravanserraglio” ossia un recinto scoperto nel quale si chiudevano le bestie da soma, oppure “stanza” come in un altro passo di Luca (22, 11) dove Gesù dice agli apostoli di chiedere al padrone di casa: «Dov’è la stanza [katàlyma] in cui posso mangiare la Pasqua con i miei discepoli?» (Bibbia CEI).

Insomma, niente a che vedere con alberghi o hotel di lusso, come anacronisticamente potremmo pensare. Resta il fatto che Giuseppe e Maria non riuscirono a trovare né una stanza né un recinto per animali. La ragione potrebbe essere la condizione di puerpera di Maria. Secondo la legge ebraica, infatti, la puerpera rimaneva impura per 40 o 80 giorni (40 per il figlio maschio, 80 per la femmina) e rendeva impuri gli oggetti e le persone con cui veniva in contatto. Non poteva, dunque, essere ospitata in una stanza – katàlyma – insieme ad altre persone.

Se le cose stanno così, l’umiltà della condizione natale di Gesù, più che a un presunto volere divino, potrebbe essere dovuta a una semplice circostanza imposta dai costumi locali. Spesso i teologi attribuiscono disegni ultraterreni a fatti che trovano la loro ragione in spiegazioni molto umane, distorcendo il significato di eventi che di numinoso, a ben vedere, hanno poco.

Fonte:

Beretta, R., Broli, E., 2002, Gli undici comandamenti. Equivoci, bugie e luoghi comuni sulla Bibbia e dintorni, PIEMME, Casale Monferrato (AL), pp. 95-97.

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La “barbarie” del taglione

La legge del taglione venne data da Mosè al popolo d’Israele in tre occasioni.

La prima volta in Esodo 21, quando Mosè ricevette di fronte al monte Sinai una serie di norme che prefiguravano un embrione di diritto penale: «Quando alcuni uomini rissano e urtano una donna incinta, così da farla abortire, se non vi è altra disgrazia, si esigerà un’ammenda, secondo quanto imporrà il marito della donna, e il colpevole pagherà attraverso un arbitrato. Ma se segue una disgrazia, allora pagherai vita per vita: occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido» (Esodo 21, 22-25. Bibbia CEI).

La legge del taglione era posta accanto ad altre leggi che oggi farebbero inorridire per la loro crudeltà. Ad esempio: «Colui che maledice suo padre o sua madre sarà messo a morte» (Esodo 21, 17) oppure «Quando un uomo colpisce con il bastone il suo schiavo o la sua schiava e gli muore sotto le sue mani, si deve fare vendetta. Ma se sopravvive un giorno o due, non sarà vendicato, perché è acquisto del suo denaro» (Esodo 21, 20-21).

La legge del taglione venne ribadita in Levitico 24, 17-20: «Chi percuote a morte un uomo dovrà essere messo a morte. Chi percuote a morte un capo di bestiame lo pagherà: vita per vita. Se uno farà una lesione al suo prossimo, si farà a lui come egli ha fatto all’altro: frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente; gli si farà la stessa lesione che egli ha fatta all’altro». Anche in questo caso, la legge del taglione è posta accanto ad altre leggi tremende, come: «Chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte: tutta la comunità lo dovrà lapidare. Straniero o nativo del paese, se ha bestemmiato il nome del Signore, sarà messo a morte» (Levitico 24, 16).

La terza e ultima volta è ricordata in Deuteronomio 19, 21, quando gli israeliti stavano per entrare nella terra promessa: «Il tuo occhio non avrà compassione: vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede».

Sarebbe troppo semplice giudicare la legge del taglione come una modalità barbara e incivile di fare giustizia, una forma di vendetta primitiva e inumana. Del resto, nel nostro ordinamento penale, essa non è ammessa in quanto lo Stato possiede il monopolio della violenza fisica legittima.

Ma è proprio questo il punto: in un’epoca in cui non esisteva uno Stato come noi lo concepiamo, non esisteva un diritto penale come lo intendiamo oggi, non esistevano né poliziotti né palazzi di giustizia, era facile, in occasione di fatti di sangue, oltrepassare la misura e abbandonarsi a vendette sanguinose che imponevano una pena ben superiore al reato commesso dall’autore del delitto.

Così, se un uomo perdeva un occhio nel corso di una zuffa, non era infrequente che il suo clan togliesse la vita al responsabile; azione che poteva innescare, proprio perché avvertita come eccessiva, una catena, potenzialmente infinita, di reazioni altrettanto sanguinose e dalle conseguenze distruttive per tutta la comunità.

La legge del taglione venne, dunque, a stabilire un principio di equità: la perdita di un occhio non poteva che essere “riparata” dalla perdita di un altro occhio; quella di una mano dal taglio di un’altra mano e così via. Si castigava duramente il colpevole, circoscrivendo la ritorsione entro i confini esatti del delitto. Si limitava la potenziale pericolosità della vendetta incontrollata, ponendo limiti alle richieste della vittima e tutelando, ancorché in modo rozzo, i diritti degli individui.

Siamo ancora lontani da una “giustizia giusta”, ma certamente la legge del taglione non dovrebbe essere percepita etnocentricamente come la quintessenza della barbarie, come ancora oggi si equivoca. Si trattava di un diritto poco compassionevole, ma a suo modo riequilibrativo, teso a risanare il legame con la società rotto dal fatto criminoso. Principio che oggi è considerato fondamentale nella cosiddetta “giustizia riparativa”.

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Primogeniti o primizie?

Le dieci piaghe d’Egitto furono sciagure che, secondo il racconto di Esodo, flagellarono per volontà divina il faraone e gli Egizi, colpevoli di ostacolare la partenza degli Ebrei per la Palestina. È possibile ricordarle brevemente: 1) l’acqua del Nilo tramutata in sangue; 2) l’invasione delle rane; 3) la piaga delle zanzare (o dei pidocchi); 4) la piaga dei mosconi; 5) la morte del bestiame; 6) la piaga delle ulcere; 7) la piaga della grandine; 8) la piaga delle locuste; 9) l’oscuramento del cielo (le tenebre); 10) la morte dei primogeniti.

Il racconto di Esodo è stato oggetto di numerosissime interpretazioni: religiose, storiche, filosofiche, metaforiche, geologiche, archeologiche, fisiche, chimiche ecc. Si è scoperto, fra l’altro, che esso contiene storie scritte da autori diversi e che cinque piaghe sono più antiche delle altre.

Risultano molto interessanti i tentativi di spiegare scientificamente le piaghe, soprattutto in considerazione del fatto che l’Egitto è stato effettivamente colpito da numerose catastrofi naturali nel corso della sua storia. Ad esempio, l’area del Sinai è stata segnata da terremoti e nubifragi molto violenti che hanno sconvolto l’immaginario delle popolazioni locali.

La mutazione delle acque del Nilo in sangue potrebbe essere dovuta al fenomeno dei cianobatteri, microrganismi che, oltre a provocare una colorazione rossa delle acque, le privano di ossigeno, producendo tossine nocive per i pesci che sono predatori di rane.

Ciò potrebbe aver favorito una proliferazione infestante di rane che, abbandonate le acque fetide del Nilo, potrebbero essersi diffuse nelle terre circostanti, morendo però a causa della scarsità di cibo (le rane si nutrono di zanzare). Ciò, a sua volta, potrebbe aver innescato altre due piaghe: quella delle zanzare e quella dei mosconi. Il morso di questi insetti potrebbe essere stato la causa di infezioni letali per il bestiame (quinta piaga), diffondendo un terribile virus. Le ulcere della sesta piaga potrebbero essere state provocate dalla pseudimonas mallei, malattia fortemente contagiosa, trasmessa dal contatto con le mosche.

La grandine della settima piaga potrebbe essere stata generata da un freddo improvviso, che, a sua volta, potrebbe aver causato le condizioni idonee alla proliferazione di insetti come le locuste (ottava piaga). L’oscuramento del cielo, durato tre giorni, potrebbe essere attribuibile a una grande tempesta di sabbia, non insolita nell’area, o a un violento terremoto seguito da un’imponente eruzione di polveri.

L’ultima piaga, quella che risultò decisiva nel far cambiare idea al faraone, fu la morte dei primogeniti d’Egitto, uomini e animali. Così viene descritta in Esodo:

Il Signore disse a Mosè: «Ancora una piaga manderò contro il faraone e l’Egitto; dopo, egli vi lascerà partire di qui. Vi lascerà partire senza restrizione, anzi vi caccerà via di qui. Dì dunque al popolo, che ciascuno dal suo vicino e ciascuna dalla sua vicina si facciano dare oggetti d’argento e oggetti d’oro. Ora il Signore fece sì che il popolo trovasse favore agli occhi degli Egiziani. Inoltre Mosè era un uomo assai considerato nel paese d’Egitto, agli occhi dei ministri del faraone e del popolo. Mosè riferì: «Dice il Signore: Verso la metà della notte io uscirò attraverso l’Egitto: morirà ogni primogenito nel paese di Egitto, dal primogenito del faraone che siede sul trono fino al primogenito della schiava che sta dietro la mola, e ogni primogenito del bestiame. Un grande grido si alzerà in tutto il paese di Egitto, quale non vi fu mai e quale non si ripeterà mai più. Ma contro tutti gli Israeliti neppure un cane punterà la lingua, né contro uomini, né contro bestie, perché sappiate che il Signore fa distinzione tra l’Egitto e Israele (Esodo 11, 1-7. Bibbia CEI).

Una possibile spiegazione di questa piaga è riconducibile alla scarsità di generi alimentari disponibili dopo le nove piaghe precedenti e a una infezione da micotossine presente negli strati superiori del grano immagazzinato, quello che veniva offerto ai primogeniti, umani e animali. Gli ebrei, invece, sarebbero sfuggiti a tale avvelenamento perché seguivano una dieta diversa.

Secondo un’altra interpretazione, gli Egizi, provati psicologicamente dalle catastrofi precedenti, potrebbero aver sacrificato i loro primogeniti per placare l’ira delle divinità. L’archeologia ha infatti rivelato che, all’epoca, non era insolito sacrificare bambini per cercare la benevolenza degli spiriti. Un esempio è fornito dalla vicenda del re Moab che, in battaglia, davanti alla sconfitta con gli Israeliti, «prese il figlio primogenito, che doveva regnare al suo posto, e l’offrì in olocausto sulle mura» (2Re 3, 27. Bibbia CEI).

Questa interpretazione è, però, resa discutibile da quanto riferisce Esodo poco prima, che riduce la strage annunciata in 11, 1-7, alla morte del solo primogenito del faraone:

Il Signore disse a Mosè: «Mentre tu parti per tornare in Egitto, sappi che tu compirai alla presenza del faraone tutti i prodigi che ti ho messi in mano; ma io indurirò il suo cuore ed egli non lascerà partire il mio popolo. Allora tu dirai al faraone: Dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito. Io ti avevo detto: lascia partire il mio figlio perché mi serva! Ma tu hai rifiutato di lasciarlo partire. Ecco io faccio morire il tuo figlio primogenito!» (Esodo 4, 21-23. Bibbia CEI).

Come scrivono Roberto Beretta e Elisabetta Broli, la questione dei primogeniti potrebbe essere frutto di un errore di traduzione: i bikkurim, parola con la quale ci si riferisce ai primi nati, «non sarebbero stati i primogeniti maschi, ma le primizie dei prodotti del suolo, distrutte dalle precedenti nove piaghe. Solo più tardi il termine avrebbe acquistato un senso “umano”».

Non di una strage di esseri umani e di animali, quindi, si tratterebbe, ma di “primi frutti”. Sia come sia, l’intero racconto delle dieci piaghe potrebbe essere interpretato come la traduzione in chiave mitica e religiosa di eventi naturali devastanti subiti dagli Egizi al tempo di Mosè. È noto, infatti, che conferire a un fenomeno fisico brutale un significato religioso può aiutare a sopportarlo meglio. Come dire: “Se Dio lo vuole… non possiamo farci niente! Anzi, possiamo condurre le nostre vite in modo che non accada mai più”.

Un’esistenza che osserva i principi morali può, allora, divenire lo scudo simbolico che rassicura e protegge da quelli che apparirebbero come ciechi e casuali sconvolgimenti della natura.

Fonti:

Beretta, R., Broli, E., 2002, Gli undici comandamenti. Equivoci, bugie e luoghi comuni sulla Bibbia e dintorni, PIEMME, Casale Monferrato (AL), pp. 39-42.

Ravasi, G., 2001, Esodo, Queriniana, Brescia.

Siro, A., “La realtà storica. Le piaghe d’Egitto”, Il postalista

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Victim blaming a doppio binario

Il più grande merito della vittimologia, la disciplina sorella della criminologia, è certamente quello di aver problematizzato la propensione di senso comune a polarizzare il rapporto reo-vittima, attribuendo al primo tutta la responsabilità dell’atto criminale e alla seconda tutta l’innocenza. Il rapporto tra chi commette il reato e chi lo subisce è più complicato e vede il secondo spesso attivamente coinvolto in esso.

Questa consapevolezza è presente sin dagli esordi della vittimologia.

Uno dei suoi pionieri, Mendelsohn, propose una tipologia vittimologica che prevedeva, accanto alla vittima del tutto innocente (il bambino, ad esempio), la vittima provocatrice e la vittima con altissimo grado di colpa

Un altro esponente di spicco Wolfgang coniò il termine victim precipitation, che indica quei casi in cui la vittima fa precipitare l’azione delittuosa e determina il proprio rischio di vittimizzazione.

Amir parla di “precipitazione in caso di stupro”

quando la vittima effettivamente, oppure è stato presunto, abbia acconsentito al rapporto sessuale ma abbia revocato il proprio consenso prima della sua concreta realizzazione o non abbia reagito in modo sufficientemente deciso quando il rapporto sessuale è stato suggerito o proposto dall’autore del reato. Il termine si applica anche alle situazioni rese rischiose dalla sensualità specialmente quando la vittima usa ciò che potrebbe essere interpretato come linguaggi ed atteggiamenti indecenti, osceni, o ponga in essere ciò che potrebbe essere considerato un invito ad avere un rapporto sessuale (Saponaro, A., 2004, Vittimologia, Giuffrè, Milano p. 141).

Da qui al passaggio al victim blaming (colpevolizzazione della vittima) è un passo. È così che la vittima di un reato diventa completamente o parzialmente responsabile di quanto le è accaduto.

Dobbiamo allo psicologo William Ryan, autore nel 1971 di Blaming the victim, il riconoscimento della tendenza a colpevolizzare la vittima come strategia politica a sostegno di una visione ideologica della realtà. Esaminando il testo di Daniel Patrick Moynihan The Negro Family: The Case for National Action del 1965, in cui l’autore colpevolizzava i poveri per le condizioni in cui versavano, descrivendoli come pigri e ignoranti, più inclini al sussidio di disoccupazione che a trovare un lavoro, Ryan smascherò l’intento di derubricare la povertà come problema sociale e individualizzarne le responsabilità.

Evidentemente, secondo che la povertà sia individuata come un problema sociale o un problema individuale, cambiano completamente le strategie per fronteggiare il problema: nel primo caso, gli interventi dovranno prevedere una riforma profonda, se non radicale, della società (compito estremamente difficile); nel secondo basterà intervenire sull’individuo infingardo, rieducandolo o allontanandolo in qualche modo dalla società civile (marginalizzazione, imprigionamento, istituzionalizzazione ecc.), compito relativamente semplice in quanto non prevede un ripensamento della struttura sociale.

Il victim blaming è utilizzabile anche come tecnica di neutralizzazione per attenuare la responsabilità individuale del colpevole (“È tutta colpa sua!”) o come modalità di conferma dell’idea, connaturata in ognuno di noi, secondo cui il mondo è un posto fondamentalmente giusto e la vittima di un reato “deve” aver fatto qualcosa per aver attirato il reato su di sé. Si tratta della “teoria del mondo giusto” di Melvin J. Lerner secondo la quale l’equilibrio sociocognitivo delle persone è governato dall’illusione che il mondo sia un posto dove le persone buone vengono ricompensate e le persone cattive punite. Dal momento che la smentita di tale illusione sarebbe estremamente destrutturante, è preferibile dare la colpa alla vittima per quello che le è successo, salvaguardando la stabilità della propria visione del mondo.

Mentre alcune forme di victim blaming funzionano senza troppi problemi, altre sono ormai profondamente contestate, circostanza che ci fa capire come, ai fini della buona riuscita di questo meccanismo, intervengano elementi di natura culturale e sociale che orientano il giudizio in maniera preminente.

Pensiamo allo stupro e al furto. Nel primo caso il victim blaming è ormai fortemente riprovato anche per l’impatto culturale dei vari femminismi nel corso del tempo. Nel secondo, invece, è frequentemente praticato, talvolta dagli stessi criminologi. Per esempio, la persona che passeggia indossando dei gioielli di valore o che parcheggia l’automobile lasciandola aperta, in una società dove il furto è diffuso, viene spesso tacciata di essere “stupida” o “irresponsabile”. In non pochi casi, si commenta il furto con un “gli/le sta bene”, quasi dimenticando che il furto è un reato e che dovrebbe ricadere sul ladro la colpa della sua commissione.

Al contrario, quasi nessuno più incolpa una donna perché, al momento della violenza sessuale, indossava una minigonna, e, se lo fa, riceve critiche molto severe. Siamo lontani dalla cultura dell’onore e della subalternità femminile, anche se resistono sacche di retroguardia, di cui si parla solitamente in occasione dei cosiddetti femminicidi. Il victim blaming è dunque fortemente selettivo e dipende da fattori culturali, sociali, politici, che potrebbero anche variare nei prossimi anni, come sono variati in passato.

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Gli equivoci del “politicamente corretto”

C’è qualcosa di equivoco e perturbante nel politically correct: qualcosa che affascina e rende perplessi, coinvolge e allontana.

V’è innanzitutto la questione del linguaggio inclusivo. Sono convinto che il linguaggio abbia un ruolo importante nel progresso della società. Dire “gay” non è la stessa cosa che dire “frocio”. Sebbene entrambi i termini vengano adoperati per designare una persona omosessuale, il secondo trascina con sé una serie di connotazioni negative che aggiungono alla mera descrizione di un orientamento sessuale, una condanna dello stesso in quanto disgustoso, inferiore, patologico ecc. E se uso “gay” invece di “frocio” evito tali connotazioni e parlo una lingua diversa, inclusiva appunto.

Un esempio simile riguarda l’uso di “persona disabile” al posto di “storpio” o “handicappato”. Il primo termine conferisce rispetto e dignità; il secondo inferiorizza e umilia; il terzo offende. Ma – e qui sta l’ambiguità della faccenda – “handicappato” aveva inizialmente buone intenzioni, per così dire. È una parola nata per designare in maniera neutra che, con il tempo, ha assunto una connotazione ormai inaccettabile (anche se sopravvive perfino in alcuni testi normativi, a partire dalla Legge 5 febbraio 1992, n. 104 “Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”). Stessa sorte è capitata a “Down”, abbreviazione di “sindrome di Down”, originariamente descrizione neutra di “mongolismo” e oggi adoperata, talvolta, in senso offensivo.

C’è poi la questione di “cieco”, inizialmente vituperato come brutale e soppiantato da “non vedente” per poi tornare alla carica e sostituire quest’ultimo, accusato di indicare negando la condizione opposta, come fanno tutte le litoti.

Insomma, quella del linguaggio inclusivo è una faccenda complicata, non facilmente riducibile a una lista di proscrizione abbinata a una lista di termini preferiti. Anche perché le liste cambiano con il tempo e ciò che è considerato accettabile oggi, potrebbe non esserlo domani.

Prendiamo, ad esempio, l’espressione LBGTQ+. Attualmente è considerata “in”, ma siamo sicuri che sia preferibile essere definiti da un acronimo, peraltro così involuto come LBGTQ+?

Alcune soluzioni inclusive sembrano, poi, peggiori del problema. Affiancare o sostituire history con herstory è più inclusivo o più ridicolo? Humankind invece di mankind è davvero un passo in avanti?

Il rischio, paventato fra gli altri dalla scrittrice Doris Lessing (1919-2013), autrice di Language and the Lunatic Fringe (1992), qui da me tradotto, è che il politicamente corretto finisca con l’imporre una forma di conformismo linguistico rispetto al quale ogni altra scelta linguistica appare deviante, riprovevole, sanzionabile; una sorta di lingua unica, precorritrice di un pensiero unico, strumento di un neopuritanesimo di maniera, ma dalle conseguenze potenzialmente devastanti per chi non vi aderisce.

E poi siamo sicuri che ricorrere ad espressioni eufemistiche – celebre il caso di “spazzino” sostituito da “operatore ecologico” – contribuisca davvero a modificare la realtà delle cose? Se, invece, servisse solo a celarla sotto una coltre benpensante? Se rimpiazziamo “poveri” con “persone a basso reddito” non corriamo il rischio di nascondere le cause sociali della povertà e i rapporti di classe reali, mascherandoli dietro una frase anodina? Se ci limitiamo a surrogare “barbone” con “senzatetto” risolviamo il problema della mancanza di alloggi per tutti? Come nascondere la polvere sotto un tappeto per non vederla.

La impronunciabile schwa (“ə”), la tanto celebrata vocale neutra che dovrebbe riequilibrare i rapporti di genere nella lingua italiana è più utile o più patetica?

Non concordo con chi parla di “dittatura del politicamente corretto”, spesso con l’intenzione di reintrodurre termini a cui è semplicemente avvezzo per tradizione. O con chi sostiene che “non si può dire più niente” perché si vede censurato quando pronuncia “negro” al posto di “nero”.

Il rischio reale è che il tutto, però, sia un’operazione di maquillage verbale che serve a illudere di cambiare le cose, imponendo un lessico monolitico e intransigente, finendo solo con il distrarre e celare retoricamente i problemi sociali.

Insomma, il politicamente corretto come “narcotico culturale”, utile per dare l’impressione di cambiare le cose senza farlo davvero.

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Gli inganni linguistici delle Ztl

Ztl (Zona a Traffico Limitato) è un acronimo ben noto agli automobilisti italiani. È presente in molti cartelli di città del nostro paese, dove designa aree in cui l’accesso e la circolazione dei veicoli sono limitati in ore prestabilite a particolari categorie di utenti e a particolari categorie di veicoli.

L’accesso alla Ztl può avvenire attraverso specifici varchi che possono essere dotati di apparecchiature elettroniche per il controllo degli accessi. In caso di violazione delle Ztl sono previste sanzioni di importo variabile, che gli italiani hanno imparato a conoscere nel corso degli anni.

Fino a qualche tempo fa, prima dell’approvazione delle nuove Linee Guida sulla regolamentazione della circolazione stradale e segnaletica nelle zone a traffico limitato (28 giugno 2019), la scritta Ztl era corredata dalle indicazioni “varco attivo” e “varco non attivo” a segnalare, nel primo caso, l’attraversamento limitato della zona, nel secondo, l’attraversamento libero.

La terminologia davvero molto burocratica e poco comunicativa ha tratto in inganno per anni gli automobilisti che hanno confuso l’aggettivo “attivo” con “attraversabile liberamente”, perché la parola “varco” vuol dire “passaggio” e quindi la dicitura “varco attivo” comunica al senso comune che il passaggio è aperto, e quindi percorribile. Un equivoco generato da qualche mente poco illuminata a cui si è posto per fortuna rimedio di recente. 

Oggi, si leggono le scritte “Ztl attiva” e “Ztl non attiva” che sembrano essere recepite con maggiore chiarezza dagli automobilisti. Ma gli “inganni” non finiscono qui.

Il fatto è che tali scritte sono corredate, in qualche caso, da improvvide traduzioni in inglese, “Ztl opened” e “Ztl closed”, peraltro stabilite dalle Linee guida segnalate in precedenza, che presentano un serio problema di comprensione per l’automobilista anglofono. 

Innanzitutto, “Ztl” è un acronimo italiano, non presente in quanto tale nelle enciclopedie dei parlanti di lingua inglese. “Zona a Traffico Limitato” può tradursi con “Restricted Traffic Area” o “Limited Traffic Area”, espressioni che non possono essere certamente rese dall’acronimo “Ztl”. A meno di credere – sbagliando – che chi viene dal Regno Unito o dagli Stati Uniti DEBBA conoscere il significato tutto italiano di “Ztl”.

Il secondo errore sta nel termine opened che ricorda un abbaglio commesso spesso a scuola quando si traduce “aperto”, appunto, con opened invece che con open, come in “The store is opened” invece di “The store is open”.

Difficilmente è dato trovare tanti orrori linguistici in una espressione breve come “Ztl opened”. In Italia, ci siamo riusciti.

Ps. A Londra esiste la ULEZ, (Ultra Low Emission Zone), zona della città in cui i veicoli ad alte emissioni inquinanti devono pagare una tassa per entrare. Serve per scoraggiare l’entrata di questi veicoli, ma è cosa diversa dalla Ztl, anche perché è attiva 24 ore su 24.

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La psicologia dell’anno che verrà

Scritto nel 1832 e pubblicato nel 1834, il Dialogo di un Venditore di almanacchi e di un Passeggere di Giacomo Leopardi rappresenta una delle più celebri riflessioni su quella che potremmo definire “psicologia del nuovo anno”.

Perché tante persone si scambiano corposi auguri conditi da abbondanti cibi e bevande il 31 dicembre? Perché si ripone tanta speranza nell’anno venturo, quasi che possa essere diametralmente diverso rispetto all’anno appena trascorso? Perché ciò avviene a dispetto dell’esperienza che ci insegna che gli anni passati non sono stati necessariamente anni felici, anzi talvolta disastrosi e funesti?

Prendiamo il 2024. Pensiamo davvero che lo scoccare della mezzanotte farà svanire le guerre che attualmente si combattono tra Russia e Ucraina e tra Israele e Hamas? Che la pace si imporrà per magia a popoli afflitti da mille rancori e motivati da bellicosità che affondano le loro radici nel tempo? Crediamo davvero che la disoccupazione svanirà d’un tratto, che i femminicidi si ridurranno a zero e che cancro e leucemia non mieteranno più vittime?

Se ponessimo queste domande a un campione della popolazione riscontreremmo risposte “realistiche”, se non disilluse. Ognuno di noi sa, in cuor suo, che il prossimo anno non sarà molto diverso da quello trascorso e potrà essere addirittura peggiore.

E allora perché festeggiamo?

Per “l’ignoranza del futuro e una illusione della speranza”, come dice Leopardi in un passo dello Zibaldone che potrebbe fare da commento al Dialogo di un Venditore di almanacchi e di un Passeggere.

Nella vita che abbiamo sperimentata e che conosciamo con certezza, tutti abbiamo provato più male che bene; e se noi ci contentiamo ed anche desideriamo di vivere ancora, ciò non è che per l’ignoranza del futuro, e per una illusione della speranza, senza la quale illusione o ignoranza non vorremmo più vivere, come noi non vorremmo rivivere nel modo che siamo vissuti (1 luglio 1827).

La psicologia dell’anno che verrà è sostanzialmente una psicologia delle aspettative illusorie. Sono queste a far sì che il futuro ci appaia roseo e foriero di  felicità, nonostante le delusioni o, almeno, il “realismo” predicato dal tempo vissuto. È la speranza di ciò che ci immaginiamo e ci illudiamo possa accadere a indurci a guardare con ottimismo al futuro.

Questa illusione è affine a tante “fallacie” dell’ottimismo che caratterizzano la mente umana. Gli psicologi ricordano al riguardo:

il “bias ottimistico”, ossia la tendenza delle persone a considerarsi meno soggette a eventi negativi e più soggette ad eventi positivi rispetto alla media della popolazione  (fenomeno osservato in un gran numero di situazioni, dagli incidenti automobilistici ad alcune forme di depressione);

il “ricordo roseo” (traduzione dell’inglese rosy retrospection), ossia la tendenza a ricordare gli eventi del passato in maniera più positiva di quanto siano stati effettivamente (il meccanismo agisce soprattutto nel caso di eventi moderatamente piacevoli);

l’“illusione di controllo”, ovvero la tendenza a ridimensionare i fattori indipendenti dal nostro intervento e ad attribuire a noi stessi un potere di controllo superiore a quello reale (si esprime nella convinzione che le situazioni negative o a rischio possano essere controllate dalla propria abilità, anche quando questa non ha molto a che fare con gli eventi);

la “sicumera” (traduzione dell’inglese overconfidence), ossia l’incrollabile fiducia nei propri giudizi nonostante l’accertata inattendibilità delle proprie valutazioni (le persone tendono costantemente a ritenere la propria valutazione migliore, più saggia, più adeguata ecc. di quanto non sia in realtà);

l’“effetto terza persona”, forma di ragionamento in base alla quale si è indotti a pensare di essere meno vulnerabili e suscettibili all’influenza sociale di quanto non lo siano gli altri (è il caso di chi pensa che i messaggi pubblicitari abbiano effetto sugli altri ma non su di sé, o di chi pensa di essere più furbo degli altri quando si tratta di truffe e inganni);

l’“effetto del falso consenso”, ossia la tendenza delle persone a ritenere che i propri atteggiamenti, credenze, opinioni e comportamenti siano agevolmente condivisi dagli altri (è una forma di egocentrismo, dovuta al fatto che le persone sono portate a pensare a sé stesse come persone normali che fanno cose normali e condivise da tutti);

l’“autoinganno”, ossia il processo psicologico per il quale sono accettati come veri o validi fatti, opinioni, scritti ecc. che sono falsi o non validi.

Insomma, c’è qualcosa nella mente umana che predispone verso l’ottimismo nei confronti del futuro (ma anche del passato), anche a costo di distorcere la realtà. Gli esseri umani tendono a immaginare che il tempo che verrà sarà più felice di quello passato, così come, per lo più, sopravvalutano i fatti che riguardano se stessi, pensando di essere più bravi, intelligenti, capaci degli altri. Inoltre, tendono a sottostimare i propri difetti attribuendosi più virtù. Secondo la psicologia, l’arte di “vedere roseo” e, quindi, di ingannare sé stessi, è indispensabile per la sopravvivenza della specie umana perché permette di sopportare i grandi e piccoli dolori della vita, compresa l’idea della morte, e di continuare a vivere nel migliore dei modi possibili.

Un certa dose di abbaglio è, dunque, indispensabile alla sopravvivenza.

Il 31 dicembre si brinda a un’illusione e si pasteggia con le pietanze dell’autoinganno. E sebbene il vitto del passato sia stato spesso indigesto, crediamo che, in virtù del “caso”, come dice Leopardi, esso sia destinato a essere squisito e leggero.

Illusioni e autoinganni. Sono questi che ci tengono in vita.

E allora…prospere illusioni!

 

Dialogo di un Venditore di almanacchi e di un Passeggere

Giacomo Leopardi (1832)

 Venditore. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?

 Passeggere. Almanacchi per l’anno nuovo?

 Venditore. Si signore.

 Passeggere. Credete che sarà felice quest’anno nuovo?

 Venditore. Oh illustrissimo si, certo.

 Passeggere. Come quest’anno passato?

 Venditore. Più più assai.

 Passeggere. Come quello di là?

 Venditore. Più più, illustrissimo.

 Passeggere. Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?

 Venditore. Signor no, non mi piacerebbe.

 Passeggere. Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?

 Venditore. Saranno vent’anni, illustrissimo.

 Passeggere. A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo?

 Venditore. Io? non saprei.

 Passeggere. Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?

 Venditore. No in verità, illustrissimo.

 Passeggere. E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?

 Venditore. Cotesto si sa.

 Passeggere. Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste?

 Venditore. Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.

 Passeggere. Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?

 Venditore. Cotesto non vorrei.

 Passeggere. Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch’ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?

 Venditore. Lo credo cotesto.

 Passeggere. Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?

 Venditore. Signor no davvero, non tornerei.

 Passeggere. Oh che vita vorreste voi dunque?

 Venditore. Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti.

 Passeggere. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?

 Venditore. Appunto.

 Passeggere. Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli e toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?

 Venditore. Speriamo.

 Passeggere. Dunque mostratemi l’almanacco più bello che avete.

 Venditore. Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.

 Passeggere. Ecco trenta soldi.

 Venditore. Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.

 

 

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Celebrità e morte naturale

Per il negro non c’è morte naturale, morte necessaria. Ad ogni decesso si consulta lo stregone per sapere da lui chi è l’autore di tale crimine segreto e magico. Ci troviamo ancora in questa condizione di spirito e ogni morte prematura di un uomo famoso induce subito a parlare di avvelenamento, di misterioso assassinio. Tutti ricordano le leggende sorte alla morte di Gambetta, di Félix Faure; esse si collegano naturalmente a quelle che commossero la fine del diciassettesimo secolo, a quelle che oscurarono, ben più dei fatti senz’altro singolari, il sedicesimo secolo italiano. Nei suoi aneddoti romani, Stendhal abusa di questa superstizione del veleno che ai giorni nostri doveva fare ancora più di una vittima giudiziaria (Remy de Gourmont, 2000, La dissociazione delle idee, Alinea Editrice, Firenze, pp. 35-36).

Le osservazioni di de Gourmont ci introducono a uno dei temi più affascinanti della tanatologia. La letteratura etnologica ci racconta da tempo che, presso molte popolazioni preletterate, l’idea di “morte naturale” non era così scontata come oggi: in sostanza, si riteneva che le persone morissero per l’intervento di una causa umana (sortilegio, fattura, incantesimo). Per questo motivo, si cercava di individuare il “colpevole” attraverso ulteriori azioni magiche, che potevano condurre a bellicosità sfocianti in veri e propri conflitti armati.

Oggi, conquistati dall’idea di morte naturale, tendiamo a considerare con cipiglio di superiorità i poveri “primitivi”, affascinati da una morte ritenuta sempre frutto di pratiche magiche. Eppure, come ricorda de Gourmont, anche noi intratteniamo spesso lo stesso atteggiamento nei confronti dei decessi delle persone famose, soprattutto quando queste muoiono in giovane età.

La scomparsa precoce di queste persone, da alcuni di noi paragonate a divinità quasi religiose, e che popolano fittamente il nostro immaginario culturale, erotico, fantastico ecc., è spesso ritenuta inaccettabile per cui la nostra mente elabora spiegazioni sofisticate, spesso complottistiche, per illudersi che, in realtà, esse non sono morte a causa di un infarto, di un aneurisma, di una caduta o di un’altra ragione “banale”, ma perché qualcuno ha voluto la loro morte, ha tramato alle loro spalle, ha messo in atto un piano diabolico per porre fine alla loro esistenza.

In alternativa, come è successo con Elvis Presley, John Lennon e Marilyn Monroe, si preferisce credere che siano ancora in vita, seppure sotto mentite spoglie, per fuggire alla pressione soffocante della celebrità o per altre ragioni sottili che a noi comuni mortali non è dato sempre conoscere.

Insomma, anche in noi è sempre in agguato un pensiero “primitivo” sulla morte che scatta in occasione della scomparsa precoce di nomi celebri del mondo dello spettacolo, del cinema, dello show business, della politica.

Tale atteggiamento, a ben vedere, è una sorta di meccanismo di difesa che ci consente di preservare una idea di immortalità a noi necessaria per continuare a vivere. Come dire: se a ognuno di noi, persone comuni, può capitare di morire precocemente per una causa comune, a loro – ai grandi divi del cinema o della musica – questo non può accadere e, se accade, è per colpa di motivi straordinari, non comuni, in assenza dei quali vivrebbero per sempre.

È una illusione, naturalmente. Un’illusione di immortalità. Ma senza illusioni, la vita non potrebbe essere vissuta.

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