On False Witness (1715) dello scrittore e pastore irlandese Jonathan Swift (1667-1745) non è un semplice sermone, ricco di citazioni bibliche, sulla piaga dei falsi testimoni. Non è riducibile nemmeno alla denuncia di una situazione politica contingente – quella dell’Inghilterra che viveva Swift – caratterizzata dall’ascesa del re protestante Giorgio I (1660-1727), della dinastia degli Hannover, e dall’accesa, strenua contrapposizione tra i potenti Whigs, destinati a dominare la vita politica inglese per quasi mezzo secolo a partire dal 1715, data di pubblicazione del sermone, e i Tories.
On False Witness è molto di più. In esso viene tratteggiata, in maniera estremamente meticolosa, una vera e propria tipologia della figura del delatore. Vi è il falso testimone classico, colui, cioè, che diffonde intenzionalmente falsità per rovinare il prossimo. Vi è colui che mescola falso e vero, verità e menzogne parziali, in modo tale fa far incriminare la vittima senza ingannare del tutto.
Vi è il tipo che “incornicia” le parole altrui per farle apparire sediziose o cospiratorie e quello che tenta i propri simili per tradirli vigliaccamente. Ancora, vi è chi testimonia contro il prossimo per risentimento o vendetta personali, senza porsi alcun fine elevato.
Vi sono coloro che della delazione fanno un mestiere nella speranza di un favore o di una ricompensa. Infine, ci sono “coloro che provocano pena e sofferenza con accuse che non hanno alcuna utilità per il pubblico, né hanno altra finalità se non provocare afflizione”.
La tipologia abbozzata da Swift ricorda da vicino le osservazioni di semiologi e massmediologi contemporanei sulle cosiddette fakenews e sulle varie forme di distorsione informativa che contraddistinguono i nostri tempi complessi, attraversati da opposizioni e conflitti non meno pericolosi di quelli che Swift subiva ai suoi tempi.
Per chi volesse conoscere questo prezioso scritto dell’autore dei Viaggi di Gulliver, segnalo che è qui possibile leggere la mia traduzione del breve testo del sermone con una introduzione che riprende e sviluppa i temi accennati in questo post.
Risale al 1975, la “legge di Goodhart” che viene oggi formulata nel modo seguente: “When a measure becomes a target, it ceases to be a good measure”, ossia “Quando una misura si trasforma in un obiettivo, smette di essere una buona misura”. Charles Goodhart (1936) è un economista britannico, noto per le sue critiche, nemmeno tanto velate, alle scelte del governo Thatcher.
In un articolo intitolato “Problems of Monetary Management: The U.K. Experience”, egli scrive, tra l’altro: “Any observed statistical regularity will tend to collapse once pressure is placed upon it for control purposes”, ovvero “Qualsiasi regolarità statistica osservata tenderà a venire meno una volta che su di essa venga esercitata pressione a fini di controllo”. Con questa frase, Goodhart intendeva criticare le politiche monetarie basate sul raggiungimento di obiettivi metrici, ma la fortuna della legge si deve soprattutto alla formulazione prima citata, la cui interpretazione si è estesa ben al di là del settore dell’economia.
Il significato centrale della legge, al di fuori del campo economico, è che quando ci si pone un obiettivo legato a un parametro metrico, questo diviene spesso fine a sé stesso, tradendo lo scopo principale per cui era stato ideato.
Questo è particolarmente vero nella nostra epoca “quantofrenica” (Pitirim Sorokin), dominata dalla tendenza a ridurre tutto a misurazione, come se ciò garantisse automaticamente la verità.
Spesso non ci si rende conto che la misura diviene un feticcio da venerare di per sé, dimenticando il motivo per cui era stata concepita, con conseguenze paradossali. Il rischio principale è che la misura può assorbire interamente il concetto di cui è misura fino a coincidere con esso. In questo modo, il concetto si immiserisce, rimanendo prigioniero di un grossolano equivoco di cui però la contemporaneità sembra essere paciosamente orgogliosa.
Facciamo qualche esempio.
Nel sistema scolastico, il voto – inteso quale misura del livello di conoscenza raggiunto dallo studente – è talmente centrale che l’unica cosa che conta davvero è il conseguimento di una buona “valutazione numerica”, con il risultato che non è nemmeno rilevante quale livello di cultura sia stato effettivamente raggiunto dal discente. Un ottimo studente può essere semplicemente chi riesce a trovare il giusto metodo per raggiungere una buona votazione. Tutto il resto è pressoché insignificante dalla prospettiva del sistema
In psicologia, il concetto di intelligenza viene spesso ridotto a ciò che viene misurato dal test di intelligenza, che per definizione ha il compito di ridurre a numero i complessi contenuti del concetto. La conseguenza è che alcune dimensioni, pur rilevanti, del costrutto vengono “messe a tacere” a vantaggio di altre, sulla base di criteri discutibili di valutazione.
In ambito universitario, la carriera di ricercatori e professori viene valutata in base al numero di pubblicazioni prodotte. Questo fa sì che conti più il numero delle pubblicazioni che la loro qualità, oltre ad altri fattori metrici, con effetti non sempre condivisibili sulla qualità della ricerca. Il numero di pubblicazioni cessa, dunque, di essere un buon indicatore del lavoro del ricercatore nel momento stesso in cui viene elevato a obiettivo da raggiungere.
In ambito sessuale, infine, è ancora usuale “misurare” la virilità sulla base del numero di orgasmi avuti o delle donne “possedute”: una valutazione meramente quantitativa che sommerge ogni altro possibile approccio alla sessualità.
Viviamo in un’epoca governata, anche ideologicamente, da misure e parametri numerici, indicatori per noi sinonimi di scientificità e, quindi, di verità. Non ci rendiamo così conto di vivere in un universo finzionale in cui i costrutti da noi concepiti sostituiscono la realtà dandoci l’illusione di essere più reali di essa.
Nella nostra società secolarizzata e desacralizzata, il rosario è oggi considerato dai più una preghiera per bigotte e ottuagenarie, un patetico cascame di una religiosità destinata ad estinguersi, un’inutile giaculatoria di un tempo che fu, una devozione relegata a un numero trascurabile di imperterriti fanatici cattolici.
Eppure, il rosario è molto più di questo. La sua storia sorprendente comprende una narrazione mitologica, leggende varie, falsi storici acclarati, verità celate e inaccettabili, colpi di scena degni di un romanzo, curiosità inestimabili, equivoci tragici e ridicoli, eroi putativi ed eroi autentici, conflitti spirituali e materiali, difensori a spada tratta e oppositori virulenti.
Il rosario è un “oggetto culturale” interessante anche da un punto di vista sociologico e psicologico. Ad esso, ancora oggi, sono attribuiti cambiamenti di fede, guarigioni, successi militari, miracoli di ogni genere. In nome del rosario sono istituiti santuari e confraternite. Il rosario è presente in molte raffigurazioni pittoriche e artistiche. Lo troviamo nella letteratura, nella musica, nel cinema e nella cultura pop (Madonna e Lady Gaga, ad esempio). La sua presenza non è affatto limitata all’ambito religioso.
Per molti, la sua recita orienterebbe gli eventi del mondo in una determinata direzione e sarebbe stata decisiva nello stabilire l’esito di eventi importanti come la battaglia di Lepanto del 1571. Consentirebbe, inoltre, ai suoi devoti di essere immuni da eventi apocalittici, come l’esplosione della bomba atomica!
Alla recita sistematica del rosario sono inoltre associati precisi effetti psicosociali, psicofisici, comunicativi, persuasivi, pragmatici. Ad esempio, la storia ha dimostrato che esso può svolgere una funzione narcotizzante e anestetica nei confronti delle proteste sociali e religiose con la conseguente soppressione di ogni anelito rivoluzionario. Sociologicamente, esso si configura come un dispositivo disciplinare per tenere buone le masse e impedire loro di pensare con la propria testa. Ma il rosario può instillare anche pace e tranquillità, oltre che essere esibito come simbolo identitario ed estetico.
Insomma, il rosario è un oggetto estremamente complesso sul quale convergono suggestioni sociologiche, psicologiche, antropologiche, storiche, mediche insospettabili, che lo rendono singolarmente unico.
Attraverso un’analisi condotta con gli strumenti delle scienze umane, il testo propone, per la prima volta, una approfondita analisi storica e psicosociologica del rosario, illustrando la polifonia, la ricchezza semantica, le contraddizioni, ma anche l’importanza di un dispositivo ingiustamente trascurato, ma che ha avuto e ha ancora un ruolo importante nell’immaginario collettivo, non solo dei cattolici, e che ha ricevuto ampia tematizzazione da parte delle autorità cattoliche dal Medioevo ad oggi. Al riguardo, va ricordato che il rosario è la devozione extraliturgica più famosa associata al cattolicesimo.
Il tentativo è quello di avvicinare intellettualmente il rosario come fatto sociale complesso nella convinzione che il suo studio riveli aspetti interessanti dell’agire umano e religioso in particolare.
Da questo punto di vista, il volume cattura l’attenzione di sociologi, psicologi e storici, in primis, è di chiunque sia desideroso di vedere applicata a un oggetto apparentemente banale l’immaginazione sociologica di cui parlava Charles Wright Mills. Ne risulta un quadro estremamente accattivante e variegato in cui santi, sacerdoti e pontefici procedono a braccetto con sociologi, psicologi e storici come non è mai accaduto nella storia di una devozione religiosa. Un quadro che interesserà uomini di fede profonda come agnostici e atei radicali; studiosi e semplici curiosi. In definitiva, un libro per tutti.
Perché l’economia è definita dismal science, ovvero “scienza triste”, “cupa”, “desolata”, “abietta”, “angosciante”? Forse perché, con tutti i grafici, le teorie astruse, le formule matematiche di cui abbonda nei suoi manuali, offre ai lettori un’immagine arida e grigia della disciplina e della realtà sociale a cui essa è applicata? Forse perché la rappresentazione dell’homo oeconomicus propagandata dalla teoria economica classica – rappresentazione che contempla un uomo meramente razionale, ossessivamente preciso nei suoi calcoli e attento esclusivamente al proprio tornaconto personale – appare eccessivamente asfittica e avvilente nei confronti della complessità umana?
Se ancora oggi l’economia attira critiche feroci da parte dei suoi detrattori, amareggiati anche dal ripetuto fallimentare profetismo dei suoi adepti, le origini del termine dismal science non sono affatto recenti e non hanno nulla a che fare con l’evoluzione della scienza economica nella contemporaneità.
Esse risalgono, invece, a un articolo del 1849 dello scrittore scozzese Thomas Carlyle, intitolato “Occasional Discourse on the Negro Question” e pubblicato in forma anonima nella rivista londinese Fraser’s Magazine for Town and Country.
Ma perché, nel lontano 1849, Carlyle elesse l’economia a bersaglio dei suoi strali? Perché… l’economia si opponeva alla schiavitù, da lui invece considerata positivamente. Il liberismo, infatti, considerava caratteristiche come la razza analiticamente irrilevanti. La legge della domanda e dell’offerta faceva piazza pulita di ogni distinzione nazionalistica, religiosa, di istruzione, di classe sociale, razziale a favore della logica del libero mercato. Per essa l’unica attività che distingue l’essere umano dalla bestia è lo scambio commerciale.
Rifacendosi ad Adam Smith e al suo Wealth of Nations (1776), gli economisti classici sostenevano, in base all’assioma della scelta razionale, che non vi sono differenze naturali tra gli individui, non vi sono “padroni naturali”, non vi sono “schiavi naturali”. Tutte le differenze tra gli esseri umani possono essere spiegate dagli incentivi, dalla storia, dai costumi e dalle abitudini.
Se, dunque, Carlyle definì la scienza economica una dismal science, ciò avvenne perché essa possedeva delle caratteristiche e una visione del mondo che oggi consideriamo positive in quanto presuppongono un essere umano libero e uguale a tutti gli altri esseri umani.
Se desiderate sapere di più su questa vicenda e sulle sue paradossali evoluzioni, vi invito a leggere qui la mia traduzione – la prima in italiano, a mia conoscenza – di “Occasional Discourse on the Negro Question”, preceduta da una introduzione che ricostruisce il contesto e i termini della genesi della dismal science. Una vicenda sicuramente interessante, degna di essere conosciuta da tutti.
Della battaglia di Waterloo del 18 giugno 1815 sappiamo tante cose. Sappiamo che le armate anglo-prussiane comandate dal duca di Wellington e dal maresciallo von Blücher sconfissero l’esercito di Napoleone. Sappiamo che tale sconfitta segnò il tramonto dell’epoca napoleonica. Sappiamo che fu una battaglia estremamente sanguinosa e che morirono almeno 20.000 soldati dell’una e dell’altra parte. Sappiamo che è una delle battaglie più studiate dagli storici, che ne hanno esaminato in maniera certosina fasi, tattiche, strategie ed errori.
Ciò su cui aleggia ancora un certo grado di incertezza è che fine abbiano fatto i cadaveri dei soldati uccisi e delle carcasse di animali morti con loro.
Secondo Pollard, le ossa dei cadaveri – umani e animali – di Waterloo furono progressivamente e illegalmente dissotterrate tra il 1834 e il 1860 per essere adoperate dall’industria saccarifera belga come filtri per raffinare e sbiancare lo zucchero. Una parte dei resti sarebbe stata utilizzata anche per essere trasformata in fertilizzante.
Pollard basa le proprie conclusioni sull’analisi degli scritti – memorie, articoli, lettere, testimonianze artistiche – dei primi visitatori del campo di battaglia di Waterloo dopo il 18 giugno 1815. Il luogo, infatti, può essere considerato uno dei primi ad essere stato interessato da quello che oggi chiameremmo dark tourism, ossia un turismo motivato dal desiderio di esplorare località dove sono accaduti fatti o eventi macabri e sanguinosi. Gli scritti non forniscono solo informazioni utili a comprendere il destino di tanti corpi abbandonati sul luogo, ma servono anche da guida dei luoghi di sepoltura dei cadaveri.
Secondo l’archeologo britannico, quasi 2.000 tonnellate di ossa umane e animali furono disseppellite dal campo di Waterloo e vendute all’industria saccarifera. Se si pensa che in Belgio l’ultima fabbrica del settore chiuse nel 1860, quando non ci furono più ossa di soldati da portare in superficie, non è esagerato dire che buona parte dei profitti conseguiti dai proprietari dell’industria saccarifera fu dovuta solo alla disponibilità delle ossa dei caduti in battaglia.
Di tutto questo, naturalmente, i consumatori finali di zucchero furono tenuti completamente all’oscuro. Se avessero saputo qual era la fonte del loro dolce alimento, è probabile che sarebbero inorriditi e avrebbero costretto alla chiusura le fabbriche.
Si è proprio tentati di dire che il sistema capitalistico si regge cinicamente sulla morte, per quanto violenta, degli esseri umani, oltre che, come insegna Marx, sul loro incessante sfruttamento.
Internet ci dice che è un carnivoro della famiglia dei viverridi diffuso nell’Asia sud-orientale (Cina, Indonesia, Filippine ecc.). La lunghezza della testa e del corpo oscilla tra 420 e 580 mm, la lunghezza della coda tra 330 e 470 mm. Il peso, invece, può arrivare fino ai 3 kg.
Appartiene a una specie solitaria, territoriale e arboricola, esclusivamente notturna. Trascorre l’intera giornata negli alberi cavi. Si nutre prevalentemente di bacche e frutti quali mango, ananas, melone, banane. Essendo onnivoro, non disdegna piccoli uccelli, roditori ed insetti. Talvolta si arrampica e succhia la linfa da alcune specie di palme, utilizzate per produrre una bevanda alcolica chiamata “vino di palma”.
L’aspettativa di vita allo stato libero è di 14 anni, mentre in cattività è di 22 anni e 5 mesi.
Ultimamente, si è molto parlato di questo animale in quanto viene utilizzato a Bali per fornire il pregiato caffè kopi luwak, nient’altro che il prodotto di bacche di caffè mangiate e defecate in condizioni disumane in gabbie anguste dall’onnivoro di cui stiamo parlando.
Di che animale si tratta? Lo chiamano “civetta delle palme”. Un uccello, dunque? Come l’omonimo rapace notturno a noi tanto familiare?
Niente affatto. Il nome più appropriato, infatti, è “zibetto delle palme”.
Allora perché “civetta”? A causa di un marchiano errore di traduzione. In questo caso, “civetta” è il calco dell’inglese civet, che significa “zibetto”, mentre “civetta” in inglese si dice owl o little owl.
I calchi nascono di solito per pigrizia o ignoranza.
Pigrizia o ignoranza che possono trasformare uno “zibetto” in una “civetta”.
Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna (Matteo 5, 22).
Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna. E se la tua mano destra ti è occasione di scandalo, tagliala e gettala via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geenna (Matteo 5, 29-30).
Nel Nuovo Testamento, i riferimenti alla Geenna, come quelli citati, sono alla base dell’idea che, con il tempo, ci siamo fatti dell’inferno, luogo oltremondano destinato a consumare le anime tra fiamme e tormenti indicibili.
Ciò che è curioso è che il termine Geenna designava nell’Antico Testamento un luogo reale, che gli abitanti del posto sapevano ben localizzare.
La Geenna, infatti, è un avvallamento di Gerusalemme, anticamente luogo di culto idolatrico e poi discarica dove divampava continuamente il fuoco. Il termine deriva dall’ebraico ge Innom che significa “valle di Hinnom”, nota nell’Antico Testamento anche come “valle di Ben-Hinnòn”, ossia “valle del figlio/dei figli di Innom”. La valle si trovava a sud-ovest di Gerusalemme e percorreva la valle del Cedron di fronte al moderno villaggio di Silwan.
A un certo punto, la valle divenne nota come l’altura in cui alcuni re di Giuda intrapresero pratiche religiose proibite, tra cui sacrifici umani per mezzo del fuoco, associate ai riti di Moloch e Tofet. Per questo motivo, il profeta Geremia parlò del giudizio che pendeva su di essa e della sua distruzione (Geremia 7, 30-34):
I figli di Giuda hanno fatto ciò che è male ai miei occhi, dice il SIGNORE; hanno collocato le loro abominazioni nella casa sulla quale è invocato il mio nome, per contaminarla. Hanno costruito gli alti luoghi di Tofet nella valle del figlio di Innom, per bruciarvi nel fuoco i loro figli e le loro figlie; cosa che io non avevo comandata e che non mi era venuta in mente. Perciò, ecco, i giorni vengono, dice il SIGNORE, che non si dirà più Tofet né la valle del figlio di Innom, ma la valle del massacro, e, per mancanza di spazio, si seppelliranno i morti a Tofet. I cadaveri di questo popolo serviranno di pasto agli uccelli del cielo e alle bestie della terra; e non ci sarà nessuno che li scacci. Farò cessare nelle città di Giuda e per le strade di Gerusalemme il grido di gioia e il grido di esultanza, il canto dello sposo e il canto della sposa, perché il paese sarà una desolazione.
Fu Giosia a mettere fine a queste pratiche distruggendo e gettando la maledizione sulla valle di Innom, che divenne una discarica pubblica (2Re 23, 10).
Nell’Antico Testamento, dunque, quando si parla della Geenna, si parla di un luogo reale e concreto, geograficamente individuabile.
Nel Nuovo Testamento, invece, in Matteo, Marco e Luca, ad esempio, il termine “Geenna” perde il suo carattere di toponimo per acquisire la dimensione metaforica di simbolo dell’inferno, dove i dannati bruciano perennemente fra le fiamme, e quindi di perdizione eterna.
La minaccia della Geenna è vissuta come qualcosa di terribile, una punizione senza tempo che strazierà le anime in modi nemmeno immaginabili.
Accade talvolta che luoghi o cose reali assumano, con il tempo, una fisionomia simbolica e vaga che si distanzia progressivamente dalla realtà finendo con il separarsene e trascenderla. In questo passaggio, essi assumono un’identità metafisica, religiosa, divina che fa dimenticare, talvolta, la loro origine terrestre, a favore di una nuova veste che tendiamo a credere generata dalla stessa divinità. In questo modo, la metafora diviene operazione divina che crea ex novo ciò che già l’uomo aveva creato, trasfigurandolo del tutto.
È così che il fulmine diviene un segno dell’ira divina, la peste una punizione inviata da Dio, un’azione cattiva diviene ontologicamente “il male”.
In questo modo, astraiamo una qualità dalla sua dimensione reale, la rendiamo metafora, poi nuova realtà trascendente e le attribuiamo un’origine divina, “cosizzandola”. Attribuiamo a Dio la genesi della nuova realtà, quando siamo noi umani ad averla metaforizzata a partire da qualcosa di sensibile ed evidente.
Questa operazione è probabilmente a fondamento della stessa identità di Dio, proiezione di timori, aspettative, credenze molto umane, finalizzata a rassicurarci e proteggerci nella finitudine della nostra esistenza.
Il denaro non è una realtà materiale: è un costrutto psicologico. Funziona trasformando la materia in concetto mentale. Ma perché succede una cosa del genere? […] Perché accettiamo di rivoltare gli hamburger sulla piastra, vendere assicurazioni sanitarie o fare da babysitter a tre marmocchi pestiferi […], quando tutto quello che otteniamo in cambio dei nostri sforzi è qualche pezzo di carta colorata? Si è disposti a fare queste cose se abbiamo fiducia nelle invenzioni della nostra immaginazione collettiva (Harari, Y., 2022, Sapiens. Da animali a dei, Bompiani, Milano, p. 37).
Altro che facoltà evasiva e inconcludente! L’immaginazione, come ci ricorda Yuval Harari, crea mondi e conferisce senso a quello in cui viviamo. Struttura le nostre esistenze, fornendo loro “miti” in cui credere, che motivano il nostro agire. È alla base dei valori, delle norme, delle regole che ci guidano fin nelle azioni più banali che compiamo.
La precondizione perché ciò accada, tuttavia, è che l’immaginazione sia condivisa, diventi fatto collettivo, esercizio di gruppo. Se questo non accade, diventa delirio di un pazzo, illusione di un mentecatto, utopia destinata al fallimento.
Sono i miti comuni a fondare le religioni; miti comuni a creare le nazioni; miti comuni a istituire i sistemi giudiziari. Se, invece, il mito religioso è appannaggio di un unico individuo, si parlerà di delirio e il rischio della casa di internamento diventerà reale. Ugualmente, chi volesse fondare una nazione in assenza di condivisione collettiva della sua idea sarebbe presto condannato all’emarginazione. Chi volesse imporre una idea di giustizia ritenuta ridicola dagli altri attirerebbe su di sé derisione e ostracismo.
Come dice ancora Harari: «Nell’universo non esistono dèi, non esistono nazioni né denaro né diritti umani né leggi, e non esiste alcuna giustizia che non sia nell’immaginazione comune degli esseri umani» (Harari, 2022, p. 41).
I miti collettivi presuppongono credenze, ma anche fiducia: la fiducia che i nostri simili credano a quello in cui crediamo noi. Da questo punto di vista, per quanto spesso ci lamentiamo della diffidenza che regnerebbe sovrana nella nostra epoca, si può dire che, da un punto di vista sociologico, la nostra è la società che più di ogni altra si basa su reti di fiducia salde e ben strutturate.
E non è affatto vero che viviamo in una società disincantata e secolarizzata. Miti e incanti sono ancora tra noi, solo che, essendo condivisi e interiorizzati fin nei precordi delle nostre interiorità, li chiamiamo “senso comune”, illudendoci di aver destituito di ogni fondamento mitologico le nostre esistenze.
Che cosa rende così attraenti i supereroi? Da Superman a Antman, da Batman a Ironman, da Black Panther a Thor, perché questi “personaggi di fantasia” esercitano un così profondo fascino su di noi? Che cosa ci spinge ad assistere con il fiato sospeso alle loro avventure impossibili, narrate in mondi impossibili, abitati da “cattivi” (villains) altrettanto impossibili?
Sappiamo tutti che quei superpoteri non esistono, che nessuno potrebbe volare, scagliare fulmini o ragnatele dalle mani, ricevere colpi micidiali senza battere ciglio, diventare invisibile e così via. Ciò nonostante, rimaniamo incollati allo schermo (televisivo o del cinema) fino alla fine della serie o del lungometraggio a fare il tifo per loro. E non importa se abbiamo 14 o 44 anni; se siamo maschi o femmine; bianchi o neri. I supereroi dominano il nostro immaginario e ci piace che lo facciano. Perché?
Tra le tante risposte possibili, una chiama in causa i meccanismi dell’identificazione e della proiezione. I supereroi sono di frequente uomini e donne mediocri o, almeno, ordinari, che vivono esistenze mediocri, o, in alternativa, frustranti, svolgendo lavori mediocri o anonimi (anche se potenzialmente rilevanti), ma che, in virtù di superpoteri acquisiti spesso in maniera casuale, riscattano la propria pochezza, maneggiando improvvisamente capacità superiori al resto dell’umanità.
Il superpotere giunge loro dall’esterno, fortuitamente e inaspettatamente, equivalente simbolico di una lotteria milionaria, e stravolge le loro vite, imponendo capacità e responsabilità impreviste con cui devono fare i conti per il resto della loro esistenza. Sono tenuti al segreto riguardo alla loro identità e vivono una doppia vita, consapevoli della loro distinzione rispetto al resto del mondo.
È facile, allora, capire perché gli spettatori amano identificarsi nelle loro vicende. La maggior parte di noi che guardiamo siamo persone altrettanto mediocri, ordinarie o frustrate che, immedesimandoci nel Superman o Capitan America di turno, riusciamo, almeno per qualche ora, a illuderci di avere dei superpoteri attraverso cui riscattare le nostre misere vite.
“Se solo fossimo come loro…” ci incita la nostra fantasia! E almanacchiamo su cosa faremmo se avessimo quel potere speciale che ci rende incredibilmente forti o invisibili. Proiettiamo così sui nostri supereroi i nostri limiti, superandoli in maniera vicaria, almeno per qualche tempo. E se qualcuno ci fa un torto nella vita reale, ci piace immaginare di avere capacità nascoste che ci consentirebbero di “fargliela vedere”.
Si potrebbe ipotizzare un rapporto direttamente proporzionale tra livello di frustrazione e capacità di immedesimazione. Più siamo frustrati, più tendiamo a indentificarci con i nostri superamici e più siamo avvinti dalle loro avventure.
Un elemento non trascurabile, tuttavia, ci differenzia dai supereroi. Nelle loro saghe, i vari Batman e Spiderman affrontano correttamente le responsabilità che accompagnano inevitabilmente i loro superpoteri. Per dire, è improbabile che uno di essi si vendichi del bullo che li tormentava da piccoli, del belloccio che gli sottrae la ragazza del cuore o del collega piaggiatore che ottiene la promozione immeritatamente al suo posto.
Noi sapremmo comportarci altrettanto responsabilmente? O useremmo i superpoteri per confermare in sostanza la nostra persistente mediocrità?
Molte sono le osservazioni sociologiche e antropologiche che è possibile fare sul contenuto del decreto tramite il quale il vescovo di Civita Castellana, Marco Salvi, ha dichiarato riguardo ai fatti di Trevignano e di Gisella Cardia: constat de non supernaturalitate, ossia “Le apparizioni mariane a Trevignano non hanno nulla di soprannaturale”.
La Chiesa possiede tre formule per esprimere un giudizio sull’origine soprannaturale di un fenomeno:
Constat de supernaturalitate: si conferma l’origine soprannaturale del fenomeno;
Constat de non supernaturalitate: si conferma l’origine non soprannaturale del fenomeno;
Non constat de supernaturalitate: Formula dubitativa con la quale non si conferma né l’origine soprannaturale, né quella non soprannaturale del fenomeno.
Il fatto che il vescovo di Civita Castellana abbia scelto la formula di rifiuto è indice del grado di negazione assoluta delle apparizioni mariane a Trevignano da parte delle autorità cattoliche. Rifiuto espresso categoricamente con le parole: “Il titolo ‘Madonna di Trevignano’ non ha alcun valore ecclesiale e non può essere usato come se lo avesse, anche in ambito civile”.
Il decreto impone poi ai sacerdoti il divieto di celebrare i sacramenti o guidare atti di pietà popolare nei luoghi dei fatti di Trevignano o anche in altri luoghi privati, pubblici ed ecclesiali. Vieta anche il semplice recarsi nel luogo di questi fatti.
Tra le ragioni di condanna dei messaggi della Madonna di Trevignano il fatto che essi presentano numerosi errori teologici e “l’eccessiva semplicità dei temi dei messaggi e delle esortazioni della presunta veggente”.
Ma è proprio su questi rilievi che si focalizza l’attenzione del sociologo. Non è forse vero che errori teologici ed eccessiva semplicità sono una costante sociologica dei messaggi delle varie madonne “approvate” di Lourdes, Fatima, Medjugorje e simili? Ad esempio, i veggenti della città bosniaca non sono stati forse accusati di ripetere in continuazione gli stessi messaggi bolsi e vacuamente ecumenici? Un esempio risalente al 25 febbraio 2024: “Cari figli! Pregate e rinnovate il vostro cuore affinché il bene che avete seminato porti frutto di gioia e di unione con Dio. La zizzania ha preso molti cuori e sono diventati sterili, perciò voi, figlioli, siate luce, amore e le mie mani tese in questo mondo che anela a Dio che è amore”.
Ebbene, questo messaggio non è fin troppo prevedibile e privo di originalità, richiamando toni e tempi presenti nei “pensierini” sulla pace di ogni bimbetto di scuola elementare?
La stessa elementarità si trova in sostanza in tutte le apparizioni mariane. E ricordiamo che né Bernadette né i tre pastorelli di Fatima erano esattamente “esperti” in questione teologiche.
Insomma, il vescovo Marco Salvi parla di Trevignano, ma le sue osservazioni non possono estendersi sociologicamente a tutte le apparizioni mariane?
Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte mia. maggiori informazioni
Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.