Le emozioni che proviamo sono davvero “autentiche” e “spontanee”? Quando proviamo un’emozione, lo facciamo in piena libertà e autonomia? Possiamo dire che le emozioni scaturiscono solo e unicamente dai recessi più intimi del nostro essere?
Secondo la sociologia delle emozioni, la risposta è un sonoro “no”. Ogni società, infatti, impone ai suoi membri “regole del sentire” (feeling rules) e “regole di espressione” (display rules). Le prime ci dicono che cosa provare in ogni data situazione sociale. Le seconde ci dicono come e se esprimere le emozioni oppure modificarle con altre più adeguate alle caratteristiche del contesto in cui agiamo. Le emozioni, dunque, non scaturiscono da un semplice processo fisiologico. La società plasma ogni nostro sentire e, perfino, ogni nostro modo di manifestare il nostro sentire.
Una delle conseguenze di tali assunti sociologici è che non dobbiamo mai compiere l’errore di associare il concetto di verità a una manifestazione emotiva. Non possiamo parlare di emozioni vere o autentiche perché il nostro sentire è sempre subordinato a regole del sentire e regole di espressione. Perfino quando crediamo di essere trasportati da un sentimento estremamente intenso, come l’amore “più sincero”, in realtà paghiamo tributo a norme che la società ci impone fin dalla nascita.
Ci sono poi situazioni in cui gli individui sono chiamati, per ragioni professionali o di altro genere, a compiere un vero e proprio “lavoro emozionale” (emotional labour) ossia uno sforzo sulla messa in forma delle proprie emozioni. Si pensi a un’infermiera dell’ospedale chiamata a negare al parente di un ricoverato l’accesso a un reparto in orario non consentito, esibendo un sorriso di comprensione. Oppure a un’assistente di volo tenuta, per contratto, a manifestare sempre una calda e positiva cordialità ai passeggeri dell’aereo su cui presta servizio. Nei due casi citati, l’infermiera e l’assistente di volo non possono non essere cortesi nei confronti dei loro rispettivi “clienti” poiché rischierebbero denunce e richiami.
Stesso discorso riguarda i politici di professione, che hanno “l’obbligo” di mettere in scena le forme di manifestazione emotiva più adeguate al contesto in cui si trovano per ottenere voti e consenso. Più ciò avviene in maniera intensa e coinvolgente, più comunicheranno ai loro interlocutori una sensazione di autenticità. Per non parlare di attori di cinema e teatro e protagonisti di talk show. L’errore più grande è quello di pensare che questi soggetti esprimano autenticamente le proprie emozioni durante le loro attività o che esibiscano le stesse forme di manifestazione emotiva una volta usciti dal ruolo.
La tentazione di attribuire agli altri stati emotivi che essi sono chiamati a mostrare in ragione delle loro attività è fortissima e genera equivoci infiniti. Ad esempio, ci si meraviglia che l’attore dal sorriso caldo e smagliante sullo schermo sia denunciato dalla moglie per maltrattamenti. O che il politico così coinvolgente in campagna elettorale sia arrestato per corruzione.
La verità è che nessuna manifestazione emotiva è, di per sé, autentica nel senso di puramente individuale. La società ci condiziona perfino quando ridiamo, piangiamo, ci sentiamo contenti o tristi, proviamo rabbia o gioia, sofferenza o felicità. E l’intensità dell’emozione esibita non dovrebbe mai essere assunta come indicatrice di stati d’animo genuini, per quanto in buona fede essi siano manifestati.
È un duro colpo per chi crede nella bontà dei sentimenti. Ma anche questi – ci insegna la sociologia – sono mediati dall’influenza della società.
Riferimento:
Cerulo, M., 2018, Sociologia delle emozioni, Il Mulino, Bologna, cap. 5 e pp. 180-185.
I numeri caratterizzano e definiscono le nostre vite come mai in passato. La quantificazione dei fenomeni sociali – dall’istruzione alla povertà, dal lavoro al tempo libero, dalla sessualità alle attività amministrative – è talmente pervasiva da essere data per scontata. Eppure, avvertono i sociologi Espeland e Stevens nel loro pioneristico “A Sociology of Quantification”, la quantificazione, intesa come la produzione e la comunicazione di numeri, e le sue conseguenze sull’organizzazione e sulla vita moderna, è stata raramente esaminata da un punto di vista sociologico.
Se l’attenzione (e la preoccupazione) per l’accuratezza dei numeri prodotti è un aspetto costante di ogni organizzazione che si occupi di produrre cifre, minore attenzione è volta alle implicazioni sociali di tale “numerificazione” della vita quotidiana.
Si pensi, ad esempio, alla demografia. Se essa ha il compito di fornire una rappresentazione quanto più precisa possibile delle dimensioni delle popolazioni nazionali, una delle sue conseguenze è quella di creare categorie ad hoc di cittadini, cui viene spesso attribuito uno status ontologico e che sono oggetto costante di politiche di vario tipo. Le statistiche fornite dalla demografia non servono solo a “contare” i cittadini, ma ad assumere provvedimenti nei loro riguardi, a confrontare categorie con categorie, a individuare bacini elettorali e target pubblicitari ecc.
I numeri possono, inoltre, essere utilizzati come segni distintivi (marks) e come strumenti di misurazione per produrre valutazioni di ogni tipo. Si pensi ai prezzi delle merci, che servono a valutare il valore di beni e servizi, al conteggio dei voti, che consente la vittoria ad alcuni schieramenti politici a scapito di altri, al sistema dei voti scolastici, che consente di valutare il rendimento degli studenti. In tutti questi casi, una delle conseguenze più diffuse è la cristallizzazione, se non la feticizzazione, del numero a scapito di ciò che il numero dovrebbe misurare.
Un esempio su tutti è fornito proprio dal sistema dei voti scolastici. Da un lato, essi dovrebbero consentire di valutare in maniera “oggettiva” l’apprendimento e la cultura degli studenti. Tutti sanno, però, che essi finiscono con il diventare un obiettivo in sé con la conseguenza paradossale che non importa ciò che si è effettivamente imparato, ma il voto raggiunto, spesso espressione della conformità a procedure didattiche prestabilite o dell’adesione a programmi stabiliti dal ministero.
Oppure, si pensi al conteggio dei like ricevuti sui social, ritenuto un indicatore di qualità, ma, in realtà, indice di popolarità o di uso sapiente dei social stessi.
Quando il numero diviene fine a se stesso, si genera una forma di patologia che il sociologo americano Otis Dudley Duncan, in relazione alla statistica, definisce “statisticismo”, ossia:
l’idea che numero sia sinonimo di ricerca, l’ingenua fede che la statistica sia uno strumento completo o sufficiente per fare metodologia scientifica, la superstizione che esistano formule statistiche per valutare cose come i meriti relativi di diverse teorie sostanziali o l’“importanza” delle cause di una “variabile dipendente”; e l’illusione che la scomposizione delle covariazioni di un insieme arbitrario e casuale di variabili possa in qualche modo giustificare non solo un “modello causale” ma anche un “modello di misurazione (Duncan 1984, Notes on Social Measurement: Historical and Critical (New York, Russell Sage Foundation, p. 226).
Espeland e Stevens pongono in risalto anche un altro aspetto. La produzione e la comunicazione di numeri richiede l’istituzione di grossi apparati burocratici e organizzativi composti da personale adeguatamente formato, il cui lavoro è interamente dedicato a questo scopo. La quantificazione richiede, dunque, il possesso di precise competenze numeriche, acquisite, solitamente, nell’ambito di precisi percorsi didattici, e forme di cooperazione e controllo non dissimili da quelle che si hanno in altre organizzazioni.
I numeri forniscono anche una forma di legittimazione a scelte di ogni tipo – politiche, didattiche, culturali, economiche ecc. – in un modo che è oggi considerato assolutamente imprescindibile. Chiunque si rispetti ha bisogno di appoggiare argomentazioni, opinioni e tesi su statistiche, calcoli, grafici, forma di “garanzia retorica” paragonabile alle “garanzie” che, qualche tempo fa, fornivano i testi sacri della religione. Tale legittimazione conferisce ai numeri una forza persuasiva unica che demagoghi e pubblicitari conoscono bene.
I numeri forniscono anche un linguaggio comune per porre a confronto strategie, tesi, opinioni che non potrebbero che essere espressi in forma “qualitativa” e, quindi, non comparabile. Ad esempio, la quantificazione consente di conformarsi a standard predefiniti che consentono di pervenire agevolmente a valutazioni di ogni genere.
Le misurazioni numeriche agiscono anche sul modo in cui gli individui pensano e si comportano. Trasformando qualità in quantità, creano nuovi “oggetti” e nuove relazioni tra oggetti. Quando, ad esempio, Kinsey nel 1948 affermò che il 37% dei maschi bianchi da lui intervistati avevano avuto almeno una esperienza omosessuale nella loro vita “creò” una nuova categoria di individui che influenzò sensibilmente l’evoluzione dei moderni movimenti per i diritti delle persone omosessuali, fornendo una legittimazione statistica alle richieste degli stessi.
I numeri, infatti, tendono a creare categorie di individui dai confini più nitidi e meno incerti di quanto accada nella realtà, per cui sfumature e processi graduali acquistano improvvisamente una nettezza che prima non possedevano. Allo stesso tempo, tale nettezza esercita una funzione “disciplinante” nei riguardi dei membri di tali categorie, conferendo loro tratti distintivi precisi e richiedendo loro di conformarsi a tali tratti in maniera ordinata e coerente, pena l’accusa di devianza.
Come si vede i numeri sono più di un semplice strumento di individuazione o misurazione. Essi hanno implicazioni sociali notevolissime, che spesso comportano conseguenze di assoluto rilievo di cui non abbiamo consapevolezza. Di qui l’utilità di una sociologia della quantificazione che, al momento, sta compiendo solo i primi passi.
Fonte:
Espeland, W. N., Stevens, M. L., 2008, “A Sociology of Quantification”, European Journal of Sociology, vol. 49, n. 3, pp. 401-436.
Il 14 maggio 2024 è stato pubblicato nella Gazzetta ufficiale il D. Lgs. 3 maggio 2024, n. 62 riguardante la definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base, di accomodamento ragionevole, della valutazione multidimensionale per l’elaborazione e attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato. Il decreto rappresenta il terzo intervento normativo di attuazione della legge delega in materia di disabilità 22 dicembre 2021, n. 227.
In questa sede, non mi interessa analizzare interamente il contenuto di questo importante decreto, ma semplicemente proporre alcune osservazioni sull’art. 4, intitolato “Terminologia in materia di disabilità” che recita:
A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto:
a) la parola: «handicap», ovunque ricorre, è sostituita dalle seguenti: «condizione di disabilità»;
b) le parole: «persona handicappata», «portatore di handicap», «persona affetta da disabilità», «disabile» e «diversamente abile», ovunque ricorrono, sono sostituite dalle seguenti: «persona con disabilità»;
c) le parole: «con connotazione di gravità» e «in situazione di gravità», ove ricorrono e sono riferite alle persone indicate alla lettera b) sono sostituite dalle seguenti: «con necessità di sostegno elevato o molto elevato»;
d) le parole: «disabile grave», ove ricorrono, sono sostituite dalle seguenti: «persona con necessità di sostegno intensivo».
Il decreto introduce una terminologia relativamente nuova in ambito normativo. Dico “nuova” perché in realtà nella letteratura di settore era già invalsa da tempo. È solo nelle leggi e nei decreti che continuava a persistere, come un relitto, una terminologia stantia e stigmatizzante, che rischiava di fare danni linguistici di non poca considerazione.
Si pensi a “handicap”. Nonostante il termine sia vituperato da anni e ritenuto non più adeguato a rappresentare il mondo della disabilità, esso continuava a esistere, ad esempio, nella legge quadro n. 104/1992, ingenerando non poche perplessità. A esso è sostituito “condizione di disabilità”, così come a “handicappato” è sostituito “persona con disabilità” a sottolineare che si parla innanzitutto di persone. Con disabilità.
Il cambiamento è paradigmatico. La persona non è più identificata con la sua disabilità, ma valorizzata in quanto persona. Non è una condizione, ma un individuo con una condizione. Non è neppure un “diversabile”, termine ipocrita quanto pochi che vuole annullare nella irenica “diversità” la specificità della disabilità.
Viene cancellato anche il termine obbrobrioso di “disabile grave” sostituito da “persona con necessità di sostegno intensivo”. La gravità subisce una metamorfosi e da condizione addossata alla persona diviene una funzione dei sostegni di cui questa può usufruire. In altre parole, la disabilità è concepita come l’esito dell’interazione della persona con il suo ambiente e dei sostegni che quest’ultimo è in grado di garantire alla persona. La disabilità non è più una condizione individuale, ma eminentemente sociale in linea con il paradigma bio-psico-sociale tramite il quale essa viene interpretata.
Si tratta di passi avanti significativi e niente affatto cosmetici che, si auspica, genereranno un cambiamento significativo anche nelle pratiche quotidiane della disabilità. Perché le parole non hanno una forza esclusivamente espressiva, ma anche pragmatica troppe volte sottovalutata o, addirittura, ridicolizzata.
Quando si tratta di prendere una decisione, quando non sappiamo che cosa fare, quando il dubbio ci attanaglia in una morsa di acciaio, è il mantra di ogni psicologia popolare, la soluzione di ogni problema, la panacea di ogni male esistenziale.
“Va’ dove ti porta il cuore”, consiglia l’amico in vena di facile altruismo. A dargli man forte, troviamo Susanna Tamaro, con l’omonimo bestseller del 1994, Laura Pasini con il singolo “Ascolta il tuo cuore” (1996) in cui gorgheggia «Dentro te ascolta il tuo cuore/E nel silenzio troverai le parole» e perfino Pocahontas della Disney, che non ha esitazioni a proclamare: «Ascolta il tuo cuore/Il tuo cuore sa e tu capirai» (1995).
Del resto, lo sapevano già il critico letterario William Hazlitt (1778-1830), al quale è attribuita la frase: «Il luogo della conoscenza è nella testa, della saggezza è nel cuore», la volpe saggia del Piccolo Principe (1943) di Antoine de Saint-Exupéry (1900-1944), che rivela al protagonista del romanzo il segreto per affrontare la vita: «È solo con il cuore che si può vedere veramente, l’essenziale è invisibile agli occhi», e il giovane Santiago, protagonista del romanzo di Paulo Coelho L’alchimista (1988), la cui massima ispiratrice è: «Ascolta il tuo cuore. Esso conosce tutte le cose».
Il riconoscimento supremo della funzione dirimente del muscolo cardiaco si trova nella Bibbia. Ecclesiaste 12, 1 afferma perentoriamente:
Rallegrati, giovane, nella tua adolescenza il tuo cuore stia in allegria nei giorni della tua giovinezza. Va’ dove ti conducono gli impulsi del tuo cuore, segui ciò che piace agli occhi.
E Proverbi 3, 5–6 ribadisce:
Confida nell’Eterno con tutto il tuo cuore e non appoggiarti sul tuo intendimento; riconoscilo in tutte le tue vie, ed egli raddrizzerà i tuoi sentieri.
Si potrebbe continuare. Ciò che colpisce in tutte queste occorrenze è che il cuore viene identificato con la parte più spontanea di noi, quella più autentica, genuina, incontaminata, in grado di scorgere la verità al di là dei filtri della ragione.
Il cuore è la vocina interiore che ci indica la strada giusta; la pura intuizione che illumina la strada da prendere, la sede dei sentimenti più schietti. Il cuore custodisce i segreti più intimi della nostra anima, sa quali sono le nostre vocazioni, i nostri sogni e i nostri desideri più reconditi, conosce ciò che è meglio per noi. Perché, dunque, non affidarsi serenamente ai suoi impulsi?
Per almeno due ragioni: una di ordine sociologico, l’altra di ordine logico e psicologico.
Cominciamo dalla prima.
Come osserva icasticamente il filosofo israeliano Yuval Noah Harari, «il cuore è un doppiogiochista che di solito prende ordini dai miti dominanti in quel momento, e la stessa raccomandazione “Segui il tuo cuore” è stata impiantata nelle nostre menti da una combinazione di miti romantici ottocenteschi e miti consumistici del Novecento» (Harari, 2023, p. 151).
È ingenuo pensare che il “cuore” sia avulso dalla società in cui palpita. Noi desideriamo ciò che la collettività desidera, amiamo ciò che le persone intorno a noi amano, sogniamo di essere o avere ciò che i media, la famiglia, gli amici, i parenti, i vicini di casa sognano di essere o avere. Nessuno desidera in un vuoto sociale. Posto di fronte alla scelta tra un lavoro e un altro, il “mio cuore” mi spingerà, comunque, verso una scelta approvata dalla società in cui vivo. Indeciso tra giurisprudenza e scienze dello spettacolo, deciderò, in ogni caso, per una delle opzioni offertemi dal sistema universitario vigente. Perfino in ambito sentimentale, seguirò “il mio cuore” in base a ciò che il mio gruppo sociale di riferimento mi “indicherà”, non necessariamente in maniera esplicita e diretta, come desiderabile. Insomma, vocazioni, preferenze, scelte non hanno un’origine puramente individuale o “cordiale” (aggettivo che significa “che viene dal cuore”), ma sono forgiate dalla società in cui viviamo.
La stessa raccomandazione “Va’ dove ti porta il cuore”, come osserva Harari, è un misto di miti romantici e consumistici con la loro enfasi sull’individualismo, la realizzazione del sé, l’edonismo, la felicità a ogni costo, l’insoddisfazione continua nei confronti della vita da “riempire” attraverso continui atti di consumo materiale e spirituale.
Un’altra ragione, di ordine logico e psicologico, dovrebbe metterci in guardia dal fare troppo affidamento sul nostro cuore. Si tratta di una fallacia cognitiva piuttosto comune che prende il nome di wishful thinking o “pensiero orientato dal desiderio”, termine con cui si indica la tendenza a ritenere che qualcosa sia vero perché risponde a un desiderio intenso.
Essa assume la forma:
Voglio che P sia vero
Pertanto, P è vero
Oppure:
Desidero che non sia il caso che Y
Pertanto, non credo che Y
In un certo senso, nessuno di noi è immune da questa forma di illusione. A tutti piace credere che qualcosa sia vero solo perché sarebbe bello che fosse tale. In materia di religione, alcuni credenti fondano la propria fede nell’esistenza di Dio sul fatto che la vita sarebbe intollerabile se la divinità non esistesse. In politica, gli elettori tendono sistematicamente a distorcere le probabilità di vittoria del proprio schieramento in base ai propri desideri. In campo sentimentale, gli innamorati tendono regolarmente a interpretare parole e comportamenti della persona amata sulla base delle aspettative del proprio cuore. In tutti questi casi, «si tende ad attribuire un valore eccessivo all’evidenza in favore della credenza che le cose stiano in un certo modo semplicemente perché si desidera che stiano in quel modo» (Diez, Iacona, 2014, p. 95). Una conseguenza frequente è che, se la credenza dettata dal cuore trova fondamento nella realtà, ne ricordiamo l’esito felice; se ciò non accade, tendiamo a dimenticare l’insuccesso della nostra scelta perché “il cuore ha sempre ragione”.
Il wishful thinking è particolarmente rilevante nelle situazioni caratterizzate da forte intensità emotiva. Al riguardo lo psicologo Daniel Kahneman parla di “euristica dell’affetto”, per indicare quel modo di pensare consistente nel formulare giudizi e prendere decisioni consultando le proprie emozioni (“Come mi fa sentire?”) piuttosto che la ragione (“Che cosa ne penso?”) (Kahneman, 2012, p. 154). In altre parole, gli individui si appellano alle emozioni per decidere se un ragionamento è efficace o no. Questa euristica è molto sfruttata in politica, pubblicità e anche nelle normali relazioni quotidiane. I politici, ad esempio, vi ricorrono spesso per sostenere la bontà delle proprie argomentazioni (“Lasciate stare le statistiche. Gli immigrati fanno paura ed è meglio che tornino a casa!”). In pubblicità, quasi tutti gli spot commerciali fanno appello alle emozioni piuttosto che spiegare quali siano le qualità del prodotto commercializzato. Nella vita quotidiana, la testimonianza di una persona in lacrime può risultare più credibile dei numeri snocciolati da uno scienziato algido.
Sempre a proposito di emozioni, in psicologia, un modello molto interessante è quello definito affectas information (Storbeck, Clore, 2008). Secondo questo modello le persone tendono a inferire informazioni su fatti, fenomeni, condizioni a partire dal proprio stato affettivo-emozionale. L’emozione, dunque, viene utilizzata come informazione che orienta le conoscenze e, soprattutto, conferma la bontà/verità delle conoscenze che hanno dato origine alla stessa emozione. Ad esempio, alcune persone tendono a inferire un pericolo a partire dall’ansia che provano (se mi sento ansioso, vuol dire che c’è qualcosa che causa la mia ansia e la giustifica).
È immediatamente evidente la rilevanza di questo modello per la tematica di cui stiamo parlando. Ad esempio, uomini e donne tendono a ricavare una “predizione” sul futuro delle loro relazioni amorose in base a ciò che sentono per la persona amata “nel profondo del cuore”. Il meccanismo funziona così: ciò che provo per questa persona è così speciale che sicuramente la nostra relazione durerà per sempre/saremo sempre felici insieme. Purtroppo, è facile constatare che a questa sicumera affettiva non corrisponde sempre ciò che si sente. Ognuno di noi conosce persone costrette a disilludersi sentimentalmente dopo un certo periodo, a dispetto dell’iniziale intensità emotiva.
Insomma, nonostante le pretese della saggezza popolare, come afferma (contraddittoriamente, bisogna ammettere) ancora la Bibbia,
Il cuore è ingannevole più di ogni altra cosa e insanabilmente malato; chi lo può conoscere? (Geremia 17, 9).
È vero che «vivere nella beata illusione che le nostre speranze e aspirazioni si realizzeranno può essere una scelta di vita; e ci sono ottimisti incrollabili che, sperando contro ogni speranza, alla fine vedono i propri desideri prendere corpo o almeno il mondo adattarsi alla loro realtà mentale» (Cattani, 2011, p. 170), ma, con buona pace di Susanna Tamaro e Pocahontas, confondere desiderio e realtà, affect e information, in altre parole, “seguire il proprio cuore”, conduce spesso a scelte sbagliate o discutibili, di cui è facile pentirsi in seguito.
Lo testimonia Anne, la protagonista di uno degli episodi della quinta stagione della celebre serie degli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo Ai confini della realtà, dal titolo “L’impulso del momento” (Spur of the moment), la quale rovina la sua vita per ascoltare il proprio cuore, scegliendo di sposare un giovane fallito, che condurrà in disgrazia la sua intera famiglia.
«If it makes you happy, then it can’t be that bad» (“Se ti fa sentire felice, non è poi tanto male”) canta Sheril Crow in If it makes you happy.
Purtroppo, seguire il proprio cuore e sentirsi happy non garantiscono affatto che le proprie scelte non saranno bad. Anche se tanti dicono, scrivono e cantano il contrario.
Riferimenti:
Cattani, A., 2011, 50 discorsi ingannevoli, Edizioni GB, Padova.
Diez, J.A., Iacona, A., 2014, Amore e altri inganni, Indiana Editore, Milano.
Harari, Y. N., 2023, Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità, Bompiani, Milano.
Kahneman, D., 2012, Pensieri lenti e veloci, Mondadori, Milano.
Storbeck, J., Clore, G. L., 2008, “Affective Arousal as Information: How Affective Arousal Influences Judgments, Learning, and Memory”, Social and Personality Psychology Compass, vol. 2, n. 5, pp. 1824-1843.
Il termine greco kakoùrgos significa “malfattore”, “criminale”. Esso compare tre volte nel Vangelo di Luca, dove sono definiti kakoùrgoi coloro che furono condannati a morire sulla croce insieme a Gesù. Nell’immaginario biblico di senso comune, Gesù è diverso da loro: un innocente che muore per salvare l’umanità intera a cui capita di condividere la funesta sorte insieme a due volgari “banditi”, collocati accanto a lui per puro caso. E, in effetti, le traduzioni abituali di Luca 23, 32, versetto che introduce al lettore i due personaggi, sembrano confermare tale estraneità:
Venivano condotti insieme con lui anche due malfattori per essere giustiziati (Bibbia CEI).
Ora, altri due, malfattori, erano condotti per essere messi a morte insieme a lui (Bibbia Nuova Riveduta).
Or venivano condotti con lui anche due malfattori per essere messi a morte (Bibbia Nuova Diodati).
Ora altri due, malfattori, erano condotti con lui per essere messi a morte (Bibbia Riveduta 2020).
I due malfattori, dunque, sarebbero stati altra cosa rispetto a Gesù: comparse casuali sul palcoscenico del più grande dramma religioso della storia.
Il problema è che, se traduciamo Luca 23, 32 letteralmente dal greco, la frase diventa:
Venivano condotti dunque anche altri due malfattori insieme con lui per essere crocefissi.
In altre parole, i due personaggi crocifissi insieme a Gesù non erano gli unici malfattori. C’era un altro malfattore con loro e questi non poteva essere che Gesù stesso. Misteriosamente, però, nelle traduzioni consuete l’aggettivo “altri” sparisce o viene riformulato in modo da escludere dal novero dei malfattori Gesù.
Perché? La risposta è semplice. Perché, in questo modo, come osserva lo studioso Giambernardo Piroddi, si ottiene «il ricercato effetto di creare una netta separazione tra il primo condannato a morte e gli altri due». Tale effetto occulta il fatto che anche Gesù era un kakoùrgos, ossia un “malfattore”, un “criminale”, anzi un “rivoluzionario”, pienamente immerso in «quel grande movimento di speranza e di esaltazione nazionale chiamato messianismo» che scuoteva la società ebraica del suo tempo, come suggerisce ancora Piroddi.
Del resto, solo così è possibile intendere la sua condanna a morte sulla croce – destino non riservato a pacifici predicatori religiosi – e tanti altri episodi della sua vita narrati dai Vangeli che «raccontano in maniera molto chiara e fuori d’ogni metafora vicende di matrice eversiva occorse in precisi luoghi in una data epoca storica, che hanno avuto per protagonista un pretendente al trono d’Israele […] inviso al dominatore romano, ma non del tutto alla classe politico-sacerdotale da cui proveniva e cui era legato per lignaggio».
Le traduzioni più abituali dei Vangeli appaiono, dunque, almeno in parte, come un’opera di purificazione, tesa a offrire al lettore una immagine edulcorata, se non annacquata, di un rivoluzionario della sua epoca, trasformato in pacifico e saggio, per quanto paradossale, promotore di un messaggio puramente spirituale e del tutto avulso dalla realtà conflittuale a lui contemporanea.
L’utilizzo di parabole e di codici comunicativi bisognosi di interpretazione hanno lo scopo di occultare questa fondamentale “verità”. Solo così è sopravvissuta per secoli la figura di Gesù che, se svelata interamente, avrebbe corso il rischio di essere rimossa dalla memoria o spinta in ultimo piano, come è accaduto a tanti ribelli e rivoluzionari del tempo di cui sappiamo solo grazie a fonti storiche note quasi esclusivamente agli addetti ai lavori.
Fonte:
Piroddi, G., 2023, Gesù non amava i nemici. Quello che i vangeli greci raccontano e le traduzioni censurano, Edizioni Clandestine, Milano, pp. 223-227, 262.
«Chi amò mai che non amasse al primo sguardo?» si domanda la pastorella Febea in dialogo con il pastore Silvio in Come vi piace (1623) di William Shakespeare. Tesi implicitamente sottoscritta dai protagonisti del celebre Romeo e Giulietta (1594-1596), in cui Romeo dei Montecchi si innamora “a prima vista” di Giulietta della famiglia rivale dei Capuleti durante una festa.
Nella letteratura mondiale, il tema del colpo di fulmine che attanaglia saldamente due persone destinate ad amarsi per sempre è piuttosto ricorrente. Anzi, ordinariamente l’eroe si innamora della sua bella “al primo sguardo”, come accade nell’Orlando furioso (1516) di Ludovico Ariosto in cui Orlando viene rapito immediatamente dall’apparizione della bellissima principessa Angelica.
Un paio di secoli prima, nell’Elegia di madonna Fiammetta (1345) di Giovanni Boccaccio, la protagonista racconta di essersi innamorata “al primo sguardo” del mercante Panfilo: «E acciò che io non vada ogni suo atto narrando […] in sí fatta maniera andò, che io, oltre ad ogni potere raccontare, da subito e inopinato amore mi trovai presa, e ancora sono».
“Inopinato amore” fu anche quello che colse Dante nei confronti di Beatrice. Lo descrive Giovanni Boccaccio nel suo Trattatello in laude di Dante (1362):
Era intra la turba de’ giovinetti una figliuola del sopradetto Folco, il cui nome era Bice come che egli sempre dal suo primitivo, cioè Beatrice, la nominasse, la cui età era forse d’otto anni, leggiadretta assai secondo la sua fanciullezza, e ne’ suoi atti gentilesca e piacevole molto, con costumi e con parole assai più gravi e modeste che il suo picciolo tempo non richiedea; e, oltre a questo, aveva le fattezze del viso dilicate molto e ottimamente disposte, e piene, oltre alla bellezza, di tanta onesta vaghezza, che quasi una angioletta era reputata da molti. Costei adunque, tale quale io la disegno, o forse assai più bella, apparve in questa festa, non credo primamente, ma prima possente ad innamorare, agli occhi del nostro Dante: il quale, ancora che fanciul fosse, con tanta affezione la bella imagine di lei ricevette nel cuore, che da quel giorno innanzi, mai, mentre visse, non se ne dipartì.
Il tema non è, peraltro, circoscritto ai secoli passati. I primi versi di “Amore a prima vista” della poetessa polacca Wislawa Szymborska, premio Nobel per la letteratura nel 1996, ne sono testimonianza:
Sono entrambi convinti
che un sentimento improvviso li unì.
È bella una tale certezza
ma l’incertezza è più bella.
Nello stesso secolo, i Beatles di With a Little Help from My Friends esprimono una uguale convinzione:
Would you believe in a love at first sight?
Yes, I’m certain that it happens all the time.
Sarebbe impresa disperata elencare tutte le opere letterarie, artistiche, cinematografiche ecc. che hanno celebrato l’amore a prima vista, certificandone in questo modo l’esistenza. Libri, canzoni, film, serie televisive, rubriche del cuore lo tematizzano, a vario titolo, rafforzando la percezione che rappresenti la forma ideale di innamoramento. La conseguenza è che l’amore a prima vista è un fenomeno dato per scontato, scarsamente problematizzato, ma molto pervasivo. Esso scorrazza liberamente nel sentire comune, affolla le conversazioni quotidiane, addensa le battute di attori e attrici, occupa i versi di innumerevoli motivi canori, ispira desideri e frustrazioni di giovani amanti.
È probabile che ognuno di noi, se interrogato, si dichiarerebbe certo della sua esistenza. Del resto, come potrebbero mentire secoli e secoli di testimonianze di ogni tipo al riguardo?
Eppure, già a lume di buon senso, la nozione di “amore a prima vista” appare problematica. In essa, infatti, si cela un vero e proprio ossimoro. Pensiamoci bene. L’amore presuppone un sentimento profondo e duraturo nei confronti di una persona. «L’amore nasce dal profondo e guarda verso il futuro», scrive il sociologo Francesco Alberoni (2000, p. 49). Inoltre, per amare davvero qualcuno si ha bisogno di conoscerlo bene, come testimoniano locuzioni come “amore materno”, “amore filiale”, “amore fraterno”. L’amore richiede intimità, passione, legame, impegno, durata. Nel caso di un rapporto di coppia, sue condizioni sono: un sentimento messo alla prova dal tempo, una conoscenza frutto di frequentazioni non occasionali, la percezione di sentirsi un “noi” e non due individui separati, il desiderio di voler stare insieme a lungo, di “invecchiare insieme”, anzi di vivere con l’altro/a “finché morte non ci separi”, come recita la nota formula nuziale.
Tutto questo non si consegue “a prima vista”.
Ingredienti del colpo di fulmine sono, invece: un’attrazione fisica istantanea, l’infatuazione, l’entusiasmo improvviso provocato dal semplice aspetto fisico della persona.
L’attrazione fisica si colloca, per antonomasia, sul piano del qui-ed-ora, dell’effimero, della superficialità. “Beauty is only skin-deep” dicono gli inglesi. Ovvero: la bellezza fisica ha una “profondità” che non va oltre quella della pelle. L’infatuazione, invece, si basa sull’idealizzazione dell’altro/a in un orizzonte temporale compresso e tende a durare solo se il rapporto non viene vissuto. Tanto che, una volta che l’altro/a viene conosciuto/a, si trasforma in altro o cede il posto a una frustrazione – l’effetto realtà – in grado di attenuare o annullare la percezione iniziale.
L’infatuazione è l’esito di un’attenzione selettiva centrata su uno o più aspetti dell’altra persona, i quali vengono concepiti come rappresentanti della personalità nel suo complesso. Così, la bellezza del viso viene assunta come l’immagine di una bellezza interiore. Un interesse condiviso come la prova di una profonda affinità. Inoltre, sulla persona sono sovente proiettati desideri, bisogni, aspetti di sé, che finiscono con l’offuscare la sua reale personalità. Al contrario, come abbiamo visto, «amare un essere umano significa conoscere e amare la sua persona», per usare le parole di Nathaniel Brandon, autore di La psicologia dell’amore romantico (1992, p. 57). Ribadiamolo. Non può esserci amore vero senza conoscenza. E la conoscenza implica un decorso temporale, una reciprocità continua, un confronto assiduo.
Ma allora, se tra “amore” e “colpo di fulmine” c’è un rapporto di opposizione, come si spiega la popolarità della nozione di “amore a prima vista”? La risposta, secondo le scienze umane, sta nel fatto che l’esperienza dell’innamoramento induce una serie di distorsioni cognitive, che alterano positivamente la percezione dell’altra persona e rendono speciale il rapporto. Ad essere alterata non è solo la percezione, ma anche il ricordo (confabulated memory, in inglese), che assume tinte decisamente rosee, perfino a dispetto della realtà.
Già Sigmund Freud (1856-1939), nella prima metà del XX secolo, notava come l’innamoramento comporti un’alterazione evidente della realtà:
Nel quadro di questo innamoramento ci ha colpito fin dall’inizio il fenomeno della sopravvalutazione sessuale, il fatto, cioè, che l’oggetto amato sfugga entro certi limiti alla critica, che tutte le sue qualità vengano apprezzate più di quelle delle persone non amate o più che nel periodo in cui l’oggetto stesso non era amato. In virtù di una rimozione più o meno efficace, oppure di una messa fuori gioco delle tendenze sessuali, sorge l’illusione che l’oggetto sia amato anche sensualmente a causa dei suoi pregi spirituali, mentre al contrario è solo il fascino sensuale che ha potuto conferirgli quei pregi. La tendenza che qui falsa il giudizio è quella all’idealizzazione (Freud, 1921, p. 300).
Più o meno nello stesso periodo, l’antropologo americano Ralph Linton (1893-1953) evidenziava la natura culturale di tale “anomalia”:
Tutte le società riconoscono che tra le persone di sesso opposto si sviluppano affetti emotivi, occasionali, violenti, ma la nostra attuale cultura americana è praticamente la sola che abbia tentato di… farne la base del matrimonio… La loro rarità nella maggior parte delle società suggerisce che si tratti di anomalie psicologiche a cui la nostra cultura ha assegnato un valore straordinario (Linton, 1936, cit. in Brandon, 1992, pp. 53-54).
Venendo a tempi più recenti, vari studi dimostrano che gli individui tendono a valutare i propri partner in una luce più positiva rispetto agli altri e ad avere un pregiudizio positivo nei confronti delle proprie relazioni. Ad esempio, gli innamorati vedono i loro partner in una luce più positiva della media per quanto riguarda variabili come intelligenza, attrazione fisica, calore e senso dell’umorismo. Inoltre, chi è sposato tende a sovrastimare la stabilità del proprio matrimonio e a sottovalutare le probabilità di divorzio (Swami, Stieger, Haubner, Voracek, Furnham, 2009, pp.1-2).
Nel complesso, si è scoperto che gli individui coinvolti in una relazione intima esibiscono le seguenti tipiche distorsioni cognitive (in inglese biases): (a) esagerano sistematicamente gli aspetti positivi delle loro relazioni, ritenendo queste superiori a quelle di altre coppie (bias di miglioramento); (b) si mostrano eccessivamente ottimisti riguardo all’evoluzione del proprio rapporto (bias ottimistico); (c) esagerano il livello di controllo che possiedono nei confronti della propria relazione (bias di controllo) (Gagné, Lydon, 2004, pp. 322-324).
Altro bias emerso dalla ricerca psicologica e sociologica è il bias dell’amore cieco (love-is-blind bias), che è possibile definire come la tendenza a percepire il partner con cui si è coinvolti in una relazione romantica come più attraente di quanto non sia in realtà e più attraente di sé stessi. La tendenza a valutare il proprio partner più positivamente di quanto si valuti sé stessi prende anche il nome di partner-serving bias (Fletcher, Kerr, 2010).
L’idealizzazione della persona amata è, talvolta, sostenuta ricorrendo ad attribuzioni causali distorte per cui, mentre le condotte positive del partner sono attribuite a caratteristiche della persona, quelle negative sono considerate come aventi una causa occasionale (Hall, Taylor, 1976). Gli aspetti gradevoli dell’altro/a sono, dunque, ascritti a tratti stabili e duraturi della sua personalità (la “vera essenza”); quelli spiacevoli a cause contingenti, provvisorie, situazionali (“Non era davvero lui/lei”).
Altre due importanti distorsioni cognitive sono: a) il bias di conferma, in base al quale, l’innamorato/a tende a osservare, cercare e valorizzare solo le informazioni che sembrano confermare la sua visione idealizzata della persona amata, trascurando quelle che sembrano contraddirla; 2) l’effetto alone, per cui i tratti positivi della persona amata “contagiano” la percezione degli altri tratti di personalità, favorendo il sorgere di aspettative irrealistiche da cui possono facilmente derivare delusioni cocenti (Capuano, 2021).
Tutte queste distorsioni concorrono a creare quelle che in psicologia sono definite “illusioni positive”, illusioni che servono a preservare e sostenere la propria autostima e la propria salute mentale a dispetto di possibili minacce provenienti da informazioni negative. Una considerevole letteratura suggerisce da tempo che giudicarsi in maniera eccessivamente positiva, percepire in maniera esagerata il proprio livello di controllo sulla realtà o le proprie capacità, possedere un ottimismo irrealistico sono caratteristiche normali del pensiero umano che hanno spesso conseguenze positive come la capacità di essere felici o soddisfatti, e di generare lavoro creativo. Ciò avviene perché le illusioni positive agiscono come una sorta di filtro nei confronti delle informazioni provenienti dal mondo esterno, distorcendole in senso positivo per il sé (Taylor, Brown, 1988). In virtù di tali illusioni, in campo sentimentale, le persone tendono a proiettare sul proprio partner quelle che considerano le caratteristiche ideali che dovrebbe avere la persona amata, a sopravvalutare il livello di soddisfazione che ci si aspetta dal rapporto e a sottovalutare la probabilità di conflitti o disaccordi. Ciò, a sua volta, è funzionale a un maggior senso di sicurezza relazionale e a un maggior livello percepito di soddisfazione.
Se questo è vero in generale, è possibile che anche la nozione di “amore a prima vista” debba la sua fortuna a distorsioni cognitive e illusioni positive? Secondo la ricerca psicosociologica, sì.
In particolare, coloro che credono in questa particolare forma di amore sono soggetti a quelli che gli inglesi chiamano outcome bias (bias del risultato) e hindsightbias (bias del senno di poi). In base al primo, le persone tendono a rileggere il passato alla luce delle conoscenze acquisite successivamente, che modificano la visione di quanto accaduto nel passato. Più precisamente, le persone tendono a valutare le azioni in base ai risultati. Se le loro convinzioni iniziali si rivelano vere, dichiarano di esserne sempre state sicure, indipendentemente da quanto lo fossero all’inizio. Pertanto, se una persona prova una forte attrazione iniziale per un partner con cui ha in seguito una relazione sentimentale, è più probabile che il primo incontro venga successivamente etichettato come amore a prima vista. Ciò non accadrà, invece, se dall’iniziale attrazione fisica non deriverà alcun coinvolgimento romantico. Il passato è dunque visto alla luce del presente e l’attrazione del primo incontro viene rivestita di una nuova luce che originariamente non possedeva (Zsok, Haucke, De Wit, Barelds, 2017, p. 870).
In questo fenomeno, l’attrazione fisica esercita un ruolo importante. Le persone di bell’aspetto hanno maggiori probabilità di essere viste in maniera esageratamente positiva. A esse, infatti, vengono assegnati tratti caratteriali più desiderabili, in base all’effetto alone. Se all’iniziale attrazione segue un’esperienza di innamoramento profondo, reciproco e duraturo è facile, come detto, che l’iniziale attrazione fisica venga reinterpretata come amore a prima vista. E qui subentra la seconda fallacia: il bias del senno di poi, in base al quale, dopo l’accadimento di un evento, il suo verificarsi sembra essere più probabile di prima fino ad assumere i contorni dell’inevitabilità (“Non poteva che andare così!”). La relazione di amore induce a ricordare l’attrazione fisica iniziale come un “colpo di fulmine” dalle inevitabili conseguenze sentimentali. La storia d’amore viene letta come se il suo esito fosse l’unico possibile, come se il suo copione non avrebbe potuto svolgersi altrimenti. In realtà, il momento fatale è riconosciuto solo a posteriori, col senno di poi. E, come ricorda il filosofo Yuval Noah Harari, «ciò che, visto col senno di poi, appare inevitabile è invece tutt’altro che ovvio nel momento in cui si verifica» (Harari, 2017, p. 297).
L’amore a prima vista è, dunque, etichettabile come un’illusione positiva, sostenuta da precise distorsioni cognitive, che svolge diverse funzioni all’interno della coppia: essa consente, infatti, di migliorare il rapporto conferendogli un’aura speciale, quasi magica; di leggere la propria “favola d’amore” in maniera coerentemente romantica fin dall’inizio, proiettando sul passato passioni e sentimenti attuali; di conformarsi a modelli culturali ideali accreditati dalla società; di comporre eventuali difficoltà o disaccordi nel nome di una storia unica e inimitabile.
Tutto ciò potrebbe apparire deprimente. Classificare l’amore a prima vista tra le illusioni, sebbene positive, sembrerebbe un colpo mortale (e basso) a una delle credenze ancora oggi più diffuse: quella nell’amore romantico. In realtà, le illusioni svolgono un ruolo estremamente importante nella nostra vita tanto che è possibile affermare, senza timore di essere smentiti, che senza di esse la vita sarebbe ben poca cosa. Soprattutto quando sono positive.
Riferimenti
Alberoni, F., 2000, Ti amo, BUR, Milano.
Brandon, N., 1992, La psicologia dell’amore romantico, Sugarco, Milano.
Capuano, R. G., 2021, Aloni, stregoni e superstizioni. Cinque studi sulla irrazionalità umana, PM Edizioni, Varazze (SV)
Fletcher, G. J. O., Kerr, P. S. G., 2010, “Through the eyes of love: Reality and illusion in intimate relationships”, Psychological Bulletin, vol. 136, pp. 627–658.
Freud, S., 1921, Psicologia delle masse e analisi dell’io, in Idem, 1989, Opere. L’Io e l’Es e altri scritti 1917-1923, vol. 9, Bollati Boringhieri, Torino.
Gagné, F. M., Lydon, J. E., 2004, “Bias and accuracy in close relationships: An integrative review”, Personality and Social Psychology Review, vol. 8, pp. 322–338.
Hall, J., Taylor, S.E., 1976, “When love is blind: Maintaining idealized images of one’s spouse”, Human Relations, vol. 29, pp. 751–761.
Harari, Y. N., 2017, Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità, Bompiani, Milano.
Linton, R., 1936, The Study of Man, Appleton-Century Co., New York.
Swami, V., Stieger, S., Haubner, T., Voracek, M., Furnham, A., 2009, “Evaluating the physical attractiveness of oneself and one’s romantic partner: Individual and relationship correlates of the love-is-blind bias”, Journal of Individual Differences, vol. 30, pp. 35–43.
Taylor, S.E., Brown, J.D., 1988, “Illusion and well-being: A social psychological perspective on mental health”, Psychological Bulletin, vol. 103, pp. 193–210
Zsok, F., Haucke, M., De Wit, C., Barelds, D., 2017. “What kind of love is love at first sight? An empirical investigation”, Personal Relationships, vol. 24, n. 4., pp. 869-885.
Il tema è diventato “caldo” da quando Roberto Vannacci ne ha parlato nel suo Il mondo al contrario. Stando all’ultima indagine ISTAT sull’argomento, La popolazione omosessuale nella società italiana (che risale però al 2012, e non può dirsi certamente aggiornata),
circa un milione di persone si è dichiarato omosessuale o bisessuale, più tra gli uomini, i giovani e nell’Italia Centrale. Altri due milioni circa hanno dichiarato di aver sperimentato nella propria vita l’innamoramento o i rapporti sessuali o l’attrazione sessuale per persone dello stesso sesso.
Rapportato alla popolazione complessiva di quell’anno, la percentuale di omosessuali o bisessuali dichiarati si aggira intorno al 2%. Al netto di risposte compiacenti nei confronti della morale sessuale dominante e della necessità di una indagine più recente, tale percentuale è evidentemente risicata e fa di questo orientamento sessuale un orientamento statisticamente minoritario.
Un errore frequentemente commesso in ambito sessuale è quello di confondere la normalità con la maggioranza statistica. La normalità statistica è solo una delle possibili declinazioni della normalità. Esistono, infatti: una normalità medico-legale (normale è ciò che la medicina o la legge dicono normale. Secondo la medicina e la legge, ad esempio, l’omosessualità è normale); una normalità morale (normale è ciò che la morale definisce tale, ma esistono varie morali); una normalità psicologica (un comportamento sessuale è normale se la persona si sente a proprio agio nel praticarlo); una normalità di coppia (un comportamento sessuale è normale se riflette la convergenza di un desiderio di coppia) e altre ancora.
Altro errore consiste nel confondere la normalità statistica con quella morale per cui se un comportamento sessuale è praticato da una minoranza statistica, allora è moralmente anormale. Secondo questa prospettiva, la maggioranza numerica coincide con la maggioranza morale. Conclusione che favorisce una dittatura della maggioranza inconciliabile con la forma attuale della democrazia occidentale che fa della tutela delle minoranze uno dei cardini principali della civile convivenza.
Al di là di queste precisazioni, l’argomentazione di Vannacci è che, a fronte del fatto che gli omosessuali costituiscono una minoranza sociale, essi sarebbero “palesemente sovra-rappresentati” dai mezzi di comunicazione di massa nazionali e internazionali.
Non dispongo di dati in materia. Posso solo offrire qualche riflessione a naso. Chi consuma abitualmente intrattenimento su mass media non potrà che convenire con il fatto che mai come oggi omosessuali e bisessuali siano presenti in televisione, al cinema, nelle piattaforme streaming. Si ha l’impressione che, sulla scia dei progressi ottenuti dai movimenti per i diritti degli omosessuali, sia diventato quasi obbligatorio, o almeno opportuno, per qualsiasi produzione televisiva, ad esempio, inserire nel cast dei personaggi un omosessuale (maschio o femmina) o un bisessuale. L’omosessualità è diventata quasi una funzione di proppiana memoria. Un ingrediente di successo che viene incontro a una particolare sensibilità contemporanea. Una “moda” del momento, destinata forse a essere superata o a cristallizzarsi. Forse.
O forse tale impressione è la conseguenza di una percezione condizionata da un’omofobia diffusa, che rende più sensibili nei confronti della presenza mediatica dell’omosessualità. O forse ancora di un’omofilia patente o latente. Come chi vuole avere un figlio improvvisamente “è colpito” dal numero di donne incinte che incontra nella vita quotidiana; chi è affetto da una malattia ha l’impressione che i mezzi di informazione parlino spesso di quella malattia; chi è razzista è “colpito” dal numero crescente di “neri” nella società, così chi è particolarmente sensibile nei confronti dell’omosessualità, in senso omofobico o omofiliaco, può avere la percezione che essa sia “troppo” presente nei media.
Che l’impressione di una “omosessualità eccessiva” in televisione sia giusta o sbagliata, bisogna comunque considerare che serie televisive e film non fanno altro che sovrarappresentare determinati fenomeni sociali, tanto che questa è una caratteristica distintiva della fiction televisiva.
Si pensi alla violenza. Nei film è sempre presente una dose di violenza superiore alla realtà. Anzi, molto superiore. Sparatorie, uccisioni, ferimenti vi compaiono in maniera statisticamente maggiore rispetto alla vita reale. Stesso discorso per la criminalità. Quanto più questa è efferata e disumana – si pensi al fenomeno dei serial killer – tanto più è presente. Si può dire che ogni forma di devianza sia sovrarappresentata in televisione: dalle truffe alla corruzione, dalla violenza sessuale alla pedofilia.
Anche il sesso è costantemente iperrappresentato. Tanto da costituire un ingrediente immancabile di ogni serie televisiva. Con i suoi corollari di tradimenti, conflitti familiari, molestie, nudi mostrati e non mostrati ecc.
Sono sovrarappresentati i belli rispetto ai brutti, i giovani rispetto ai vecchi, i sani rispetto ai malati.
Insomma, la fiction è per antonomasia sovrarappresentazione. Perché lo scopo della fiction non è informare, ma intrattenere, colpendo i sensi. E a questo scopo, tutto fa audience. Soprattutto se viene incontro a particolari sensibilità del momento.
La preoccupazione di Vannacci e di chi la pensa come lui sulla sovrarappresentazione dell’omosessualità in TV potrebbe essere, dunque, un falso problema. La fiction non ha interesse a rappresentare “statisticamente” la realtà. Al contrario, la manipola, la distorce e la plasma in base ai propri interessi e necessità. Che sono quelli di attirare quanti più ascolti possibili. Fregandosene dell’adesione rigorosa alla realtà.
In due post precedenti (questo e questo), avevo osservato e stigmatizzato la tendenza di molti sportivi a invocare l’intervento della divinità per propiziare il successo nelle proprie prestazioni. Trovavo aberrante – pur essendo ateo – che un dio fosse ridotto alla stregua di un capotifoso pronto a tutto pur di favorire la propria squadra.
Mi domandavo: “Perché la divinità dovrebbe favorire il calciatore della squadra A piuttosto che quello della squadra B? Perché dovrebbe privilegiare la vittoria di una a scapito dell’altra? Perché, in sostanza, dovrebbe “fare il tifoso”?”.
Mi sono posto le stesse domande leggendo l’articolo della «Gazzetta dello sport» che riporto qui sopra. Perché dio – chiunque egli/ella/esso sia – dovrebbe favorire la squadra di Calhanoglu rispetto a quella del Milan? In che senso, dio avrebbe fatto un regalo al calciatore turco dell’Inter, che, fra l’altro si definisce un credente?
Le spiegazioni possibili sono due, a mio avviso. O Calhanoglu, come tanti altri calciatori, è talmente ingenuo e sprovveduto da credere che la divinità, per qualche strano motivo, non abbia di meglio da fare che parteggiare per una squadra a scapito di un’altra o – e opto per questa seconda ipotesi – il richiamo al nume divino è un modo per legittimare la vittoria della propria squadra, una sorta di inconsapevole (per lo più) strategia retorica per accreditare ulteriormente i propri successi, come accade da sempre, peraltro, nel mondo della politica quando si dice che “dio è con noi”.
La dichiarazione di Calhanoglu, dunque, non sarebbe molto dissimile da un Deus nobiscum (grido di battaglia romano), da un Deus lo volt (grido di battaglia di Pietro l’Eremita per arruolare crociati) o da un Gott mit uns (motto degli Imperatori tedeschi e del Terzo Reich nazista) trasposti in ambito calcistico.
Attribuendo il merito della vittoria a una divinità, i calciatori, come gli antichi condottieri, convocano la medesima a testimone e garante dei propri successi (reali o auspicati), attribuendo alle loro vittorie un significato religioso che le rende ancora più prestigiose.
Furbi questi calciatori! Se non fosse che nemmeno loro, probabilmente, sono consapevoli di usare strumentalmente dio per i propri scopi di parte.
Il Santuario Pontificio della Santa Casa di Loreto è situato nella regione delle Marche, a poca distanza dal mare di Porto Recanati. La Santa Casa è custodita all’interno della Basilica edificata tra il 1469 e 1587 ed è il cuore del Santuario. Essa è costituita da tre pareti che secondo l’antica e autorevole tradizione sarebbe la parte antistante la grotta di Nazareth dove nacque, visse e ricette l’Annunzio la Beata Vergine Maria. La devota tradizione narra che la traslazione della Santa Casa da Nazareth fino a Loreto sia opera degli angeli. Una seconda interpretazione storica mette in risalto che nel 1291 i crociati furono espulsi dalla Terrasanta per opera dei mussulmani e che alcuni cristiani salvarono dalla distruzione la casa della Madonna, trasportandola prima nell’antica Illiria, in una località, di cui il santuario di Tersatto fa memoria. Successivamente nella notte tra il 9 e il 10 dicembre del 1294 fu trasportata nell’antico comune di Recanati, prima presso il porto, poi su un colle in una via pubblica, dove tutt’ora è custodita. Sia secondo l’autorevole tradizione sia secondo gli studi archeologici e filologi si può certamente ammettere che ci fu l’aiuto del Cielo, l’intervento “angelico”, in questo straordinario trasporto.
Così, ancora oggi, il sito ufficiale del Santuario Pontificio della Santa Casa di Loreto presenta la tradizione miracolosa che vuole che la parte antistante la grotta di Nazareth sia stata trasportata dalla Palestina in Italia, in varie tappe, per merito di una “squadra” di angeli traslocatori sul finire del XIII secolo. Un prodigio straordinario che, se fosse vero, si collocherebbe senza dubbio tra i principali miracoli registrati dal cristianesimo. Secondo i curatori del sito, l’evento sarebbe confermato anche da archeologi e filologi, che avrebbero rinvenuto le prove definitive a documentazione fattuale del prodigio. Ma quanta verità c’è in questa pretesa? Davvero oltre sette secoli fa, si sarebbe potuto scrutare nei cieli marchigiani una formazione volante di angeli nell’atto di trasportare pesanti pietre e mattoni dal Medio Oriente in Italia? Quali sono le testimonianze e i documenti attestanti l’avvenimento? Che credibilità hanno?
Cominciamo dall’inizio. Se il miracolo è accaduto nel 1291 e ripetuto nel 1294, dopo la caduta del Regno di Gerusalemme nato a seguito della prima crociata, ci aspetteremmo che fonti coeve ne parlino. E qui abbiamo la prima sorpresa. Perché prima del 1472 non ci sono testimonianze di una costruzione mariana “volata” in Italia per volere divino. Perché proprio il 1472? Perché in quell’anno (più o meno) Pietro di Giorgio Tolomei da Teramo, detto “il Teramano”, rettore del santuario di Loreto – perché un santuario esisteva già da quelle parti – scrisse la Translatio miraculosa Ecclesie beate Marie virginis de Loreto, il testo che diventerà l’atto di nascita formale della tradizione della Santa Casa, seguito poco dopo dalla Historia ecclesiae Lauretanae (1489) di Giovanni Battista Spagnoli, destinato a essere beatificato da uno dei papi ratificatori del miracolo, Leone XIII, il 17 settembre 1885.
Il Teramano commissionò la redazione del testo su pergamena a Nicola di Manoppello da Chieti e per la sua stesura si affidò alle testimonianze di due recanatesi, Paolo di Rinalduccio e Francesco detto Priore, i quali, però, non avevano assistito di persona al prodigioso trasloco, anche perché distanti dai fatti circa 170 anni, e che riferivano quanto appreso da “un nonno dei nonni”. Inoltre, quando Pietro di Giorgio si dedicò alla stesura del testo, i due testimoni erano già morti.
Insomma, siamo di fronte a un meccanismo di trasmissione di informazioni non dissimile da quello che è all’origine di voci e leggende metropolitane. Una storia insolita, appresa da fonti vaghe e distanti, la cui catena informativa non è spesso rintracciabile – il “nonno di mio nonno” – viene trasmessa oralmente, subendo distorsioni, appiattimenti, accentuazioni, fino a trasformarsi in una narrazione altra dall’originale e parecchio inverosimile.
In questo caso, la parola chiave è “distorsioni” perché il Teramano e lo Spagnoli, raccogliendo in maniera acritica materiale passato di bocca in bocca trasformarono in un’impresa soprannaturale per mezzo di angeli trasportatori l’opera umanissima di una famiglia, il cui nome era… Angeli, De Angeli o De Angelis!
In base a una documentazione disponibile presso l’Archivio Vaticano studiata nel Novecento da Giuseppe Lapponi (1851-1906), archiatra, ossia primo medico di papa Leone XIII, Henry Thèdenat (1844-1916), epigrafista, e Giuseppe Santarelli (nato nel 1936), tra i maggiori studiosi della questione lauretana, oggi sappiamo che, dietro alla “miracolosa” traslazione ci fu infatti l’azione di una nobile famiglia bizantina, molto ricca e potente, imparentata con gli imperatori di Costantinopoli che regnarono dal 1185 al 1204, per poi essere spodestati e costretti a ripararsi nel regno dell’Epiro.
La famiglia possedeva diverse terre in Palestina e, quando queste vennero occupate dai turchi, i suoi membri vollero far portar via tutto ciò che di prezioso c’era in quei luoghi, compresa la “Santa Casa”. La famiglia dispose così, attraverso uno sforzo economico non indifferente, che dei crociati mettessero in salvo l’edificio nazareno, trasportandolo a Loreto. In particolare, Henry Thèdenat trovò nell’archivio vaticano le note delle spese di trasferimento della Santa Casa, eseguito per mezzo di una nave ad opera della famiglia De Angelis. Da tali note, si ricava che le pietre furono smantellate, raccolte con cura e numerate affinché fosse possibile una ricostruzione fedele. È degno di interesse il fatto che questa notizia venne resa pubblica solo negli anni Sessanta del XX secolo.
Ciò che è interessante sottolineare è che, fin dall’inizio, la faccenda della traslazione angelica ha attirato apologeti e detrattori.
Tra i primi, possiamo citare la mistica e veggente tedesca Caterina Emmerick (1774-1824), la quale riferì di aver “visto” la Santa Casa trasportata dagli angeli al di sopra del mare, indicando in sette il numero dei traslocatori celesti: tre sostenevano la casa da davanti e tre da dietro, mentre l’ultimo guidava la spedizione. Il già citato Leone XIII scrisse il breve Felix Nazarethana (1894) che apparve ai più come una ratifica definitiva del miracolo.
Ma anche studiosi e ricercatori avallarono l’interpretazione angelica. Basti pensare al vescovo di Recanati-Loreto Felice Paoli (1738-1806), al sacerdote Joseph Anton Vogel (1756-1817), uno dei principali storici del santuario di Loreto, collaboratore di Paoli, al successore di Paoli, Stefano Bellini (1740-1828), ma anche al padre di Giacomo Leopardi, Monaldo Leopardi (1776-1847), autore di La Santa Casa di Loreto. Discussioni storiche e critiche (1841), opera in cui il padre del grande poeta si mostrava sostanzialmente favorevole alla tradizione lauretana. Ecco le sue parole: «Se il Santuario Lauretano è veramente la Casa di Nazareth in cui l’Angiolo annunziò a Maria Santissima la Incarnazione del Verbo, questa Casa venuta in un modo miracoloso dalla Palestina alle spiagge d’Italia, e qui onorata per il corso di tanti secoli dal concorso e dal consenso di tutti i popoli, è propriamente una voce perpetua, che manifesta e giustifica la storia e i dogmi del cristianesimo».
Tra i detrattori – ma sarebbe meglio dire “gli scettici” – possiamo ricordare il francescano Francesco Suriano (1450-1529), custode della Terra Santa e Delegato Apostolico per tutto l’Oriente, il quale, circa tredici anni dopo la composizione dell’opera del Teramano, nel suo Trattato di Terra Santa e dell’Oriente (1485), contestò in maniera sprezzante la tesi del trasporto angelico, in quanto irragionevole. Anche Pietro Paolo Vergerio (1496 – 1565), vescovo cattolico convertito al protestantesimo, negò del tutto l’autenticità della Santa Casa nel suo De Idolo Lauretano (1554). In tempi più recenti, il canonico francese Ulisse Chevalier (1841-1923), autore di Notre Dame de Lorette (1906), pur non sempre affidabile, mise in seria discussione la versione “angelica” della traslazione della Casa di Nazareth, presentando argomentazioni ancora oggi ritenute valide.
Proprio a partire dalle tesi di Chevalier, nel 1912, il gesuita inglese Herbert Thurston S. J. (1856-1939) scrive la voce “La Santa Casa di Loreto” per la Catholic Encyclopedia, che è qui possibile leggere nella mia traduzione, in cui riassume le principali argomentazioni scettiche a sfavore della tradizione lauretana. Thurston, diffidente per natura nei confronti delle origini miracolose delle devozioni cattoliche, fra cui il rosario, concorda sostanzialmente con il canonico francese di cui espone sinteticamente le tesi a beneficio del lettore della Catholic Encyclopedia. Il risultato è una breve, ma succulenta, esposizione dei motivi per cui la traslazione angelica non può essere vera ed è condannata a essere solo una pia illusione tra le tante che affollano il pantheon religioso dei cattolici.
Rimando, dunque, alla lettura dell’articolo di Thurston per una rapida comprensione del punto di vista scettico sulla vicenda miracolosa di Loreto.
Per chi volesse saperne di più sulla “questione lauretana” consiglio, inoltre, i seguenti siti e (soprattutto) la bibliografia in essi citata:
Pier Luigi Guiducci, Quella casa che vola. La storia delle sacre pietre di Loreto. I documenti. Le ricerche. L’indagine archeologica. Le analisi. Le evidenze. Un testo che fa il punto della situazione sulla vicenda, ricco di documentazione e riferimenti bibliografici.
Si amano più i figli o i propri genitori? Per Adam Smith, autore di Teoria dei sentimenti morali, non ci sono dubbi. L’affetto che si nutre per i figli è superiore a quello che si nutre per i padri. A tal punto che esso si muta in avversione in età avanzata. Leggiamo le sue parole: gli affetti
sono per natura indirizzati più direttamente verso i […] figli che verso i […] genitori, e la […] tenerezza per i primi sembra generalmente un principio più attivo della […] reverenza e gratitudine verso i secondi. Nello stato naturale delle cose […], l’esistenza di un figlio, nei primi tempi, dipende del tutto dalla cura del genitore, quella del genitore non dipende naturalmente dalla cura del figlio. Sembra che agli occhi della natura un bambino sia un oggetto più importante di un uomo anziano, e suscita una simpatia più viva, oltre che più universale. E così deve essere. Un bambino ci fa aspettare, o almeno sperare, ogni cosa. In casi normali, è molto poco quel che possiamo aspettare o sperare da un anziano. La debolezza di un bambino suscita affetto anche nell’uomo più rude e duro. Solo l’uomo buono e virtuoso, invece, non considera con disprezzo e avversione le infermità che accompagnano l’età avanzata. Normalmente, l’uomo anziano muore senza che nessuno lo rimpianga molto. È invece difficile che un bambino muoia senza che qualcuno non ne abbia il cuore spezzato (Adam Smith, 1995, Teoria dei sentimenti morali, BUR, Milano, pp. 437-438).
Sarebbe la natura stessa, quindi, a indirizzare i nostri affetti più verso i figli che verso i genitori. E sarebbe la natura stessa ad autorizzare disprezzo nei confronti degli acciacchi della terza età.
È questa una prospettiva che oggi definiremmo ageista in quanto opera una discriminazione nei confronti di un gruppo di età in base, appunto, all’età. Discriminazione tanto più grave in quanto basata sul capzioso argomento della “natura”.
Ancora oggi si discrimina l’anziano perché è “alla fine della vita”, perché i suoi malanni “sono inevitabili”, perché la “vita va avanti”, perché “viva la gioventù” e così via. In questo modo, si legittima l’esclusione e lo screditamento delle fragilità ultime della vita, ritenute meno meritevoli di attenzione e cura rispetto ad altre fragilità, istituendo una gerarchia di valore che vede inevitabilmente l’anzianità all’ultimo posto.
È per questo, forse, che l’ageismo è meno indagato di altri ismi (sessismo, maschilismo, abilismo, classismo ecc.) e, anzi, sembra quasi rimosso, talvolta, dal novero degli “oggetti culturali” degni di studio.
L’atteggiamento di Smith nei confronti degli anziani è ancora presente tra noi e si annida irriflesso nelle nostre coscienze. Nonostante la popolazione anziana mondiale sia destinata a crescere numericamente nei prossimi decenni, sembra che l’ageismo interessi a pochi, anche tra sociologi e psicologi. Una circostanza che dovrebbe farci riflettere, ma – banalmente – non lo fa.
Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte mia. maggiori informazioni
Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.