Tito Signorelli contro il rosario

Chi ricorda oggi Tito Signorelli (1875-1958), pastore della Chiesa metodista episcopale e sovraintendente della Chiesa Evangelica Metodista d’Italia? Forse solo qualche storico della sua chiesa di appartenenza o qualche oscuro bibliotecario italiano. Eppure, Signorelli, nato a Treviso, figlio dell’evangelista Luigi Signorelli, fu, in vita, un uomo molto attivo, non solo sul fronte religioso.

Negli anni della Prima guerra mondiale si occupò prima della chiesa metodista episcopale di Savona e poi di quella a Roma, dove rimase fino al 1918. Nel corso della sua permanenza nella capitale, si distinse per una lunga serie di sermoni e conferenze in cui tuonò contro la guerra, il militarismo e la violenza dilagante. Dopo aver trascorso due anni a Firenze (1918-1920), venne inviato per un anno a occuparsi della chiesa metodista di Genova Sestri Ponente e qui si dedicò al miglioramento delle condizioni sociali ed economiche della sua comunità.

Dotato di un carattere forte ed energico, fu uno scrittore prolifico, autore di libelli dissacranti contro vere e proprie istituzioni del cattolicesimo come la sacra sindone e il rosario.

Del 1932 è il testo che a me più interessa, ossia Il Rosario. Studio storico-critico, apparso per i tipi della Tipografia La Speranza di Roma in cui attaccò polemicamente e violentemente la “pia” tradizione del salterio di Maria che vuole che esso sia stato consegnato bell’e fatto nelle mani di san Domenico di Guzmam (1170-1221) direttamente dalla Beata Vergine.

L’attacco, condotto sulla base di precisi documenti storici e di una lettura non agiografica di quello che l’autore definisce “l’oggetto papista” per eccellenza, costituisce ancora oggi una delle critiche più feroci alla Chiesa cattolica, seppure scagliata da parte del rappresentante di un movimento religioso – quello dei valdesi – che non conserva un buon ricordo dell’istituzione del rosario: sempre secondo la “pia tradizione”, infatti, il rosario fu adoperato dal fondatore dell’Ordine dei Frati Predicatori per sconfiggere gli eretici valdesi e albigesi. Signorelli, dunque, non era esattamente imparziale nella scrittura del suo studio storico-critico, come è evidente dal ricorrere del termine “papista”, con cui i protestanti da tempo descrivono causticamente condotte e oggetti della Chiesa cattolica.

Sin dalle prime pagine, Signorelli denuncia contraddizioni, assurdità e “misteri” del rosario, devozione assimilata a un inesauribile borbottio, pratica paganeggiante, ripetizione di formule fisse senza senso. Per il pastore trevigiano, il rosario scaturisce da una assurda superstizione, quella secondo cui san Domenico sarebbe l’ideatore e l’autore di questa pratica, leggenda smentita clamorosamente dalla storia, ma ratificata da innumerevoli pontefici nel corso del tempo – Sisto IV, Leone X, Pio V, Gregorio XIII, Sisto V, Alessandro VII, Benedetto XIII, tra gli altri (“l’uno citando l’altro”) – che hanno contribuito a trasformare una favola in un “fatto storico”, non tenendo conto del fatto che il rosario era preesistente a s. Domenico e che nessun contemporaneo del santo fa parola della presunta rivelazione della Madonna che sarebbe alla base della leggenda stessa.

Del resto, strumenti per contare le preghiere sono noti fin dal tempo dell’eremita Paolo, vissuto nel IV secolo, e di s. Gertrude vissuta nel VII secolo, per non parlare delle “corone” adoperate in Siria e in Palestina nel secolo XI.

Con Domenico di Guzman, il rosario diviene semplicemente lo strumento da imporre in funzione antieretica per reprimere ogni forma di dissenso tra le masse analfabete.

Con il tempo, il rosario si trasforma in un rito “maggiore”, associato a un gran numero di indulgenze, espressione suprema di quel “religiosismo papista” che, secondo Signorelli, ha cacciato il cristianesimo del Vangelo fuori dalle chiese.

Per Signorelli, il rosario è paragonabile a una sorta di pallottoliere con cui addizionare, moltiplicare e dividere le preghiere e fare il bilancio delle indulgenze lucrate e viola direttamente la famosa riprovazione pronunciata da Gesù contro ì Farisei: «Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro…» (Matteo VI, 7-8). 

Tramite il rosario, il cristiano vede atrofizzare in lui il senso della preghiera, che non può mai essere una filastrocca imparata a memoria, un cilicio superstizioso, una “meccanica ripetizione di dicerie con cabalistici segni di croce”, ma sempre colloquio diretto e spontaneo dell’anima con Dio. Alla perdita di significato della preghiera, contribuiscono anche le tante indulgenze che fanno di questa devozione una formula ragionieristica, che soffoca ogni sincero anelito di preghiera e di amore di Dio.

In conclusione, il rosario non è altro che “propalatore di leggende”, “essiccatore dello spirito di preghiera”, “sterpo di spine”, “meccano di superstizione” e solo la sua rimozione dalla vita religiosa degli italiani potrà far risorgere, per il pastore metodista, l’autentico spirito della preghiera.

Al di là dello spirito polemico e fazioso, Il Rosario. Studio storico-critico rappresenta ancora oggi una lettura stimolante, soprattutto se si considera che la stragrande letteratura esistente sul rosario – anch’essa di parte, ovviamente – è di natura agiografica e coltiva la “leggenda” di san Domenico come se fosse verità assodata. Non si può non avvertire un refolo di aria fresca, una voce diversa, leggendo l’opuscolo di Tito Signorelli. È per questo motivo che ho trascritto integralmente il testo, ormai da tempo introvabile, in modo da offrire al lettore italiano la possibilità di leggere qualcosa di eterodosso sul rosario, nonostante tutti i limiti e la partigianeria presenti nelle pagine del pastore trevigiano.

Pubblicato in religione | Contrassegnato , , , , , | Lascia un commento

Sindemia: tra medicina e sociologia

Solitamente, le malattie sono percepite come fenomeni circoscritti che capitano a singoli individui indipendentemente da altre condizioni. Questa visione ingenua cela il fatto che sovente le malattie interagiscono con altre condizioni patologiche, in contesti sociali definiti, in presenza di variabili non esclusivamente morbose, ma psicologiche, antropologiche, urbane, politiche ecc.

Di questa dimensione complessa tiene conto l’antropologo statunitense Merrill Singer, che ha coniato il termine “sindemia”.

Per Singer, la sindemia è definibile come

l’aggregazione di due o più malattie o altre patologie in una popolazione in cui esiste un certo livello di interfaccia biologica o comportamentale dannoso che inasprisce gli effetti negativi sulla salute di una o tutte le patologie coinvolte.

La sindemia implica

un’interazione nociva di malattie di tutti i tipi (ad esempio, infezioni, malattie croniche non trasmissibili, problemi di salute mentale, disturbi comportamentali, esposizione a sostanze tossiche e malnutrizione). È più probabile che emerga in condizioni di disuguaglianza sanitaria causata da povertà, stigmatizzazione, stress o violenza strutturale a causa del ruolo di questi fattori nell’aggregazione e nell’esposizione alle malattie e nell’aumento della vulnerabilità fisica e comportamentale.

Il concetto di sindemia è, dunque, il riconoscimento del ruolo fondamentale che le condizioni sociali e le interazioni tra queste e le malattie hanno nel contribuire alla formazione, all’aggregazione e alla diffusione delle patologie.

Lo sguardo sindemico travalica i comuni concetti medici di comorbidità e multimorbidità perché comprende le conseguenze sulla salute delle interazioni identificabili tra malattie e i fattori sociali, ambientali o economici che promuovono l’interazione e aggravano la malattia.

Per Merrill, la sindemia, intesa anche come “aggregazione dii problemi sociali e sanitari a livello demografico”, e identificabile tramite tre criteri:

  1. due (o più) malattie o patologie si aggregano all’interno di una data popolazione;
  2. fattori contestuali e sociali creano le condizioni in cui due (o più) malattie o patologie si aggregano;
  3. il raggruppamento di malattie determina interazioni nocive tra malattie, sia biologiche che sociali o comportamentali, aumentando il carico sanitario delle popolazioni colpite.

In sintesi, ciò vuol dire che, per valutare correttamente l’andamento di una qualsiasi malattia è necessario prendere in considerazione la concomitanza di varie condizioni morbose in interazione con un complesso di variabili socio-economiche (densità demografica, livello igienico-sanitario, istruzione, indice di povertà, livello di diseguaglianza socio-economica, efficienza dei servizi sociali e socio-sanitari) che non rappresentano banalmente elementi di correlazione, ma contribuiscono fortemente all’inasprimento della/e patologia/e.

Prendiamo il caso della pandemia da SARS-CoV-2. È ormai noto che il suo andamento ha risentito del differenziale di accesso di alcuni strati della popolazione ai servizi sanitari e alle relative cure, dell’interazione della pandemia con preesistenti patologie (cardiache, circolatorie, tumorali) e della estrema difficoltà a curare quest’ultime durante la fase più virulenta del SARS-CoV-2 a causa della “centralità esclusiva” assunta dal virus.

La pandemia ha colpito in maniera particolare i soggetti in età geriatrica, i più fragili e quanti erano affetti, appunto, da patologie pregresse. È stata affrontata, infine, in maniera diversa in luoghi diversi con conseguenze sociali diverse.

Insomma, quello di “sindemia” è un concetto “olistico” e “complesso”, che non può non interessare il sociologo in quanto emancipa il concetto di “malattia” dalla sua dimensione esclusivamente medica, conferendole numerosi altri significati di indubbio rilievo sociologico.

È per questo che dovrebbe trovare costante impiego in sociologia e in medicina, discipline che non possono più continuare a viaggiare su binari paralleli destinati a non incontrarsi mai.

Fonte:

Singer M, Bulled N, Ostrach B, Mendenhall E., 2017, “Syndemics and the biosocial conception of health”, Lancet, 389, 10072, pp. 941-950.

Pubblicato in Antropologia, Sociologia | Contrassegnato , , , , | Lascia un commento

Anche la pagella ha una storia

Tra gli “oggetti culturali” che affollano la nostra quotidianità e che diamo immancabilmente per scontati, c’è un foglio di carta che, almeno fino ai 18 anni, appare particolarmente temuto dagli studenti: si tratta della pagella!

Di per sé il nome sembrerebbe quasi buffo: pagella, infatti, non significa altro che “piccola pagina”, essendo il diminutivo del latino “pagina”. Le sue funzioni attuali – documento riportante le valutazioni scolastiche di un allievo – risalgono, però, a tempi recenti: sembra che sia stato infatti l’imperatore d’Austria Giuseppe II, a introdurla nel 1783. In Italia, essa fu adottata ufficialmente, nella forma a noi nota, solo in epoca fascista, con un regio decreto del 20 giugno 1926.

Il Regio Decreto istituì un modello unico di pagella per le scuole elementari:

Art. 3. La pagella scolastica è fornita dal Provveditorato generale dello Stato in tipo unico secondo il modello stabilito dal Ministero della pubblica istruzione. Essa è posta in vendita al prezzo di £ 5 presso le rivendite di generi di privative.

Come è evidente, il fatto strano è che, nel 1926, la pagella non era consegnata direttamente allo studente dall’istituto scolastico da questi frequentato, ma doveva essere acquistata in tabaccheria al costo di 5 lire. Il pagamento fu abolito nel 1929, ma ripristinato nel 1946 (10 lire) e rincarato negli anni Cinquanta (25 lire). Solo nel 1963 venne definitivamente abolito.

All’epoca del fascismo, le pagelle riportavano sul frontespizio lo stemma dei Savoia e i giudizi erano espressi in valutazioni (sufficiente, buono, lodevole…). Esaminandole (vedi immagine sopra), non è difficile osservare come esse svolgessero una funzione non solo valutativa, ma propagandistica e conformistica, favorendo l’adesione a un modello fascista di “studente”. Tra le materie, ad esempio, comparivano “storia e cultura fascista” e “lavori donneschi”.

Nel 1946, furono introdotti i voti numerici e le pagelle riportavano i nomi e i simboli della Repubblica Italiana. Da allora, le polemiche voti numerici-giudizi non si sono mai sopite, dando vita a continui ribaltoni riformistici da parte dei ministri dell’istruzione che si sono succeduti nel corso del tempo.

Nel 1977, il Terzo Governo Andreotti introdusse i giudizi descrittivi. Nel 1993, Rosa Russo Iervolino soppiantò questi con le valutazioni in lettere (A, B, C, D, E), riforma subito superata, nel 1996, dal ripristino dei giudizi da ottimo a insufficiente in virtù di una circolare voluta dall’allora ministro dell’istruzione Luigi Berlinguer.

Nel 2008, la ministra Gelmini ritorna ai numeri in pagella. Anche questa riforma non dura a lungo. La ministra Azzolina, nel 2020, non ritiene più soddisfacenti i numeri preferendo i giudizi descrittivi.

Infine, per il momento, l’attuale ministro Valditara torna ai giudizi sintetici: da insufficiente a ottimo.

Come è evidente, le funzioni pedagogiche della pagella sono tutt’ora fortemente discusse e causa di inevitabili controversie.

Intanto, la pagella è diventata digitale. A scuola, per la privacy, nessuno conosce più i giudizi attribuiti agli altri e la valutazione è diventata un qualcosa da contemplare solipsisticamente e un po’ tristemente.

Certo, in questo modo si evitano confronti fastidiosi, causa abituale di malumori tra compagni di classe, ma si perde la ritualità collettiva associata alla fruizione di classe della pagella, che consentiva di stemperare questi stessi malumori in una dimensione gioiosa.

Pubblicato in storia | Contrassegnato , , , , , , | Lascia un commento

Quei tanti errori di traduzione nella Bibbia

Per quanti anni Saul regnò su Israele secondo 1 Samuele 13, 1? “20” o “42”? Gli abitanti della città di cui si parla in 2 Samuele 12, 31 furono fatti “lavorare nelle fornaci di mattoni” o “gettati nelle fornaci di mattoni”? In Matteo 26, 50, Gesù disse: “Amico, per questo sei qui” o “Amico, che sei venuto a fare?”?

In Marco 1, 5, le persone che accorrono da Giovanni per farsi battezzare da lui “confessano i loro peccati” o “proclamano le loro trasgressioni”? In Marco 6, 20, Erode “vigila” su Giovanni o “lo custodisce”? In Matteo 5, 19 che cosa intende dire Gesù quando parla dei “minimi” nel regno dei cieli? Secondo Luca 23, 32, in croce c’erano “due malfattori” o “anche due malfattori”?

I precedenti sono solo alcuni dei passi biblici su cui si è esercitato lo sforzo dei traduttori nel corso del tempo. Uno sforzo non sempre coerente, come è evidente dalle ambiguità che, ancora oggi, permeano le traduzioni – anche le più note – della parola biblica.

Non si tratta di banali errori o disattenzioni, ma, spesso, di precise scelte strategiche volte a enfatizzare questo o quell’aspetto delle sacre scritture e a favorire alcune interpretazioni a scapito di altre.

Su queste mistranslations si soffermano Giambernardo Piroddi, scrittore e traduttore dal greco, e Giuseppe Verdi nel video “LE FALSE TRADUZIONI del NUOVO TESTAMENTO”, facilmente reperibile su YouTube, che esamina alcuni dei “significati nascosti” che si celano dietro particolari scelte traduttive in un viaggio entusiasmante, di poco meno di due ore, che piacerà anche a chi non mastica il greco biblico.

Giambernardo Piroddi è anche autore del libro Gesù non amava i nemici. Quello che i vangeli greci raccontano e le traduzioni censurano, Edizioni Clandestine, 2024, che promette di essere un testo estremamente interessante per chi ha interesse negli “errori di traduzione che hanno cambiato il mondo”.

Pubblicato in errori di traduzione | Contrassegnato , , , , | Lascia un commento

Le caratteristiche dello sport moderno

Secondo Gaetano Bonetta, autore di Il secolo dei ludi. Sport e cultura nella società contemporanea (2000, Lancillotto e Nausica), sono sette le caratteristiche dello sport odierno che lo differenziano da come esso veniva praticato agli albori della modernità

  1. Secolarismo. «Lo sport non è più un’attività prevista all’interno di momenti cultuali oppure non è più un fatto o fenomeno carico di significati religiosi: bensì è una prassi sociale che, al di là della sua mondanità, si funzionalizza socialmente concentrandosi sui propri elementi essenziali, quali gioco, esercizio e competizione».
  2. Inclusione e uguaglianza. «Questa pervade lo sport in una duplice maniera. Da un lato, garantisce l’universalità della pratica, in quanto tutti in via di principio devono avere l’opportunità di gareggiare. Da un altro lato, pone come indispensabile che le condizioni delle competizioni sportive siano le stesse per tutti i partecipanti».
  3. Specializzazione. «È questa la tendenza costante e definitiva che si afferma in chi pratica lo sport quando il miglioramento della prestazione è obiettivo dell’attività sportiva medesima».
  4. Razionalizzazione. «Questa è la pervicace tendenza a regolamentare ogni gesto, spazio e tempo della gara sportiva, a dare ai giochi una razionalità rispetto alla scopo, ad attribuire una relazione logica tra mezzi e fini».
  5. Burocratizzazione. «Questa è la forma della amministrazione e gestione dello sport. A presiedere alle attività sportive locali nazionali ed internazionali saranno gli organi burocratici dello sport, che sono gli stessi che dettano le regole dei giochi».
  6. Quantificazione. «Gli sport sono ora connotati dalla tendenza insopprimibile a trasformare qualsiasi competizione sportiva in un’impresa che può essere quantificata e misurata, ed in base alla ricchezza di quantità espressa può essere valutata».
  7. Record. «Questa è la tendenza prodotta dall’impulso alla quantificazione e dal desiderio di vincere che determina la mania ossessiva del primato, ovvero di eccellere qui, ora, ovunque, sempre» (2000, pp. 23-25).

A tali caratteristiche, aggiungerei sicuramente:

  1. la spettacolarizzazione, ovvero la tendenza dello sport contemporaneo a farsi spettacolo veicolato dai media;
  2. la divizzazione, ossia la tendenza dei protagonisti dello sport a divenire divi e a sconfinare carismaticamente dai limiti della disciplina sportiva;
  3. la saturazione ovvero la tendenza dello sport a occupare ogni momento del budget temporale degli individui per cui, in teoria, è possibile assistere a un evento sportivo in ogni momento della giornata.

Altre caratteristiche sono delineabili. Per alcune di esse rimando al mio Hanno visto tutti! Nella mente del tifoso (Meltemi Editore), che riassume e smonta molti luoghi comuni sul calcio e il tifo.

Pubblicato in Sociologia, sport | Contrassegnato , , , , , | Lascia un commento

Attenti al dog whistle!

I fischietti a ultrasuoni – in inglese, dog whistles – sono strumenti adoperati per impartire comandi ai cani in modo che eseguano determinate operazioni anche a distanza. La loro particolarità è la capacità di emettere suoni praticamente non percepibili dagli esseri umani, ma perfettamente udibili dai cani. Sono, dunque, concepiti in modo da comunicare messaggi solo a un target elettivo, in questo caso i cani.

Per analogia, in politica, dog whistle fa riferimento all’uso di un linguaggio evocativo per comunicare messaggi selezionati a un target preciso al fine di ottenerne il consenso senza suscitare critiche da parte di altri gruppi sociali o schieramenti politici. Le parole o le espressioni dog whistle sono spesso termini ordinari, quotidiani, che però risultano avere una determinata connotazione (spesso positiva) per segmenti politici specifici. Sono generalmente utilizzate per trasmettere messaggi su questioni che potrebbero provocare polemiche senza attirare commenti negativi. Una sorta di insider code dai sicuri effetti propagandistici.

Pensiamo a un termine come “famiglia” o a un’espressione come “valore della famiglia”. Sebbene si tratti di parole ordinarie apparentemente neutre, esse, in realtà, comunicano una “certa” idea di famiglia – tradizionale, antica, anche religiosamente connotata – che rimanda a una visione conservatrice della realtà.

Allo stesso modo, la parola “libertà”, che ha un’immediata connotazione positiva (chi non vorrebbe essere libero?), può comunicare un’idea di avversione nei confronti di tasse e imposte statali e quindi alimentare campagne di orientamento liberista estremo.

Uno slogan come “Dio, patria e famiglia” è comunemente adoperato da esponenti di destra per comunicare una certa idea di Dio, patria e famiglia. “Speculatori finanziari” può essere un riferimento eufemistico per indicare gli “ebrei”.

Così pure, lo slogan “Sono Giorgia. Sono una madre. Sono italiana. Sono cristiana” è diventato il ritornello identitario della nuova destra in virtù delle parole dog whistles “madre”, “italiana”, “cristiana” che, prese di per sé, comunicherebbero solo ovvietà, ma che sono intrise di connotazioni ideologiche ben precise, immediatamente rilevabili a un elettore di destra.

Tramite il dog whistling si introducono, quindi, nel discorso politico delle parole chiave che di per sé avrebbero un significato generico, ma che in realtà nascondono un messaggio sottile, se non subdolo, intenzionalmente diretto a una precisa fascia di elettori, ritenuta in grado di decifrarlo.

Un tempo, durante la Prima Repubblica, il linguaggio involuto e criptico dei politici veniva adoperato per comunicare messaggi “in codice” ad alleati e oppositori, senza che il pubblico capisse. Oggigiorno, i messaggi in codice sono rivolti al grosso pubblico, senza nemmeno “travestirli” con termini tortuosi e incomprensibili.

Tutto è palese nel dog whistling. Ma è un’evidenza ingannevole che spesso cela ciò che con termini chiari non si potrebbe dire. Una sorta di doppiezza verbale alla quale i più non fanno neppure caso perché credono che la politica in fondo sia proprio questo: doppiezza.

Pubblicato in politica, propaganda | Contrassegnato , , , , , | Lascia un commento

Come si giudica secondo Adam Smith

Afferma Adam Smith nella sua Teoria dei sentimenti morali:

Ogni facoltà in un uomo è il metro per giudicare la stessa facoltà in un altro uomo. Giudico la tua vista attraverso la mia vista, il tuo udito attraverso il mio udito, la tua ragione attraverso la mia ragione, il tuo risentimento attraverso il mio risentimento, il tuo amore attraverso il mio amore. Non ho, né posso avere, alcun altro modo per giudicarle (Adam Smith, 1995, Teoria dei sentimenti morali, BUR, Milano, p. 98).

Sottovalutiamo spesso la circostanza che i nostri giudizi sono prospettici, che derivano dal fatto di collocare noi stessi come punto di riferimento di ogni cosa. Così, diciamo: “Fa freddo”, quando in realtà dovremmo dire: “Ho freddo”. Diciamo: “Quel film è meraviglioso”, quando in realtà dovremmo dire: “Per me quel film è meraviglioso”. Diciamo: “Ti stai rovinando la vita”, quando in realtà dovremmo dire: “Per me, ti stai rovinando la vita”. Apprezziamo un comportamento perché sappiamo che non ne saremmo all’altezza; lo disprezziamo perché crediamo che sia ampiamente alla nostra portata.

Finiamo, dunque, per assolutizzare i nostri giudizi, spersonalizzandoli ed eliminando la loro origine prospettica. Un meccanismo che altrove ho definito “conversione nell’oggettivo”. Secondo Smith, ciò è inevitabile: gli esseri umani non possono che comportarsi in questo modo. Non riescono a evitare di essere “egocentrici”, ossia di mettere sé stessi al centro del mondo e di valutare gli altri a partire da questo centro.

E allora l’altruismo? L’altruismo non ha nulla a che fare con l’egocentrismo, ma con l’egoismo. Come raccontavo in un post precedente, egocentrismo non significa egoismo. Il primo pertiene alla sfera biopsicologica; il secondo a quella morale. Possiamo, dunque, condurci in maniera perfettamente altruistica, pur continuando inevitabilmente a essere egocentrici.

L’egocentrismo è inevitabile; l’egoismo no.

Pubblicato in psicologia, Sociologia | Contrassegnato , , , , | Lascia un commento

L’ideologia del dominio nell’antica Roma

L’idea di stato sociale, sebbene relativamente recente, risalendo alla seconda metà del XIX secolo, è talmente radicata in noi che risulta quasi inconcepibile immaginare che siano esistite epoche in cui termini come “protezione dai rischi”, “assistenza”, “sicurezza della comunità”, “benessere dei cittadini”, “politiche sociali”, “qualità della vita” ecc. non avevano alcun senso o quasi.

Nell’antica Roma, ad esempio, era del tutto normale che i più forti dominassero sui più deboli. Chi era potente fisicamente, socialmente o economicamente era chiamato a dominare sui deboli, gli analfabeti e i poveri. Alcuni studi hanno dimostrato che quasi il 40% della popolazione urbana dell’Impero Romano viveva ai limiti della soglia di povertà, definita come la disponibilità di risorse sufficienti a fornire cibo, vestiti e riparo per la mera sopravvivenza.

Un altro 30% era indigente. Nonostante ciò nessuno si poneva alcun problema di natura etica, né alcun imperativo morale di provvedere ai bisognosi. Non solo. Anche il concetto di “elemosina” aveva un significato completamente diverso. Nel mondo romano, quando i ricchi donavano il loro denaro, non lo facevano quasi mai con lo scopo di aiutare i bisognosi. L’obiettivo era di aiutare i membri della propria classe sociale – ad esempio, parenti in difficoltà – o finanziare progetti per la comunità come la costruzione di edifici o il finanziamento di spettacoli pubblici con tutti gli onori che ne conseguivano.

Queste elargizioni potevano talvolta aiutare i poveri, che potevano utilizzare gli edifici pubblici e assistere ad alcuni spettacoli gladiatori. Ma non era questo lo scopo per cui le élite finanziavano tali progetti. Si trattava di promuovere la propria immagine, un guadagno tutto personale quindi. Se le elargizioni avevano per destinatari i meno abbienti era per comprare il loro voto. 

L’ideologia del dominio trovava applicazione anche all’interno delle mura domestiche. Gli uomini “dominavano” sui bambini, su cui avevano potere di vita e di morte, e sulle donne nella vita quotidiana, in ambito finanziario e nella sfera sessuale. I padroni, inoltre, detenevano diritti illimitati nei confronti dei propri schiavi, anche in ambito sessuale. Non era in alcun modo motivo di vergogna che un padrone maschio facesse sesso con uno schiavo maschio, né si sosteneva fosse un atto “innaturale”. Al contrario. La dominazione era considerata un dato di natura.

Studiare il passato non serve solo a conoscere ciò che è accaduto prima che noi nascessimo, ma anche a capire che gli “antichi” vedevano il mondo in modo diverso dal nostro.

Ciò ha anche un’altra conseguenza. Non dobbiamo dare per scontato che la nostra impalcatura storico-sociale sia destinata di per sé a durare per sempre. Le nostre conquiste devono essere sostenute ogni giorno se vogliamo che siano sempre con noi. Considerarle “banali” e “ovvie” è il primo passo verso un possibile ritorno a strutture sociali e mentali del passato.

Fonte

Bart D. Ehrman, 2024, Armageddon. Che cosa dice davvero la Bibbia sulla fine del mondo, Carocci, Roma, pp. 168-169.

Pubblicato in storia | Contrassegnato , , , , , | Lascia un commento

Analogie tra calcio e religione

In un post precedente, avevo fatto notare come calcio e religione fossero due dimensioni apparentemente distanti anni luce, ma accomunate dalla medesima propensione irrazionale ad abbracciare la parzialità, facendola passare per verità assoluta.

Le analogie tra i due “fatti sociali” non finiscono qui. È anzi possibile proporre una sorta di mappa di corrispondenze biunivoche che dimostra in maniera lapalissiana come le due dimensioni si intreccino fra loro. Questo perché, come dice Gaetano Bonetta in un libro di qualche anno fa – Il secolo dei ludi, Lancillotto e Nausica, Roma, 2000 – “la partita di calcio è pure il momento di una ritualità secolarizzata che si nutre di una forte trasposizione simbolica delle tecniche cultuali delle religioni ebraico-cristiane” (p. 116).

Proviamo a identificare alcune di queste analogie.

Il calendario del campionato e delle coppe europee è modellato su quello liturgico: prevede celebrazioni fisse, ricorrenze, date di nascita e di morte (di inizio e di fine), “festività” a cui è d’obbligo partecipare per “santificare” la propria vita di tifoso (i match clou).

Gli arbitri officiano il rito calcistico come i sacerdoti officiano la messa della domenica. Indossano “paramenti” diversi dagli altri protagonisti, si fanno garanti dell’ordinato sviluppo dell’evento calcistico, infliggono sanzioni ai trasgressori del regolamento come un sacerdote infligge riparazioni a chi si confessa. Il triplice fischio tramite cui l’arbitro sancisce la fine dell’incontro è paragonabile alla formula “Ite missa est” con cui il sacerdote conclude la messa.

Lo stadio è ovviamente un tempio di culto, novella chiesa con tanto di coro (dei tifosi), deambulatorio (il corridoio che introduce i calciatori in campo) e altare (il campo stesso). È qui che si esprime e si celebra il verbo calcistico, così come quello di dio si celebra in chiesa.

La riunione dei tifosi è una sorta di incontro ecclesiale in cui sono stabilite modalità di azione, slogan da cantare, gesti da eseguire. L’organizzazione dei club di tifosi è assimilabile a un’articolazione ecclesiastica.

Il tifo è paragonabile a una forma di preghiera: è caratterizzato spesso da formule fisse, gestualità rituali, inni, invocazioni, richieste alla squadra di “vincere per noi”, moniti morali (“Vergognatevi!” rivolto ai propri beniamini quando questi non ottengono i risultati sperati). Il tifoso, inoltre, è un “fedelissimo” che si identifica pienamente con la propria squadra come il fedele religioso si identifica con il proprio dio.

Le trasferte calcistiche ricordano indubbiamente i pellegrinaggi: loro meta è il “santuario stadiale” e il cammino prevede tappe e percorsi anche molto lunghi. Più è lungo il percorso, più il tifoso acquista meriti, dimostrando la propria inconfutabile dedizione. Il tifoso in trasferta è il “vero” tifoso, così come chi prende parte a pellegrinaggi è un “vero” credente.

Le regole del calcio sono leggi dogmatiche da osservare con zelo pedissequo. Al più si possono interpretare, e di fatto sono interpretate da arbitri, tifosi e giornalisti, ma non mettere in discussione. Anche perché sono regole costitutive, ossia dal loro rispetto dipende la stessa possibilità dell’evento “incontro calcistico”. Allo stesso modo, la celebrazione del rituale liturgico dipende dal rispetto di precise regole a cui il sacerdote e i fedeli si attengono scrupolosamente.

Il VAR appare come un deus ex machina, in grado di decidere l’interpretazione di un episodio calcistico contestato “dall’alto” del suo vantaggio tecnologico, così come, nella Bibbia, Dio interviene spesso a orientare la piega di un determinato evento. Il VAR è assimilabile anche a un oracolo dalle cui labbra arbitri, calciatori e tifosi dipendono per il loro futuro immediato.

Infine, i commenti agli incontri calcistici di giornalisti ed esperti del settore sono paragonabili alle glosse a cui sacerdoti e teologi ricorrono a margine di testi della tradizione biblica e che spesso danno origine ad accesi dibattiti, se non a veri e propri scontri.

Potremmo continuare.

La natura religiosa del calcio – uno dei culti laici di questi tempi – è stata sottolineata da tanti. Qualcuno teme che essa soddisfi a tal punto l’anelito religioso degli uomini da aver saturato quasi interamente questa importante dimensione umana.

A tal punto che pare legittimo chiedersi: E se la religione divenisse col tempo un succedaneo simbolico del calcio?

Pubblicato in religione, sport | Contrassegnato , , , , , , | Lascia un commento

Perché la Bibbia proibisce i tatuaggi?

Oggigiorno, i tatuaggi sono diffusi in ampi strati della popolazione, soprattutto tra i giovani e le giovani. Il tatuaggio è universalmente riconosciuto come una forma di espressione avente significato comunicativo, estetico, narrativo, biografico ecc. Per molti, è una modalità di incidere sul proprio corpo messaggi destinati all’eternità, di raccontare qualcosa di noi in maniera imperitura, di distinguersi dalla massa (anche se il tatuaggio è già un fenomeno di massa). Eppure, non molto tempo fa, i tatuaggi erano appannaggio di detenuti, marinai e altre categorie marginali: un vero e proprio contrassegno di condotta deviante e, in quanto tale, vituperato dai benpensanti.

L’atteggiamento negativo nei confronti dei tatuaggi deve molto anche all’interdetto contenuto in Levitico 19, 28, “Non vi farete incisioni sul corpo per un defunto, né vi farete segni. Io sono il Signore”.

Perché Levitico proibiva i tatuaggi? La risposta è nel versetto appena citato. Marchiare la propria pelle in segno di lutto significava legarsi a un determinato culto dei morti giudicato contrario alla fede nel Dio d’Israele.

Si ritiene, inoltre che i tatuaggi potessero essere associati a pratiche magiche e superstiziose, a contenuti eversivi ed esoterici. Secondo altri esegeti, il tabù riguardava esclusivamente i tatuaggi eseguiti con le ceneri dei familiari trapassati.

A parere di John Huehnergard e Harold Liebowitz, invece, la spiegazione della proibizione dei tatuaggi potrebbe avere un’origine diversa. Nell’antica Mesopotamia, infatti, la pelle degli schiavi veniva spesso marchiata. I prigionieri degli egizi, ad esempio, erano segnati con il nome di un dio e caratterizzati, così, come oggetti appartenenti al sacerdote o al faraone.

Per questo motivo, considerato il ruolo centrale della fuga dalla schiavitù in Egitto nell’antico diritto ebraico, la Torah mise al bando i tatuaggi in quanto “simboli di servitù”. Comunque, un altro passaggio – Isaia 44, 5 “Questi dirà: Io appartengo al Signore, quegli si chiamerà Giacobbe; altri scriverà sulla mano: Del Signore, e verrà designato con il nome di Israele” – sembra consentire il tatuaggio come segno di sottomissione al Signore. È probabile, dunque, che il tatuaggio fosse permesso quando non era simbolo di schiavitù o di idolatria pagana.

Qualunque sia la spiegazione – è probabile che ce ne sia più di una in relazione a tempi e luoghi diversi – una cosa è certa: il tabù del tatuaggio ha a che fare con situazioni storiche e contingenti precise per cui non è possibile estenderlo a proibizione universale, come fanno alcuni sacerdoti contemporanei.

A ben pensarci, gli stessi Dieci Comandamenti, oggi assunti a leggi universali, valide al di là di tempi e luoghi, scaturiscono da situazioni storiche e contingenti.

È questa una delle curiose forme evolutive dei principi morali: nati in contesti determinati e circoscritti, sopravvivono come norme generalizzate fino a che non sono più avvertiti come specifici di un popolo, ma diventano validi per ogni popolo e ogni tempo.

Fonte:

John Huehnergard e Harold Liebowitz, 2013, “The Biblical Prohibition Against Tattooing”, Vetus Testamentum, vol. 63, Fasc. 1, pp. 59-77.

Pubblicato in Antropologia, religione | Contrassegnato , , , , , | Lascia un commento