Sociologia delle regole grammaticali

Siamo abituati sin dai primi mesi sui banchi di scuola a percepire la grammatica in senso normativo, ossia come un insieme di regole rigide e immodificabili la cui violazione provoca biasimo e sanzioni da parte di maestri e maestre. In passato, queste si traducevano in umilianti freghi rossi e blu (ricorderete: il colore rosso indicava gli errori meno gravi, il blu quelli gravi e gravissimi).

Ma anche la grammatica, come è ovvio, subisce gli attacchi del tempo e modificazioni di ogni tipo che, una volta sedimentate, diventano regole altrettanto ferree e implacabili come quelle che sostituiscono.

Per rendersene conto, basta consultare una qualsiasi grammatica del passato. Ciò che colpisce è che qualsiasi compilatore di regole grammaticali assume un atteggiamento rigorosamente normativo, spacciando per precetti intangibili quelli che, qualche anno dopo, saranno probabilmente considerati errori o solecismi.

Prendiamo, ad esempio, i Brevi avvertimenti di grammatica e aritmetica (1984, D’Auria, Napoli) di Alfonso Maria De Liguori (1696-1787), dottore della Chiesa e fondatore della Congregazione del Santissimo Redentore. Questo breve scritto, composto intorno alla metà del XVIII secolo a vantaggio soprattutto dei religiosi meno istruiti, offre al lettore odierno una serie di regole sconcertanti, meritevoli, considerato gli standard contemporanei, di numerosi tratti di matita blu.

A proposito dei verbi, Liguori suggerisce di dire io leggeva o leggea, non io leggevo (p. 18); debbo e deggio, non devo; inalzare, non innalzare; sieno, non siano (p. 20).

A proposito di nomi, raccomanda abbate, non abate; abozzo, non abbozzo; avezzo, non avvezzo; malvaggio, non malvagio; sagro, non sacro; ubbidienza, meglio che obbedienza (pp. 21-23).

Si potrebbe continuare. Ciò che è importante osservare è che il tono e l’atteggiamento di Liguori rispetto a quelli che noi considereremmo errori, sono altrettanto imperiosi di quelli di molti altezzosi grammatici moderni, pronti a fustigare con sdegno chiunque osi contravvenire le regole divine da essi descritte.

Il confronto con grammatiche del passato induce nel lettore contemporaneo una sensazione di straniamento che, tuttavia, ci fa comprendere come anche le regole della scrittura sono relative a tempi e luoghi.

Alla luce di queste considerazioni, considero davvero spocchiose le sopracciglia alzate di tanti eruditi bacchettoni, disposti a linciare chi non si conforma alle regole della grammatica del momento. Un po’ di umiltà dovrebbe insegnare loro che la regola aurea che tanto strenuamente sostengono potrebbe essere contraddetta di lì a qualche anno per il semplice mutare di tempi e sensibilità.

Insomma, una certa dose di sociologia della grammatica ci renderebbe tutti più indulgenti e comprensivi.

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Il rosario come mantra

Quali sono gli effetti psicologici della recitazione del rosario sulla mente? Sebbene possa sembrare blasfemo agli occhi del credente, questo aspetto è stato indagato dalla psicologia in uno studio di qualche anno fa a cui fa riferimento l’articolo riportato sopra.

Nel 2001, il British Medical Journal ha pubblicato i risultati di una ricerca condotta a Firenze e Pavia da una equipe internazionale di ricercatori diretta da Luciano Bernardi su 23 soggetti adulti in buona salute. L’articolo ha indagato l’influenza che la recitazione di preghiere come il rosario o il mantra dello Yoga ha sul ritmo cardiovascolare e altri parametri cardiaci. I risultati suggeriscono che preghiere come il rosario (almeno quello in latino che prevede la recitazione di cinquanta Ave Maria per tre volte), se recitate sei volte al minuto, possono produrre effetti benefici sul corpo sia da un punto di vista psicologico che fisiologico. In particolare, queste preghiere rallentano il ritmo respiratorio fino a sei cicli al minuto, aumentano la concentrazione, migliorano l’ossigenazione del sangue, normalizzano la pressione, regolarizzano il battito cardiaco e riducono gli stati d’agitazione. In conclusione, gli autori suggeriscono che il rosario potrebbe essere considerato una pratica per la salute, oltre che religiosa.

Gli esiti di indagini come quella riportata sono particolarmente controversi. Essi vengono spesso citati dai credenti a conferma della bontà della religione come esperienza spirituale e fideistica. In realtà, riducono la pratica religiosa a fenomeno psicofisico, appiattando l’orizzonte religioso su quello “profano” del funzionamento della psiche e del corpo, al punto che, come nel caso della ricerca sopra citata, rosario e mantra sono assimilati l’uno all’altro indipendentemente dal diverso retroterra storico, culturale e religioso delle due pratiche.

È un equivoco che perdura da tempo e di cui troverete ulteriori testimonianze nel mio La Sacra Corona. Storia, sociologia e psicologia del rosario.

Fonte: Bernardi, L., Sleight, P., Bandinelli, G., Cencetti, S., Fattorini, L., Wdowczyc­Szulc, J., Lagi, A., 2001, Effect of Rosary Prayer and Yoga Mantras on Autonomic Cardiovascular Rhythms: Comparative Study, “British Medical Journal”, vol. 323, n. 7327, pp. 1446-1449.

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Gli effetti deleteri dei film

Si discute da tempo immemore degli effetti dei mass media sulle fragili menti dei nostri pargoli. Sin dalla loro nascita – forse inizialmente per una forma di misoneismo connaturata all’essere umano – i mezzi di comunicazione di massa sono stati visti con sospetto e diffidenza, quasi che alla loro straordinaria efficacia comunicativa dovesse necessariamente corrispondere uno straordinario rischio intrinseco di corruzione cognitiva ed emotiva dei più giovani tra noi.

Tale sospetto ha assunto forme diverse, la più apocalittica delle quali è stata indubbiamente la cosiddetta Bullet Theory o “Teoria dell’ago ipodermico”, nata negli Stati Uniti nel periodo tra le due guerre mondiali, secondo cui, una volta esposto ai contenuti dei media, lo spettatore (o ascoltatore) è “trafitto” irresistibilmente da questi come da un proiettile e nulla può contro il potere strabordante di televisione e radio.

Al giorno d’oggi, nessuno più parla di Bullet Theory, ma le paure nei confronti degli effetti della continua esposizione dei giovani alle “trame” veicolate mediante Internet e i cosiddetti Social hanno subito una sorta di upgrade, divenendo ancora più intense. La convinzione è che i nuovi mezzi di comunicazione siano in grado di “sparare” contenuti ancora più “perforanti” rispetto a radio e televisione con conseguente catastrofe cognitiva dell’umanità intera, ormai incapace di distogliere il proprio sguardo dalle ammalianti immagini dei vari Instagram e TikTok.

Rimane, in particolare, costante nelle discussioni di esperti, opinionisti e moralisti – che spesso costruiscono le loro fortune reputazionali proprio sulle crociate da loro avviate contro i media – l’attenzione a fattori mutevolmente additati, secondo i tempi e le temperie, a responsabili dei turbamenti di adulti e adolescenti e, quindi, proposti per la gogna censoria in quanto ritenuti assolutamente malvagi. In taluni casi, questi fattori sono addirittura giudicati capaci di favorire condotte antisociali, indurre al suicidio, provocare fenomeni di aggressività e omicidi. In altri casi, a essi sono addebitati fenomeni psichiatrici o di ipersensibilità, come psicosi, schizofrenia, insonnia, pavor nocturnus. Insomma, niente di buono può scaturire dai mezzi di comunicazione di massa, indipendentemente dalla forma da essi assunta: giornali, radio, televisione o Internet.

Negli anni Cinquanta, ad esempio, lo psichiatra Fredric Wertham (1895-1981) era profondamente convinto, che i fumetti fossero un importante fattore causale della delinquenza minorile e di altre condotte antisociali. Venti anni dopo circa, il capro espiatorio di ogni male divennero alcuni brani musicali che, ascoltati al contrario, secondo alcuni critici, nascondevano al loro interno messaggi inquietanti, che invitavano al suicidio, all’adorazione di Satana o all’aggressione eterodiretta (backward masking). Si è passato poi ai videogiochi, accusati di ottenebrare infallibilmente, il cervello adolescenziale per finire con le serie TV, indiziate di creare dipendenza al pari delle più tradizionali sostanze stupefacenti.

Il problema che moralisti e opinionisti raramente riescono a spiegare è come mai i fattori nefasti di volta in volta indicati come alleati di Lucifero agiscano solo su alcuni (pochi) soggetti e non su tutti. E non sempre negli stessi modi e con la stessa intensità. Ma tant’è! Bastano due o tre casi di (presunti) effetti funesti e subito decolla la generalizzazione, la tentazione più comune tra i commentatori, e viene istituita una sorta di legge sociologica.

È proprio questo l’atteggiamento che lo scrittore britannico Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) combatte nell’articolo The Fear of the Film (1923), qui proposto nella mia traduzione: uno scritto pieno di buon senso e da riscoprire soprattutto a vantaggio di tanti massmediologi di grido (o presunti tali), troppo propensi alla facile condanna moralistica e alla facile generalizzazione.

Se un bambino decide di aggredire qualcuno con un coltello, dopo aver visto un film in cui lo stesso strumento viene usato per fini non umanitari, la colpa è del film o del bambino? Non dovremmo, in questo caso, occuparci della mente del minore e comprendere il motivo del suo gesto? E che dire dei tanti fanciulli che, come il nostro piccolo aggressore, hanno visto il medesimo film senza essere tentati di uccidere qualcuno? Eppure, la rimozione o la censura della scena filmica in cui appare il coltello viene spesso vista come la soluzione privilegiata per risolvere il problema delle reazioni anomale di alcuni spettatori. Forse perché è più facile censurare che capire. E tutto questo nonostante, nella vita quotidiana, i bambini siano esposti a numerosissimi coltelli che vedono adoperare per gli scopi più svariati, alcuni dei quali anche cruenti.

Manca la certezza del rapporto causa-effetto tra rappresentazione del coltello e comportamento aggressivo. Eppure, al minimo episodio anomalo, pure in assenza di qualunque riscontro empirico, il rapporto viene dichiarato assolutamente certo e non limitato all’episodio in questione, ma esteso immancabilmente a norma universale.

E che dire, tuttavia, dei tanti romanzi e rappresentazioni teatrali in cui il coltello è, in qualche modo, protagonista? Chesterton ricorda il Mercante di Venezia di Shakespeare in cui Shylock “brandisce un coltello per uno scopo grandemente deplorevole”. Ma tante altre opere immortali della nostra letteratura potrebbero essere citate al riguardo. Dovremmo forse censurare o purgare Shakespeare e tanti altri autori per le reazioni sconsiderate di qualche bambino alle loro trame? O dovremmo aiutarlo a capire il significato complessivo dell’opera, che evidentemente trascende i singoli oggetti che in essa appaiono?

Chesterton lo dice molto bene: “Un effetto spaventoso può essere associato a un qualsiasi altro effetto o situazione”. Quindi, piano con la censura e con i giudizi moralistici. Eppure, è proprio in questi casi che, talvolta, la sociologia precipita nel sociologismo, ossia in una ipertrofica caricatura di sé stessa, e si lancia a spron battuto verso spiegazioni nomotetiche dell’accaduto. L’aneddoto peculiare diviene, così, ferrea congiunzione astrale e come tale viene trattato da opinionisti e moralisti. Con il rischio di sguinzagliare un contagioso panico morale nei confronti di ogni oggetto a cui capiti di suscitare una seppure lieve inquietudine in un minore qualsiasi, che sia uno strumento di tortura o il sesso oppure una linguaccia di mucca.

Raccomando a ogni aspirante sociologo la lettura di The Fear of the Film, scritto oltre cento anni fa, ma ancora capace di stemperare, con il suo infinito buon senso, le letture sociologistiche che soprattutto self-styled scienziati televisivi della mente e della società ci hanno proditoriamente e sommariamente ammannito nel corso degli ultimi quarant’anni.

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Sugli effetti prodigiosi della ripetizione

Fa notare Massimo Polidoro in uno dei suoi ultimi libri che

ogni attività ripetuta modifica il nostro cervello. È un processo noto come “neuroplasticità” e indica la capacità del cervello di modificare la propria struttura nel corso del tempo in risposta all’esperienza. Questo significa che se si decide di praticare una certa attività, per esempio suonare il pianoforte, le parti del cervello legate ai movimenti delle dita sulla tastiera mostreranno maggiori livelli di attività, anche quando non si suona, e in certi casi sarà anche possibile misurare in quelle parti del cervello una crescita in termini di volume e densità (Polidoro, M., 2023, Geniale. 13 lezioni sull’arte di vivere e pensare, Fetrinelli, Milano, p. 203).

La ripetizione, che solitamente associamo alla noia e alla monotonia, è in grado di provocare i più grani cambiamenti in noi e nella nostra mente. Ma anche di promuovere le nostre migliori facoltà.

È nota la teoria di Anders Ericsson (The Role of Deliberate Practice in the Acquisition of Expert Performance, 1993) secondo cui sono necessarie 10.000 ore, pari a 10 anni, di esercizio disciplinato e ripetitivo per essere capaci di alte prestazioni in qualsiasi ambito professionale, dalla musica agli scacchi, dalla letteratura allo sport ecc.

Gli esempi sono numerosi.

Mozart è famoso per aver iniziato a comporre musica a sei anni. Tuttavia, le sue prime composizioni, spesso arrangiamenti di opere di altri compositori, non sono considerate eccezionali. Il primo concerto considerabile un capolavoro (n. 9, K 271) lo compose a ventun anni, quando si dedicava in maniera decisa alla composizione da ormai dieci anni. Anche per diventare campioni di scacchi servono quasi dieci anni. Soltanto il leggendario Bobby Fischer raggiunse quel livello in meno tempo: nove anni. Il fondatore di Microsoft, Bill Gates, era ossessionato dai computer, ma quando era studente erano macchine non accessibili ai “comuni mortali”. Per una serie di fortunate coincidenze, nel 1968, a partire dai 13 anni e per i restanti anni del liceo, riuscì a dedicarsi per migliaia di ore alla programmazione su un elaboratore della scuola (Polidoro, M., 2023, Geniale. 13 lezioni sull’arte di vivere e pensare, Feltrinelli, Milano, p. 211).

Anche le preghiere si basano spesso sulla ripetizione. Anzi, preghiere come il rosario fanno della ripetizione la loro cifra principale. Con quali effetti sulla mente e sul corpo?

Per scoprirlo rimando al mio: La Sacra Corona. Storia, sociologia e psicologia del rosario

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I limiti della criminologia televisiva

Nella nostra epoca massmediatica, i “criminologi televisivi” esercitano un indubbio fascino.

Si tratta, di solito, di uomini e donne, (presuntivamente) esperti in una qualche disciplina o che si autoattribuiscono competenze di qualche tipo, che sono periodicamente chiamati a commentare episodi efferati di cronaca nera. L’anfitrione televisivo di turno e il pubblico li ascoltano nemmeno fossero antichi oracoli greci. Si rivolgono a loro per capire i moventi profondi, le ragioni celate degli atti criminosi su cui sono invitati a commentare. Le loro parole sono accolte con una certa definitività. Il loro verbo è quasi sacro.

Eppure, la criminologia televisiva presenta numerosi limiti.

Innanzitutto, i criminologi televisivi basano le loro teorie e spiegazioni su notizie di cronaca costruite per fini giornalistici, non scientifici. I “dati” a loro disposizione non sono solitamente diversi da quelli di cui usufruisce lo spettatore medio. Non hanno condotto ricerche secondo i metodi della criminologia. Del resto, anche se volessero, non potrebbero, dal momento che sono chiamati a commentare a sangue caldo, a tambur battente per così dire. Le loro interpretazioni, in definitiva, non sono molto diverse da quelle dell’uomo (o donna) della strada.

Un altro limite è che la criminologia televisiva serve a fare spettacolo, non a informare. Non si pone finalità accademiche, ma contribuisce al circo mediatico che solitamente circonda ogni delitto efferato. Ciò che conta è produrre effetti, sensazioni, emozioni, brividi o indignazione. Perché sono questi che fanno vendere, che rendono appetibile il prodotto televisivo.

È, poi, da aggiungere che le interpretazioni dei fatti criminosi servono spesso a consolidare stereotipi diffusi o a trovare facili teste di turco da incolpare. Se, ad esempio, un reato viene compiuto da un giovane, partirà la solita reprimenda contro “i giovani d’oggi”, accusati di ogni misfatto. La generalizzazione è frequentemente convocata dai criminologi televisivi, che sanno di trovare il gradimento del grosso pubblico. Lo stesso si può dire di categorie che attirano facile biasimo. Mi riferisco a immigrati, tossicodipendenti, alcolisti, ludopatici, pirati della strada e altri suitable enemies. Anche qui, la generalizzazione è di casa e suscita riscontri positivi degli spettatori medi.

Tornando ai giovani, serpeggia tra i commenti dei criminologi televisivi un certo ageismo di fondo. Il criminologo televisivo è, di solito, una persona matura e (si presume) saggia. Giudica dall’alto della sua posizione sociale e valuta spesso in maniera negativa i giovani, accusati di essere privi di valori e regole, nonostante sia stato egli stesso (o essa stessa) giovane. Non tiene in considerazione il fatto che i ragazzi sono soggetti in età evolutiva e che, per definizione, non posseggono un sistema di valori forte e saldamente interiorizzato. Eppure li rimprovera proprio per questo.

Allo stesso modo, non tiene conto del fatto che le condotte giovanili sono di frequente più espressive che utilitaristiche, ossia rivolte a uno scopo “serio”. Accusa, dunque, gli atti dei giovani di essere privi di senso, anche se, in realtà, un senso ce l’hanno, sebbene non quello strumentale a cui gli individui “maturi” di solito dedicano la propria vita.

Questo tipo di generalizzazione fa sì che ogni comportamento giovanile sia etichettato come predatorio, violento, aggressivo, vandalico, secondo schemi moralistici che il pubblico televisivo condivide.

In questo modo, la spiegazione psicologica o sociologica è, in realtà, una spiegazione moralistica sotto mentite spoglie. Il criminologo televisivo è un moralista, travestito da psicologo, psichiatra, criminologo ecc.

Un’altra pecca del criminologo televisivo è che chiama in causa quasi sempre spiegazioni straordinarie per crimini particolarmente efferati e quindi straordinari. Un delitto inconsueto presuppone sempre moventi inconsueti e spiegazioni, possibilmente, monocausali. Il pubblico televisivo non apprezza spiegazioni complesse. Vuole conoscere immediatamente qual è la causa “unica” dell’evento e il criminologo televisivo sarà più che lieto di accontentarlo chiamando in causa, di volta in volta, l’assenza di valori, il deficit morale, la gelosia, l’invidia, o moventi più aggiornati come il “patriarcato”. Quando non si conosce bene la causa, si scomodano moventi ontologici, legati all’essenza: il colpevole è semplicemente cattivo.

Infine, raramente il criminologo televisivo considera il significato che l’episodio ha per i protagonisti. Il suo è uno sguardo patologizzante, ossia volto alla eliminazione, non alla comprensione del fenomeno. Del resto, se così non fosse perderebbe la chance di essere reinvitato in trasmissione. Il responsabile deve essere inquadrato sempre secondo un’ottica “mostruosa”. È il diverso per eccellenza in cui il bravo borghese non deve avere agio di identificarsi.

I criminologi televisivi sono moralisti votati al trionfo dello spettacolo del male per interessi televisivi. La loro criminologia non ha nulla a che vedere con la criminologia scientifica.

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Come da un inno nacquero le note musicali

In sociologia è comune parlare di “funzioni latenti” (Merton) o di “effetti perversi” (Boudon) dell’agire sociale. Con questi termini si intende il fatto che i comportamenti degli individui producono talvolta effetti non previsti, sia desiderabili sia indesiderabili, che hanno delle conseguenze importanti sulla società. Un esempio, fornito da Boudon, riguarda l’istruzione di massa. Negli anni Sessanta del XX secolo, quando questa fu messa in atto nei paesi occidentali, l’obiettivo era che contribuisse ad aumentare la mobilità sociale attraverso, appunto, l’aumento dell’istruzione. In realtà, come oggi sappiamo, l’aumento del livello di istruzione non genera mobilità sociale. Se tutti hanno un’istruzione superiore, si crea un’inflazione di titoli che non trova corrispettivo nel numero di occupazioni superiori disponibili nella società. Si creano dunque disoccupati, aspettative frustrate e sottoccupazione.

Le conseguenze inattese, però, non sono sempre e comunque negative. A volte, possono essere positive. Lo dimostra la storia della nascita delle note musicali.

Non molti sanno che le note musicali – Do, Re, Mi, Fa Sol, La, Si – furono un “effetto perverso” di un inno religioso, Ut queant laxis, scritto da Paolo Diacono (720-799). Ut queant laxis è l’inno liturgico dei Vespri della solennità della natività di San Giovanni Battista che ricorre il 24 giugno. Ecco il testo:

(LA)

«Ut queant laxis

Resonare fibris

Mira gestorum

Famuli tuorum

Solve polluti

Labii reatum

Sancte Iohannes»

(IT)

«Affinché possano cantare

con voci libere

le meraviglie delle tue gesta

i servi Tuoi,

cancella il peccato

dal loro labbro impuro,

o San Giovanni»

Fu Guido d’Arezzo (991-1045) a ricavare le sette note a noi conosciute dalle prime sillabe di ciascun verso – Ut-Re-Mi-Fa-Sol-La – dell’inno con “Ut” che, in seguito divenne “Do”, mentre “Si” fu aggiunta solo nel 1482 da Bartolomé Ramos de Pareja (1440-1522).

Questa storia ci insegna due cose.

La prima è che le “invenzioni” spesso hanno origine da fonti e ambiti insospettabili. Chi penserebbe mai, ad esempio, di ricavare delle notazioni musicali da un inno religioso?

La seconda è che le forme culturali non nascono già “adulte” ma evolvono e si modificano nel tempo, come dimostra la storia delle note musicali (pochi sanno che “Do” prima si chiamava “Ut” e che “Si” è stata aggiunta solo in un secondo momento), ma anche la storia di importanti preghiere come l’Ave Maria e il rosario di cui parlo nel mio ultimo libro La Sacra Corona. Storia, sociologia e psicologia del rosario, che, ovviamente, vi invito a leggere.

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“Sono fatto così!”

Nel capitolo XXV dei Promessi sposi, Alessandro Manzoni fa esclamare a Don Abbondio impegnato in dialogo con il cardinale Borromeo: «Il coraggio, uno non se lo può dare». Come dire: “Che cosa ci posso fare se sono un codardo? Sono fatto così!”. E a nulla valgono le rimostranze del cardinale secondo cui «in codesto ministero, comunque vi ci siate messo, v’è necessario il coraggio, per adempir le vostre obbligazioni». Il silenzio vergognoso del parroco rafforza il senso delle sue prime parole. La frase «Il coraggio, uno non se lo può dare» diventa la certificazione della immodificabile, insanabile pusillanimità del curato più famoso della letteratura italiana.  

Il personaggio manzoniano non è l’unico a giustificare i propri difetti con la frase “Sono fatto così”. Anzi, come dice Marco Presta in Un calcio in bocca fa miracoli (p. 27), «“Sono fatto così” è la giustificazione che tutti usiamo quando, sorpresi a fare una puttanata, vogliamo continuare a farla».

Così, diciamo: “Non sono portata per la matematica/per le lingue. Sono fatta così” per dare un senso ai nostri fallimenti scolastici e non sforzarci di imparare.

Diciamo: “Sono timido/introverso/riservato. Non posso farci niente” per giustificare le nostre difficoltà relazionali.

Diciamo: “Sono un imbranato a calcio/disegno/recitazione. Lo sono sempre stato” per rafforzare la nostra inerzia e trovare una scusa per non cambiare.

Diciamo: “Sono svagata/irresponsabile/disorganizzata. Lo sono per natura” per non impegnarci a essere responsabili e maturi. Del resto, se è scritto nei nostri geni, che cosa possiamo farci?

Il luogo comune “Sono fatto così” diviene così una stampella a cui aggrapparci per non cambiare, per evitare un certo tipo di attività, per rendere plausibile un difetto, per sfuggire alle nostre responsabilità, per scansare la fatica e il pericolo inerente al tentativo di modificare la nostra condotta, per evitare di metterci in discussione. Con il rischio di perpetuare ad infinitum un comportamento sgradevole, producendo una “profezia che si autoavvera”. Così, ad esempio, una ragazza che va a una festa convinta di essere timida, si comporterà come se lo fosse davvero, e questo comportamento rafforzerà ulteriormente l’immagine negativa che ha di sé, inibendole possibilità di socializzazione; inibizione che, a sua volta, consoliderà la sua timidezza, portando a compimento il circolo vizioso (Dyer, 1977, pp. 72-77).

Il guaio è che la convinzione espressa dalla frase “Sono fatto così” pone un problema non solo a noi, ma anche a chi ci circonda. Quanti matrimoni sono falliti perché traditrici seriali, giocatori d’azzardo compulsivi e fannulloni cronici hanno giustificato le loro condotte deleterie con la fatidica scusa “Sono fatto/a così”? Quante volte, nel corso di confronti con partner, genitori, amici, colleghi che fanno notare le nostre mancanze, obiettiamo, anche con aggressività: “Non posso cambiare”; “Vado bene così come sono”; “Se non ti sto bene, è un problema tuo”; “Sono così da sempre”?

E tutto questo per timore di cambiare.

Certo, cambiare non è semplice. Al di là della facile retorica ottimistica dei manuali di self-help, la verità è che cambiare vuol dire uscire dalla propria comfort zone (termine al momento tremendamente di moda), rinunciare ad abitudini inveterate, assumere un atteggiamento diverso nei confronti della vita, non cedere alla tentazione sempre incombente di fare solo ed esclusivamente i propri comodi.

Cambiare significa anche imparare ad ascoltare l’altro (“attivamente”, come si usa dire nel gergo della psicologia), prestare attenzione alle sue esigenze, soddisfare le sue richieste. Dicendo: “Sono fatto così” erigiamo un muro, teniamo a distanza ogni possibilità di dialogo, inventiamo una retorica dell’impossibilità che è tutta nella nostra testa, indossiamo una maschera dietro la quale ci rifugiamo per evitare di assumerci responsabilità.

Inoltre, ripetere in continuazione “Sono fatto così” nelle sue innumerevoli varianti ci condanna all’inerzia, alla ripetizione disperata degli stessi schemi di vita, alla ossessiva riproposizione delle stesse routine quotidiane, addirittura alla credenza infondata secondo cui non solo noi, ma neppure le cose nel mondo non potranno mai cambiare. Un incubo che, però, spesso preferiamo al cambiamento perché, come detto, cambiare è difficile. “Sono fatto così” è paragonabile allora a un meccanismo di difesa dai pericoli della vita, una forma di rassicurazione dalla paura di fallire, e forse anche dal timore di vincere e migliorare la propria esistenza.

Le cose si complicano quando “Sono fatto così” diventa “Lui/Lei è fatto/a così”, ossia quando congeliamo l’altro/a in una etichetta inscalfibile e perpetua per cui “Tizio è un pessimista”, “Caio è un pettegolo”, “Lucrezia è incapace di avere una relazione stabile”. Spesso non ce ne rendiamo conto, ma, così facendo, attestiamo indubitabilmente che l’altro/a è così e non altrimenti, con il rischio di produrre catastrofiche profezie che si autoavverano – se per noi l’altro non è in grado di sostenere un carico di lavoro impegnativo perché “è fatto così”, il fatto che il bersaglio del nostro giudizio continui a occuparsi di mansioni poco faticose non gli permetterà di acquisire le necessarie competenze per occuparsi di compiti più complessi, finendo con il confermare l’assunto squalificante di partenza – e veri e propri comportamenti discriminatori o di disapprovazione morale.

Infine, “Sono fatto così” può divenire, in alcuni casi, “Si è sempre fatto così”. L’esempio più vivido è offerto dalla cosiddetta “cultura del precedente” in voga nelle pubbliche amministrazioni, nelle quali l’apprendimento lavorativo si basa spesso sull’imitazione pedissequa di ciò che fanno (e hanno sempre fatto) i colleghi anziani.

Si tratta di un comportamento antico, che risale agli albori della pubblica amministrazione, quando alcune consuetudini, alle quali si ispiravano dirigenti, funzionari e impiegati per risolvere problemi, divennero ben presto leggi ferree alle quali tutti dovevano attenersi a dispetto di ogni irrazionalità o incongruenza. È così che nacque l’archetipo dell’impiegato che osserva irriflessivamente la procedura burocratica, anche se inadeguata o farraginosa al contesto, con la conseguenza di sviluppare tunnel mentali che rendono virtualmente impossibile sperimentare nuove soluzioni o adeguarsi ai tempi.

Il sociologo americano Robert K. Merton definì “incapacità addestrata” il fenomeno per cui «azioni basate sull’addestramento e l’abilità tecnica, che in passato avevano dato un risultato positivo, possono risultare in risposte inappropriate sotto mutate condizioni» (Merton, 1970, pp. 407-408). È quello che succede quando si agisce in un modo perché “si è sempre fatto così”, perseverando in condotte che forse erano adatte un tempo, ma che, nel presente, non hanno più senso di esistere.

È l’ossequio all’abitudine, a quel benedetto avverbio “sempre”, a illuderci che le cose abbiano bisogno immancabilmente della medesima soluzione a dispetto di tempi e ambienti diversi. Un luogo comune perniciosissimo a cui cediamo fin troppo volentieri e che talvolta eleggiamo addirittura a massima di vita lavorativa.

“Sono fatto così”; “Lui/Lei è fatto/a così”; “Si è sempre fatto così” sono credenze, convinzioni, certezze che dovrebbero essere eliminate dal nostro lessico quotidiano perché impongono una visione rigida, immobile, ingessata alla nostra esistenza, impedendoci di viverla nella sua complessità e di cambiare in ragione di situazioni, tempi, luoghi e persone diverse.

Riferimenti

Dyer, W. W., 1977, Le vostre zone erronee. Guida all’indipendenza dello spirito, Rizzoli, Milano.

Merton, R. K., 1970, “Struttura burocratica e personalità” in Idem, Teoria e struttura sociale, vol. II, Il Mulino, Bologna.

Presta, M., 2014, Un calcio in bocca fa miracoli, Einaudi, Torino.

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L’importanza (pratica e culturale) delle lingue

Si sa che conoscere le lingue è importante. Essere in grado di parlare una lingua (o più lingue) diversa dalla propria consente di avere accesso a livelli di conoscenza, opportunità di socializzazione, di viaggio, di lavoro, perfino sentimentali, indubbiamente superiori rispetto a chi padroneggia solo la lingua madre.

Parlare lingue straniere significa avere il privilegio di incontrare culture altre, persone altre, modi di pensare altri in rapporto diretto, senza traduttori o interpreti o altri mediatori.

Significa avere un vantaggio competitivo, ricevere un dono esistenziale, acquisire un utile da reinvestire in tanti guadagni successivi.

Spesso significa anche salvare la propria vita o quella di altri.

Non sto esagerando. Lo testimonia un passaggio di un libro del grande scrittore bulgaro naturalizzato britannico, e di lingua tedesca, Elias Canetti (1905 – 1994), il quale così ricorda un episodio della sua vita:

Delle lingue si discuteva spesso, solo nella nostra città si parlavano sette o otto lingue diverse e tutti capivano qualcosa di ciascuna, soltanto le ragazzine che venivano dai villaggi non sapevano che il bulgaro e per questo erano considerate stupide. Ognuno enumerava le lingue che conosceva, era importante padroneggiarne parecchie, con la conoscenza delle lingue si poteva salvare la propria esistenza e anche quella degli altri.

… una volta il nonno di mia madre, mentre era a dormire in coperta [su un battello del Danubio], aveva udito due uomini che parlottando tra loro in greco, stavano progettando un omicidio. Non appena il battello si fosse avvicinato alla prossima città, avevano in mente di assalire un mercante nella sua cabina, ucciderlo, rubargli la sua grossa borsa piena di soldi, gettare il cadavere nel fiume attraverso l’oblò e poi, quando il battello avesse attraccato, scendere rapidamente a terra e scappare. Il mio bisnonno era andato dal capitano e gli aveva raccontato quel che aveva udito in greco. Il mercante fu messo in guardia, un uomo dell’equipaggio si nascose segretamente nella sua cabina, altri ancora vennero appostati nei dintorni, e quando i due delinquenti arrivarono per compiere la loro impresa, subito furono agguantati. Giunti al porto, dove volevano svignarsela con il bottino, vennero invece consegnati in catene nelle mani della polizia. Questo, per esempio, era potuto succedere perché il bisnonno capiva il greco, ma di storie edificanti che riguardavano le lingue ce n’erano molte altre (Elias Canetti, 2003, La lingua salvata, Adelphi, Milano, p. 46).

Conoscere lingue diverse dalla nostra vuol dire, dunque, anche riuscire a penetrare nella vita intima di chi ci è estraneo, portare alla luce i suoi segreti più reconditi, al limite, come nel caso citato da Canetti, rivelare le intenzioni malvage di chi crede che gli altri non lo capiscano perché stranieri.

A volte, la lingua può essere un grimaldello verso la salvezza, una luce nel buio, un’arma di difesa. Ciò vale anche per le cosiddette “lingue morte”, codici cifrati verso dimensioni ormai passate, ma sempre vive e attuali, soprattutto diverse dalla nostra, e di cui dovremmo apprezzare soprattutto la alterità.

Tutto questo mentre imperversa la cancel culture e il pericolo che tutto ciò che è altro perché appartenente ad altre culture – del passato come del presente – debba essere rimosso solo perché non in linea con le idee di alcuni contemporanei.

Penso che l’aspetto più importante dell’apprendimento delle lingue oggi debba essere non l’utilità commerciale o strumentale, ma la loro capacità di proiettarci in dimensioni diverse dalla nostra in cui possiamo perderci, almeno per un po’, e dimenticare il ruolo a cui ci obbliga la nostra lingua madre.

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Perché non rimaniamo a casa?

Perché le persone vanno in vacanza? Che cosa le spinge ad allontanarsi da un ambiente familiare e confortevole per intraprendere viaggi lunghi e disagevoli vero mete sconosciute? E che cosa traggono da queste esperienze? Conoscenze? Relax? Divertimento? Curiosità soddisfatte? Modi di vivere alternativi?

Per l’inglese Aldous Huxley (1894-1963), il celebre autore di Brave New World (1932), Island (1962) e The Doors of Perception (1954), la risposta al perché le persone vanno in vacanza è semplice: per imitazione (ed emulazione). In particolare, per imitazione di quello che fanno le persone migliori di loro. È questa la molla che spinge milioni di individui nel mondo a sperimentare situazioni che non sperimenterebbero mai in patria, al solo scopo di vedere accresciuto il proprio status sociale e di farlo valere nei confronti di chi non mette mai il becco fuori di casa.

Viaggiare è un booster sociale: chi viaggia con una certa frequenza appare diverso agli occhi di chi non viaggia. Inoltre, ha mille argomenti di cui parlare e con cui intrattenere i suoi amici sedentari. Loro non sanno, ma il viaggiatore sa. E poco importa se i suoi racconti sono vistosamente ricamati, imbellettati, sofisticati; se i suoi inevitabili intervalli di noia si trasformano in periodi di interesse e divertimento ininterrotti; se, al di là dei confini natii, tutto appare “troppo” meraviglioso, magico “aureolato”. Del resto, al di là dei racconti, ci sono foto e video, in cui i protagonisti sono sempre sorridenti, soddisfatti e ammiccanti, ad attestare la verità delle pretese del viaggiatore.

Il viaggiatore per imitazione (emulazione) valorizza gli stereotipi correnti sui luoghi che visita, confermandoli e rafforzandoli. Così, se la profezia iniziale vuole che Londra sia fantastica, Londra finirà con l’essere effettivamente tale nei racconti ratificanti spacciati dai veterani del viaggio che, ovviamente, trascureranno gli intermezzi noiosi, le banalità incontrate, le difficoltà vissute, le esperienze ordinarie a favore di una narrazione coerentemente idilliaca, mitologica, straordinaria, degna delle migliori guide patinate sull’argomento. In questo modo, la realtà si trasfonderà in mito e l’altrove sfuggirà per sempre dal timore di essere mediocre, uguale a ogni altro posto sulla faccia della terra. Gli altri saranno sempre migliori; i luoghi del viaggio sempre più significativi dei luoghi domestici; le abitudini altrui sempre più interessanti delle proprie.

Simbolo di tutto questo è la illustre Sirenetta situata all’ingresso del porto di Copenaghen: scultura anonima, misera, mediocre come poche, eppure celebrata da chi l’ha vista dal vivo nemmeno fosse un’opera d’arte. È proprio il caso di dire che la narrazione della Sirenetta è molto più interessante della statua reale.

Il turista opera una reductio a pochi tratti significativi dei posti che visita; reductio rispetto alla quale i locali sono vocati a conformarsi, pena la delusione dell’ospite. Un napoletano che non gradisca o offra con orgoglio la sfogliatella o che non mostri riverenza nei confronti di san Gennaro è l’incubo di ogni tour operator, chiamato, per mestiere, a (di)mostrare ai suoi clienti quanto stretta sia la relazione tra quello che declama nei suoi opuscoli e la realtà vissuta dal viaggiatore che di quegli opuscoli è il lettore ideale. L’oscenità odeporica del napoletano autentico a cui non piace la pizza margherita fa sbandare la bussola cognitiva del turista, che si trova così nudo di fronte alla complessità irriducibile della vita.

Paradossalmente, l’unica esperienza autentica possibile per il viaggiatore sarebbe proprio la delusione: il disappunto della non coincidenza tra quanto promesso dai testi sacri delle guide e quanto sperimentato dall’incontro con l’indigeno di turno. Il disinganno è l’apriti sesamo di una realtà “reale” non riconducibile a pochi stereotipi liofilizzati tra le pagine dell’ennesimo dépliant dell’Ufficio informazioni. È trasgressione del prevedibile; violazione dell’attesa; affronto alla credenza interiorizzata dal turista.

Ma è proprio questo che il turista non vuole. Ciò che importa non è quello che si è vissuto “oltre confine”, ma come lo si riporta ai connazionali, convocati irrimediabilmente in qualità di testimoni per corroborare con il loro stupore (e la loro invidia) la grande impresa compiuta. La verità, come detto, è che viaggiare porta sempre con sé un forte elemento di delusione: la realtà visitata è sempre meno luccicante di quella immaginata. Ma non appena si torna a casa, quella patina sfavillante si ricompone nei commenti dei protagonisti fino a rimpiazzare la realtà “reale” del vissuto turistico. Una finzione, come altre, che contribuisce a fissare e confermare le gerarchie che la società ci impone fin dalla nascita.

Ovviamente, molte cose sono cambiate dai tempi di Huxley. Il turismo a cui fa riferimento lo scrittore britannico è quello elitario delle classi superiori – aristocratiche e borghesi – della Gran Bretagna degli anni Venti del XX secolo. Niente a che fare con l’odierno turismo low cost di massa che, sempre più, assume i contorni di un comportamento che risponde soprattutto a finalità di “consumo dislocato”, ossia semplicemente spostato in altri luoghi, e di “consumismo compensatorio”, ossia un consumismo che serve a compensare le frustrazioni e le alienazioni della vita contemporanea, in particolare, quelle che maturano in ambiente lavorativo.

Data l’inconsistenza e la mancanza di senso di molti lavori della contemporaneità, non a caso ribattezzati con il nomignolo Bullshit Jobs (che dà anche il titolo a un suo libro, pubblicato nel 2018), ossia “lavori di merda”, dall’antropologo e attivista anarchico americano David Graeber (1961-2020), non sorprende che si tenti di realizzarsi seguendo strade alternative, le quali, però, non sfuggono all’imperativo erculeo dei nostri giorni, quello che si riassume nel verbo “consumare”. Qualsiasi tipo di attività, nella società odierna, implica il consumo e le classi alienate che la abitano possono solo sperare di trarre un significato compensativo da quello che consumano. Un significato ovviamente illusorio, perché sempre di consumo si tratta, ma un consumo di tipo evasivo, lotofago, rimozionale che, almeno per lo spazio di pochi giorni, ci fa dimenticare i nostri “lavori di merda”, rigenerando le forze appassite per offrirle nuovamente in olocausto ai nostri “padroni di merda”, in un ciclo infinito di spossatezza-rigenerazione-spossatezza che è solo “funzionale al sistema”, come si sarebbe detto qualche anno fa.

Il viaggio finisce, dunque, per essere oggi quella sostanza euforizzante che lo stesso Huxley, in Brave New World, denominava “soma”, unica droga in grado di anestetizzarci nei confronti della realtà insopportabile imposta dal sistema turbocapitalistico in cui viviamo e rimetterci in sesto per tollerare quote sempre più tediose e alienanti di realtà.

Le ossessioni odeporiche contestate da Huxley come un vizio belluino sono diventate oggi una necessità che permette la sopravvivenza sia della società dei consumi da noi abitata sia di noi stessi, schiavi perenni di occupazioni senza senso che, sempre più, prendono possesso della nostra esistenza, invadendola come milizie di conquista. A questa invasione mortificante, questa colonizzazione in pianta stabile del nostro tempo, delle nostre energie e del nostro immaginario, rispondiamo talvolta con il viaggio, che non serve – lo nota bene Huxley – ad allargare le nostre menti provinciali, a stimolare la nostra immaginazione inceppata, a educarci a un pensiero liberale, ma semplicemente a dimenticare chi siamo e che cosa facciamo su questo pianeta.

Perché obliare il dolore è quanto di più meritevole possa donarci il viaggiare (o, se per questo, il leggere un libro o il vedere un film). Anche se siamo bravi a scovare ogni sorta di razionalizzazione per giustificare e legittimare questa forma di smarrimento dalla vita nel nome della cultura, dell’istruzione, dell’edificazione e di chissà quante altre idee che il nostro senso comune apprezza tanto.

Invito a leggere qui il saggio di Huxley Perché non rimanere a casa? nella versione da me introdotta e tradotta.

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Che cos’è la liberta?

Come tante nozioni ad elevato livello di astrazione, “libertà” ha in sé un’ambiguità interpretativa che la rende facilmente preda di populisti e demagoghi.

Da un lato, è un termine dalla connotazione immediatamente e universalmente positiva: a tutti piace essere liberi, tutti amano la libertà. È ovvio. È scontato. D’altro lato, a tale connotazione positiva sono associati significati diversissimi che, rivestendosi dell’alone positivo comunicato dalla connotazione, possono essere “manipolati” e presentati positivamente ai destinatari del messaggio politico secondo le convenienze demagogiche di turno.

Sulla polisemia del termine “libertà” ha scritto parole molto interessanti – e poco citate, mi sembra – Montesquieu ne Lo spirito delle leggi. È il caso di riportarle integralmente:

Non vi è parola che abbia ricevuto maggior numero di significati diversi, e che abbia colpito la mente in tante maniere come quella di libertà. Gli uni l’hanno intesa come la felicità di deporre colui a cui avevano conferito un potere tirannico; gli altri, come la facoltà di eleggere quelli a cui dovevano obbedire; altri ancora, come il diritto di essere armati e di poter esercitare la violenza; altri infine come il privilegio di non essere governati che da un uomo della propria nazione, o delle proprie leggi. Certo popolo ha preso per molto tempo la libertà per l’uso di portare una lunga barba. Alcuni hanno dato questo nome a una forma di governo e ne hanno escluso le altre. Coloro che avevano gradito il governo repubblicano, l’hanno messa nella repubblica; quelli che avevano goduto del governo monarchico, nella monarchia. Infine ciascuno ha chiamato libertà il governo conforme alle proprie consuetudini o alle proprie inclinazioni; e siccome in una repubblica non si hanno sempre davanti agli occhi, e in maniera tanto immediata, gli strumenti dei mali di cui ci si lamenta, e perfino le leggi sembrano parlarvi di più e gli esecutori della legge parlarvi di meno, la si pone generalmente nelle repubbliche, e la si esclude dalle monarchie. Infine, siccome nella democrazia sembra che il popolo faccia più o meno quello che vuole, la libertà è stata collocata in questo genere di governo, e si è confuso il potere del popolo con la libertà del popolo.

È vero che nelle democrazie sembra che il popolo faccia ciò che vuole; ma la libertà politica non consiste affatto nel fare ciò che si vuole. In uno Stato, vale a dire in una società dove ci sono delle leggi, la libertà può consistere soltanto nel poter fare ciò che si deve volere, e nel non essere costretti a fare ciò che non si deve volere.

Bisogna fissarsi bene nella mente che cosa è l’indipendenza, e che cosa è la libertà. La libertà è il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono; e se un cittadino potesse fare quello che esse proibiscono, non vi sarebbe più libertà, perché tutti gli altri avrebbero del pari questo potere (Montesquieu, 1989, Lo spirito delle leggi, BUR, Milano, vol. I, pp. 307-308).

Montesquieu lo mette bene in evidenza: “libertà” può significare tutto e il suo contrario. Può significare la libertà di possedere armi come quella di vivere in un mondo privo di armi. La libertà di scegliere i propri governanti, come quella di essere governati da un despota. La libertà di vivere in una società monoculturale, come quella di vivere in una società multiculturale.

Secondo gli intenti propagandistici, può essere convocato questo o quel significato del termine ed esaltato per aizzare le folle o assoggettarle bovinamente nel nome della medesima idea. Al limite, perfino la schiavitù può essere concepita come una forma di libertà dalla “fatica” di essere autonomi, indipendenti, responsabili.

“Lasciate a noi il comando delle vostre vite. Siate liberi!”. Sembra paradossale, ma, a pensarci, non riceviamo forse quotidianamente centinaia di ingiunzioni a cedere la nostra libertà di pensiero a favore di soggetti o enti che pretendono di pensare al nostro posto? Non ci viene chiesto continuamente di essere liberi… cedendo quote della nostra libertà?

“La pace è guerra, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza”, declama George Orwell in 1984. Ma l’asservimento volontario a enti e organizzazione che dominano la nostra vita in cambio di una parvenza di libertà è forse ciò che maggiormente caratterizza l’epoca del turbocapitalismo in cui viviamo.

Orwell è già tra noi. La libertà è già schiavitù.

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