Comunicare la disabilità

Le parole hanno il potere di creare realtà, unire o dividere, fare amare o odiare, generare affiliazioni o discriminazioni. Questo è tanto più vero se si considera un campo semantico complesso quale quello della disabilità in cui è facile, anche in buona fede, adoperare termini che stigmatizzano o umiliano.

Comunicare la disabilità. Prima la persona, a cura di Antonio Giuseppe Malafarina, Claudio Arrigoni e Lorenzo Sani dell’Ordine dei giornalisti, è un manualetto, rivolto in primis a chi pubblica notizie per mestiere, che ci aiuta a orientarci nel linguaggio inclusivo sulla disabilità, senza cadere negli eccessi del politicamente corretto. In esso è possibile trovare utili indicazioni sui termini da evitare e quelli da adoperare. Ecco alcuni esempi.

DA EVITAREDA USARE
Handicappato
Persona handicappata
Disabile
Diversamente abile
Persona disabile
Persona diversamente abile
Persona con… (specificare la condizione: per
es., paraplegia, tetraplegia, cerebrolesione, sindrome di Down ecc.)
Persona con una disabilità o con disabilità
(prima di tutto si è una persona, ragazza, un ragazzo, bambino, atleta, queer ecc. Metti la persona al primo posto invece che riferirti solo alla
sua condizione)
Handicappato fisico
Handicappato mentale
Persona con una disabilità fisica
Persona con una disabilità intellettiva e/o
relazionale
Persona normale
Persona normodotata
Normodotato
Persona senza disabilità (preferibilmente) o persona che non ha disabilità
Un paraplegico, un tetraplegicoUna persona con paraplegia, tetraplegia
Un cieco
Un non vedente
Una persona non vedente
(meglio evitare il “non” iniziale, che rischia
di negativizzare la persona in generale)
Una persona cieca
Per chi ha un residuo visivo usare:
persona ipovedente
La traduzione del termine inglese “visually
impaired”, menomato nella vista, in italiano è
peggiorativa
Un ritardato
Un Down, una persona Down, mongolo,
mongoloide
Una persona con disabilità intellettiva o
relazionale
(non esistono persone ritardate e non è corretto
indicare un ritardo mentale)
Una persona con sindrome di Down
(condizione genetica e non malattia)
Spastico
Cerebroleso
Persona con una paralisi cerebrale
Persona cerebrolesa
Persona con una cerebrolesione
Menomato oppure invalido oppure storpiocon una disabilità fisica
Confinato oppure relegato in carrozzinaUsa una carrozzina
(la carrozzina aiuta a muoversi e non limita)
Carrozzella (è quella trainata da cavalli)Carrozzina o sedia con ruote o sedia a rotelle o sedia con rotelle

Usare le “parole giuste” consente di “vedere” la realtà della disabilità in modo rispettoso e non umiliante. Le parole segnalate potrebbero, ovviamente, mutare nel tempo ed essere sostituite da altre che la società considererà più adeguate ai tempi. 

Nel frattempo, per chi voglia consultare l’intero manualetto, rimando a questo link per una lettura sicuramente utile e istruttiva.

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Gli anacronismi di Lidia Poët

“La legge di Lidia Poët” è una recente serie Netflix, con Matilda De Angelis nei panni della protagonista, liberamente ispirata alla vita della prima avvocata d’Italia ad essere iscritta all’ordine degli avvocati.

Lidia Poët (1855-1949), in effetti, è esistita davvero. Laureata in giurisprudenza nel 1881, fu ammessa all’esercizio dell’avvocatura nell’agosto 1883, iscrizione poi revocata qualche mese dopo (novembre 1883) sulla base dell’argomentazione che, quello di avvocato, non era mestiere per donne.

Solo nel 1920, all’età di 65 anni, in seguito all’approvazione della Legge n. 1179 del 17 luglio 1919, Poët riuscì a entrare nell’Ordine degli avvocati e a vedere riconosciuto un lavoro che, di fatto, esercitava da anni con il fratello Enrico.

Ora, se, da un lato, la serie Netflix ci consente di acquisire familiarità con una figura non da tutti conosciuta e sicuramente meritevole di essere apprezzata, anche per il suo lavoro pioneristico in ambito femminista, dall’altro, evidenza notevoli inesattezze e anacronismi a cui vale la pena accennare.

Nel primo episodio, la protagonista è vista dallo spettatore in aperto rapporto sessuale con un giovane amante che, si intuisce, impegnato in un cunnilinguo. I due si mostrano nelle loro nudità perfette, esibendo comportamenti sessuali oggi normalissimi, ma assolutamente discutibili per l’epoca; epoca che sosteneva standard sentimentali, sessuali e igienici sensibilmente diversi dai nostri. Quanti riflettono, ad esempio, sul fatto che pratiche sessuali orali presuppongono forme di igiene incompatibili con gli standard di pulizia del XIX secolo?

Non sto dicendo che tali pratiche non fossero possibili all’epoca, ma che presentarle, come viene fatto nella serie, come “fatto ordinario” è piuttosto lontano dallo spirito del tempo.

Ugualmente inverosimile, nel secondo episodio, l’ingresso della Poët in una fumeria d’oppio frequentata da loschi individui e membri dell’alta borghesia.

Come nel caso del sesso, questa scelta sembra avere come fine una rappresentazione fin troppo spregiudicata e ribelle di una donna che, nella vita reale, fu una borghese ligia ai costumi del suo tempo.

Il linguaggio dei protagonisti, anche in contesti formali, è eccessivamente “contemporaneo”. Nessuno pronuncia termini, espressioni, formule dell’Ottocento. Solo la lettura della sentenza di revoca dell’iscrizione di Poët viene resa in maniera più o meno aderente all’originale. Per il resto, tutti parlano come si parla oggi.

Anche il linguaggio non verbale dei protagonisti della serie è palesemente contemporaneo: smorfie, scrollate di spalle, movimenti del corpo, modi di camminare tradiscono una non verbalità tipica dei giorni nostri, nonché una disinvoltura gestuale che non ci si aspetterebbe da individui che vivono nel XIX secolo.

La colonna sonora della serie è totalmente dissonante rispetto alla realtà storica della trama: non ci sono arie e musiche dell’Ottocento, ma motivi rock ovviamente sconosciuti a chi visse all’epoca.

È probabile che tali anacronismi servano a rimarcare l’eterodossia del personaggio “Lidia Poët”, ma è evidente che le distanze tra realtà e rappresentazione sono eccessive.

Infine, la Lidia Poët della fiction è una donna bella e affascinante. La vera Lidia Poët, almeno in base alle immagini disponibili, aveva un aspetto fisico ordinario. Ciò rientra nella tendenza filmica a valorizzare i protagonisti attribuendo loro caratteristiche fisiche, estetiche e morali superiori alla media nel presupposto che la bellezza esteriore rispecchi il possesso di qualità interiori d’eccezione. Si tratta di una vecchia strategia retorica della fiction televisiva che, però, può provocare distorsioni e cattive interpretazioni della storia reale.

Allo stesso modo, la protagonista viene resa in maniera ipersessualizzata e iperfemminista, scelta, a mio avviso, discutibile.

Anacronismi e imperfezioni non tolgono, comunque, nulla al fatto che la serie “La legge di Lidia Poët” consente di conoscere un personaggio ignoto ai più e che merita di essere conosciuto. Al riguardo, raccomando questo sito che consente di penetrare nel mondo della vera Lidia Poët, anche attraverso la lettura dei suoi scritti.

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Ciclismo e classi sociali

C’è una relazione tra sport e classi sociali? A guardare alla storia del ciclismo sembrerebbe di sì.

Si pensi ad alcuni campioni del ciclismo italiano come Girardengo, Binda, Guerra, Bottecchia. Ottavio Bottecchia, primo ciclista italiano a vincere il Tour de France, nacque in una famiglia povera e lavorò prima come muratore e poi come carrettiere di legnami prima di raggiungere il successo con il ciclismo. Learco Guerra lavorò come muratore fino ai 25 anni. Alfredo Binda lavorava come stuccatore presso uno zio materno. Costante Girardengo lavorava presso le officine ALFA e percorreva ogni giorno 40-50 km in bicicletta tra andata e ritorno a casa. Anche Gino Bartali e Fausto Coppi avevano origini umili e svolsero occupazioni modeste prima di diventare le icone del ciclismo che conosciamo.

Come ricorda Gian Franco Venè,

l’origine dei campioni era bassa, se non infima, e c’era una ragione precisa: per allenarsi molto, farsi i muscoli, conoscere la propria capacità polmonare e iscriversi a una società di dilettanti (ogni cittadina ne aveva più d’una) occorreva svolgere un lavoro quotidiano che contemplasse l’uso continuo della bicicletta, possibilmente di proprietà del datore di lavoro, non del dipendente che non poteva permettersela. I giganti del ciclismo furono così ex garzoni di fornaio, fattorini, portalettere, o anche figli di contadini che, per andare a scuola, arrancavano su strade pessime, con molte salite, per decine di chilometri al giorno (Gian Franco Venè, Mille lire al mese. Vita quotidiana della famiglia nell’Italia fascista, Mondadori, Milano, 1988, p. 194).

Questa origine umile spiega anche la popolarità del ciclismo presso le classi inferiori. Il fatto che i campionissimi usassero un mezzo comune ai membri dei ceti inferiori favorì certamente un rapido processo di identificazione nelle loro imprese. Queste furono vissute come una sorta di riscatto sociale dai marginali, ma non solo. Anche da parte di operai e impiegati.

In epoca fascista, infatti, e anche dopo, operai e impiegati pubblici andavano al lavoro in bicicletta. Il pendolarismo tramite automobile o treno non esisteva e bisognerà attendere qualche decennio prima che le cose cambiassero.

E oggi?

Oggi operai e impiegati pubblici intasano le strade con le loro automobili e affollano i treni, lamentandosi di code in autostrada e ritardi in ferrovia. Le biciclette, invece, sono diventate una forma di passatempo ludico o sportivo per tutti. Nessuno più le utilizza per andare al lavoro… tranne operai e badanti straniere, troppo “poveri” per permettersi auto e treno.

Sì, a ben vedere, le biciclette sono tornate ad essere un simbolo di classe, anche se pochi se ne sono accorti.

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Insulti e offese nel calcio secondo un recente sondaggio

Insultare, offendere, indulgere in atteggiamenti razzisti, anche nel calcio, sono condotte diffusamente vituperate. Ci aspetteremmo, dunque, che chiunque sia intervistato sul tema si esprima coerentemente con quello che viene ritenuto un sentire comune. Le cose, però, non stanno esattamente in questi termini.

Secondo un sondaggio CAWI (Computer Assisted Web Interviewing) realizzato dalla SWG, società specializzata in ricerche di mercato, di opinione, istituzionali e studi di settore, tra il 24 e il 26 gennaio 2024, su un campione rappresentativo nazionale di 800 soggetti maggiorenni, gli atteggiamenti al riguardo sono alquanto eterogenei ed esiste uno zoccolo duro che giudica positivamente l’offesa e l’insulto, anche a sfondo razzista.

Per il 20% del campione, ad esempio, seguire la propria squadra dal vivo porta ad un travolgimento emotivo per il quale è normale lasciarsi andare anche a comportamenti non proprio corretti.

Per metà circa degli italiani, insultare la propria squadra o il proprio campione in seguito a prestazioni negative, intimidire gli avversari e insultare l’arbitro sono un elemento del tifo. Per il 16% è normale scontrarsi fisicamente con i tifosi avversari. Per il 29% è normale utilizzare petardi e fumogeni. Per 1 italiano su 5 sono normali gli insulti ai giocatori legati alla loro nazionalità ed etnia.

Per l’8% del campione, allo stadio è tutto concesso, è giusto che i tifosi vivano le partite con intensità e si lascino andare.

Per il 18% è un elemento del tifo insultare un giocatore per la sua nazionalità o le sue origini etniche, oltre che definire un giocatore “zingaro” o “ebreo”. Per il 16% è normale fare il verso della scimmia o lanciare banane ai giocatori di colore

Tuttavia, dagli sportivi oggetto di insulti ci si attende un comportamento esemplare e, secondo il 74% degli italiani, uno sportivo dovrebbe cogliere queste occasioni per sensibilizzare le persone con le proprie azioni anche a rischio di assumere posizioni forti e ricevere squalifiche.

Sembra, dunque, che, per una parte degli italiani, il calcio sia da considerare una sorta di terra di nessuno in cui comportamenti proibiti in altre dimensioni della vita sono, invece, da considerare leciti. Eppure, tre quarti degli intervistati ritiene che sia necessario sensibilizzare sulle tematiche del razzismo nel corso degli eventi calcistici. Una sorta di schizofrenia, spiegabile forse con l’idea che l’offesa, l’ingiuria abbiano più che altro una finalità retorica nel calcio: l’obiettivo, cioè, è opporsi all’avversario in ogni modo possibile e, a tal fine, anything goes, come dicono gli inglesi.

Si tratta di dinamiche complesse e non sempre intuitive, che ho cercato di dipanare nel mio Hanno visto tutti! Nella mente del tifoso (Meltemi, Milano, 2020).

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Cambiarsi la biancheria come fatto sociale

Nel 1937, in piena epoca fascista, si distribuivano agli impiegati pubblici consigli di igiene come il seguente:

Sarebbe assai bene mutarsi di biancheria ogni quattro giorni: ma purtroppo molte volte le necessità economiche si oppongono ad una larghezza che ha tante ragioni per essere seguita. Si ricordi almeno che alcune biancherie hanno diritto al rinnovo frequente: e le mutande si chiamano così appunto perché debbono essere spesso mutate, e le calze sono così facili a lavarsi che basta la buona volontà a ciò che ogni tre-quattro giorni abbandonino il piede. Ne guadagna la educazione, la salute e talora anche l’olfatto (Gian Franco Venè, Mille lire al mese. Vita quotidiana della famiglia nell’Italia fascista, Mondadori, Milano, 1988, pp. 43-44).

Il consiglio appena esposto rivela l’esistenza di standard igienici in epoca fascista sensibilmente diversi dai nostri. Oggigiorno, un membro competente della società non può evitare di lavarsi e cambiare la propria biancheria giornalmente. Non farlo – soprattutto se tale negligenza si traducesse in un odore sgradevole – attirerebbe inevitabilmente giudizi negativi che, in casi estremi, comporterebbero una vera e propria squalifica sociale o una espulsione dal consesso delle persone civili.

Contrariamente a quello che si ritiene comunemente, il rispetto delle norme di pulizia non è solo questione di civiltà. Gli standard igienici riflettono precise condizioni di produzione materiale. In epoca di consumismo avanzato, l’acquisto di articoli di biancheria facilmente usurabili a causa del materiale con cui sono realizzati è fatto comune. È pratica diffusa comperare per pochi euro mutande e canottiere, destinate a un rapido ricambio a causa della deperibilità dei materiali. Ciò rende possibile indossare ogni giorno nuovi capi di biancheria. Questa condizione, abbinata alla disponibilità quasi illimitata di acqua e di prodotti per la pulizia di ogni tipo, consente, anzi impone, l’adesione a norme di igiene molto esigenti che, in quanto tali, non possono essere disinvoltamente trasgredite se non si vuole apparire come dei “devianti igienici”.

In epoca fascista, invece, l’acquisto frequente di indumenti intimi non era alla portata delle tasche di tutti. Anzi, l’ethos popolare spingeva a tenere con sé le stesse mutande per anni e anni e a disfarsene solo se totalmente inutilizzabili. Il ricambio di biancheria era molto meno frequente, così come, del resto, non esistevano in tantissime abitazioni servizi igienici interni, né abbondanti e diversi prodotti per la pulizia della pelle. Il risultato era che la maggior parte delle persone condivideva standard di pulizia e olfattivi che oggi troveremmo inaccettabili, ma che, all’epoca erano del tutto ordinari.

Potremmo essere tentati dall’idea di etichettare i nostri antenati come più “lerci” di noi, ma anche i criteri di pulizia cambiano di epoca in epoca. Non esistono, al riguardo, standard universali e immutabili. È probabile, anzi, che, in un futuro non troppo distante, perfino le nostre norme igieniche appariranno discutibili.

Ogni epoca, tuttavia, tende a interpretare etnocentricamente le proprie norme igieniche come assolute, condannando chi non aderisce a esse a un ruolo di deviante e imputandogli, talvolta, condizioni patologiche. Così oggi, trascurare la propria igiene – ad esempio, “mutare” le mutande ogni quattro giorni o più – potrebbe essere interpretato come un sintomo di depressione, una forma di accidia o, nel migliore dei casi, un indice di sudiceria. 

Ciò che un tempo era normale diventa patologico qualche decennio dopo. Di questi mutamenti è piena la storia dell’umanità. Il che dovrebbe almeno portarci a essere più benevoli nei confronti di noi stessi e di chi ci ha preceduto.

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Immaginazione e fantasia nella società cosmopolita

Scrive l’antropologo Arjun Appadurai:

Nel corso degli ultimi vent’anni il peso dell’immaginazione e della fantasia è notevolmente cambiato, e precisamente nella misura in cui il processo di de-spazializzazione delle persone, delle rappresentazioni e delle idee ha acquisito nuova forza. In tutto il mondo sempre più persone considerano la propria esistenza nell’ottica di possibili forme di vita proposte dai mass-media in tutti i modi immaginabili. Questo significa che la fantasia è oggi diventata una prassi sociale; è in innumerevoli varianti il motore della configurazione della vita sociale di molte persone in società di vario tipo. […] anche l’esistenza più miserabile o quella più disperata, le condizioni più brutali e disumane, la peggiore ingiustizia sperimentata, sofferta, vissuta sono oggi aperte al gioco dell’immaginazione – prigionieri politici, bambini che lavorano, donne che sgobbano nei campi e nelle fabbriche di questo mondo. […] il nuovo potere che l’immaginazione ha acquisito nella produzione della vita sociale è indissolubilmente legato a rappresentazioni, idee e situazioni che vengono da altrove. […] Perciò un’affermazione dell’identità culturale legata al luogo è un azzardo pericoloso (Arjun Appadurai, cit. in Ulrich Beck, 2003, La società cosmopolita, Il Mulino, Bologna, pp. 114-115).

Quanto è importante l’immaginazione per le nostre vite di soggetti della società contemporanea? Quanto incide la fantasia sul modo in cui ci rappresentiamo il mondo? Le immagini mediatiche che introiettiamo insieme al cibo in ogni singolo momento delle nostre esistenze istituiscono i valori, le mete, le aspirazioni, gli standard di pulizia e decenza, di accettazione e repulsione a cui informiamo la nostra condotta sociale.

Pensiamo ai migranti che attraversano il pianeta spinti da rappresentazioni mutuate dai media mondiali; agli adolescenti che costruiscono i loro sogni adattandoli dai tanti mezzi di comunicazione social e di massa a cui sono esposti; a chi si converte a una religione dopo aver assistito a un evento in mondovisione (come si diceva un tempo).

È tutto un incrocio di immagini, filmati, icone che scorrono nelle nostre teste, soppiantando spesso le esperienze reali, condannate per principio proprio perché troppo reali e insufficienti al cospetto di quello che l’immaginazione sa darci e che spesso, come diceva Jean Baudrillard, è più vero del vero.

Come dice Appadurai, ognuno di noi è mosso da idee e situazioni che vengono da altrove, ma che, una volta entrate nelle nostre teste, non avvertiamo più come distanti o inarrivabili. È il paradosso della globalità esistenziale: il lontano può essere per noi più vicino del fisicamente vicino; il vicino può essere più invisibile del lontano e distante.

Solo che raramente ci soffermiamo a meditare su questo paradosso e continuiamo a vivere come se la vita fosse semplice e lineare.

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Offendere con le etimologie

Offendere può forse essere fonte di soddisfazione, soprattutto se l’offeso è una persona particolarmente diosa. Espone, però, inevitabilmente a malumori, ripicche, volgarità, possibili escalation, conseguenze penose. Insomma, è un’attività piuttosto rischiosa.

Un rimedio potrebbe essere ricorrere alle etimologie. Quando ingiuriate, non impiegate immediatamente quella parola, tanto efficace quanto compromettente, ma volgetela nella sua etimologia. L’esito sarà forse meno forte, ma più appagante. L’altro potrà non rendersi conto dell’offesa ricevuta, ma in voi rimarrà l’intimo piacere di aver raggiunto lo scopo senza generare conseguenze irreparabili.

Facciamo qualche esempio.

“Tamarro”, per designare una persona rozza e volgare, potrebbe indurre un certo risentimento nell’altro. Sapendo però che il termine deriva dall’arabo tammar ‘venditore di datteri’, da tamr, ‘dattero’, provate a usare “venditore di datteri” nel rivolgervi al vostro stimatissimo oltraggiando. Lui (o lei) non capirà, ma il vostro compiacimento sarà comunque roba da raffinati.

“Imbecille” è una parola che può giustamente suscitare sdegno e livore. La sua etimologia, dal latino imbecillis, composto da in “senza” e baculum “bastone”, può venirvi in soccorso. “Sei proprio uno ‘zoppo’” o “Guarda quel ‘senza bastone’” potrebbero essere sufficienti a scaricare la rabbia nei confronti di chi si comporta da vero imbecille.

“Cretino” viene dal provenzale crétin ‘cristiano’ ed è un caso etimologico abbastanza interessante. Chiamare qualcuno “cristiano” invece che “cretino” potrebbe indurre l’offeso a travisare le vostre intenzioni, ritenendole addirittura positive. E qui la soddisfazione potrebbe essere perfino maggiore, a meno che l’altro (o l’altra) non siano atei inferociti.

“Meretrice”, ovvero “prostituta”, è una voce dotta che deriva, in ultima analisi, da mèretrix “prostituta”, che viene da merère “meritare, guadagnare”. “Meritevole” potrebbe essere un modo sofisticato per designare chi vende il proprio corpo per denaro.

“Rimbambire”, infine, secondo una ipotesi significherebbe etimologicamente “tornare bambini”. Provate a rivolgervi a qualcuno definendolo “bambino di ritorno”. Rimarrà senz’altro sconcertato (o sconcertata), ma voi gongolerete sapendo bene che cosa intendete dire.

Il gioco potrebbe continuare. Consultando un buon dizionario etimologico, è possibile imbattersi in tante altre interessanti etimologie oltraggianti.

Qualcuno potrà obiettare che si tratta di un ripiego troppo raffinato e che, a volte, bisogna scaricare addosso all’altro tutta la potenza irriverente di una vera parolaccia.

Non sono d’accordo. A volte, un atteggiamento cerebrale è fonte di benessere almeno pari a quello che prova chi ricorre alle volgarità più crasse.  

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Adamo: più di quello che si pensa

Adamo fu il primo uomo creato da Dio secondo la Bibbia? Così come Eva fu la prima donna?

Questo è quello che ci viene insegnato da sempre ed è un insegnamento talmente radicato che saremmo sconvolti dall’apprendere che, in realtà, la parola Adam, come nome proprio, compare raramente al di fuori di Genesi 1-5. Essa, infatti, è presente nell’Antico Testamento per ben ventidue volte e sempre con l’articolo determinativo (ha in ebraico). In queste ventidue volte, il termine è un nome collettivo e significa umanità. Quando, invece, è privo di articolo, viene tradotto come nome proprio.

Così, ha-adam si traduce di solito con “l’uomo” (nel senso di un uomo in genere) o con “l’umanità” (secondo il contesto), mentre adam (senza ha) diventa “Adamo” (l’Adamo che conosciamo tutti). Ad esempio, in Genesi 1, 27, dove si legge “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”, il termine usato per “l’uomo” è proprio adam.

Non a caso, alcuni commentatori riferiscono che Adam non dovrebbe mai essere tradotto come un nome proprio, cosa che condurrebbe allo stravolgimento di migliaia di anni di credenze bibliche che hanno individuato in Adamo un uomo in carne e ossa, responsabile della perdita della grazia divina da parte dell’umanità. Se così fosse, l’umanità non sarebbe caduta nel peccato a causa dell’errore di un solo uomo, ma a causa di… se stessa (circostanza che appare, del resto, più sensata).

Forse, però, addossare la colpa dei nostri errori su un unico individuo – il nostro avo primigenio – serve una funzione psicologica: la funzione del capro espiatorio (altra figura che dobbiamo al folklore biblico). È più facile prendersela con un unico essere abominevole e lasciare che sia questi a essere responsabile di ogni nostro guaio, che cercare la colpa in noi stessi.

È un meccanismo ordinario di funzionamento della nostra psiche – ieri come oggi – che serve ad alleggerirci dall’errore e proiettarlo su un terzo, meglio se questi è lontanissimo nel tempo.

Se così stanno le cose, il povero Adamo sarebbe, dunque, solo la proiezione di tutti i nostri sbagli. “Sei tutti i miei sbagli” come cantavano i Subsonica qualche anno fa. E così la nostra coscienza “se ne lava le mani” (altra frase di origine biblica) e si fa bella ai propri occhi.

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(Ancora) Su vaccini ed effetto nocebo

In un post precedente, mi ero soffermato su una ricerca che dimostrava una importante relazione tra campagna vaccinale COVID-19 ed effetti avversi da effetto nocebo. In altre parole, evidenziavo come la scienza avesse ormai preso coscienza del fatto che molti effetti avversi segnalati da persone appena vaccinate fossero dovuti anche alle aspettative negative nei confronti delle conseguenze del vaccino contro la SARS-CoV-2.

Una recente ricerca sembra confermare tale relazione. Lo studio (una metanalisi), condotto da Haas, Bender, Ballou e altri ricercatori del Programme for Placebo Studies della Harvard Medical School di Boston Twelve, ha preso in considerazione 12 articoli (il più recente pubblicato il 14 luglio 2021) che riferivano il verificarsi di effetti avversi in 45.380 soggetti, dai 16 anni in su, sottoposti a procedura sperimentale. Di questi, 22.578 avevano ricevuto un’iniezione con una semplice soluzione salina (placebo), mentre 22.802 avevano ricevuto un vero vaccino.

Dopo la prima dose, il 35.2% di coloro a cui era stato somministrato il placebo aveva dichiarato di avvertire sintomi come mal di testa e sensazione di affaticamento. Dopo la seconda dose, tale percentuale era scesa al 31.8%. Per coloro che erano stati realmente vaccinati, invece, le medesime percentuali si assestavano al 46,3%, dopo la prima dose, e al 61,4%, dopo la seconda.

Gli effetti avversi avevano, dunque, colpito maggiormente i soggetti sottoposti a vaccinazioni reali, ma, secondo gli autori, quasi due terzi di tutti i sintomi verificatisi dopo la vaccinazione anti-Covid sono da associare alle aspettative negative dei soggetti vaccinati nei confronti della sostanza loro iniettata.

Si tratta del potente “effetto nocebo” che, sempre secondo gli autori, potrebbe avere tra le sue cause la tendenza dei media a soffermarsi a lungo e con ansia sugli effetti indesiderati delle inoculazioni, preparando, dunque, il terreno a un comportamento di eccessiva sorveglianza nei confronti delle sensazioni fisiche sperimentate dopo aver ricevuto una dose di vaccino.

L’effetto nocebo potrebbe, inoltre, indurre a fenomeni di misattribution, vale a dire di attribuzione alla sostanza assunta di effetti da imputare ad altre cause. Tale fallacia contribuisce a un caratteristico “effetto telescopio” per cui tutto ciò che accade nell’arco di tempo immediatamente successivo all’assunzione del vaccino viene, in un modo o nell’altro, attribuito alla subdola azione del vaccino

Tutto questo ha delle evidenti ripercussioni su quel fenomeno che gli anglofoni chiamano vaccine hesitancy, ossia gli atteggiamenti di timore, riluttanza o rifiuto a vaccinarsi (per svariati motivi), di cui gli effetti avversi sono un aspetto importante e ancora non ben indagato.  

Non a caso, gli autori insistono sulla necessità, oltre che eticità, di educare il pubblico sulla possibilità che, in seguito a un trattamento medico, possano svilupparsi reazioni nocebo. Ciò potrebbe, fra l’altro, ridurre la probabilità che abbiano effettivamente luogo.

Infine, informare il pubblico sulla possibilità che si verifichino reazioni nocebo potrebbe contribuire a ridurre i timori relativi alla dannosità dei vaccini contro il COVID-19, il che, a sua volta, potrebbe ridurre il fenomeno della vaccine hesitancy.

Riferimento:

Haas, J. W., Bender, F. L., Ballou, S. et al., 2022, “Frequency of Adverse Events in the Placebo Arms of COVID-19 Vaccine Trials: A Systematic Review and Meta-analysis”, JAMA Network Open, vol. 5, n. 1.

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Revenge bedtime procrastination

In italiano, “procrastinazione della notte per vendetta”. A leggere ciò che dicono alcuni siti e alcune riviste, il termine fa riferimento a un fenomeno conosciuto in Cina, dove la settimana lavorativa è di 72 ore, che consiste nel rimandare il più a lungo possibile il momento di andare a dormire per dedicare tempo a se stessi e alle proprie passioni, in una sorta di protesta vendicativa contro una società che pretende cronofagicamente di occupare tutto il nostro tempo in occupazioni alienanti.

In Occidente è ben nota la bedtime procrastination, ossia la tendenza a rimandare il riposo notturno per scrivere su WhatsApp, compulsare Instagram, Twitter o Facebook, collezionare video su YouTube, dedicarsi a incessanti videogiochi o a ore interminabili di binge watching televisivo. Si tratta di un fenomeno che preoccupa sempre più psicologi e pedagogisti in quanto spostare sempre più avanti il momento di dormire genera stanchezza perenne il mattino seguente e, dunque, l’incapacità di svolgere positivamente i propri ruoli diurni, in particolare quelli di lavoratore e di studente.

Qualche sociologo, come Byung-Chul Han, già parla di “società della stanchezza” o “società assonnata” per descrivere una tendenza che sembra interessare soprattutto i giovani, ma non solo. La revenge bedtime procrastination, invece, è altra cosa: essa rimanda a un precisa scelta compiuta per rimediare alla mancanza di sufficiente tempo libero durante le ore diurne. Una espressione di malessere interpretabile come tacito dissenso nei confronti dei ritmi accelerati e sempre più esigenti della società capitalistica. Un modo per recuperare il controllo di se stessi e ritrovare un senso di libertà, anche se forse illusorio.

Certo – ci  avvertono medici e moralisti – una carenza prolungata di sonno può causare problemi seri di salute: provoca squilibri nel sistema immunitario, riduce la concentrazione, deprime il tono dell’umore, aumenta il rischio di sviluppare malattie cardiache e ipertensione.

Ma la necessità di trovare tempo per sé, per le proprie cose, è sempre più avvertita oggigiorno, soprattutto in una società in cui proliferano quelli che l’antropologo David Graeber definisce bullshit jobs, ovvero occupazioni così totalmente inutili, superflue o dannose che nemmeno chi le svolge può giustificarne l’esistenza, anche se si sente obbligato a far finta che non sia così.

Psicologi e medici insistono: bisogna dormire 6-8 ore per notte, se si vuole vivere una vita sana. Ma forse la revenge bedtime procrastination è un modo irragionevole per protestare contro una società insana e priva di senso. E non importa se il mattino dopo, ti senti assonnato. Almeno, vivi la vita come vuoi viverla. E se non rendi tanto al lavoro, beh, tanto peggio per il lavoro!

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