Le origini religiose della “musica del diavolo”

Rock and roll e religione. Il diavolo e l’acqua santa. Potrebbe mai esserci una contrapposizione più netta di questa? Del resto, sin dalla sua nascita, il “genere rock” è stato bersaglio di invettive e condanne da parte di predicatori, sacerdoti e moralisti che ne biasimavano la natura peccaminosa e “demoniaca”.

Eppure, come osserva lo storico Randall J. Stephens, autore di “Where else did they copy their styles but from church groups?”: Rock ‘n’ Roll and Pentecostalism in the 1950s South (2016), il rock deve moltissimo alla religione, in particolare, al pentecostalismo del sud degli Stati Uniti che, sin dagli anni Venti del XX secolo, trasformò la scena religiosa americana, introducendo ritmo, energia e musica nelle sue manifestazioni.

I campioni del rock degli anni Cinquanta – Elvis Presley, Johnny Cash, Little Richard, Jerry Lee Lewis, James Brown – erano tutti originari del sud degli Stati Uniti dove le chiese pentecostali avevano, da tempo, infranto i vecchi stereotipi cupi e grigi associati al protestantesimo tradizionale. Avevano, ad esempio, introdotto gli strumenti musicali nelle funzioni religiose, tra cui il pianoforte, la batteria, gli ottoni e perfino la chitarra. Avevano, inoltre, trasformato le polverose prediche di un tempo in occasioni di allegra convivialità, condotte da pastori carismatici che erano l’esatto opposto dei sacerdoti uggiosi della tradizione cattolica e protestante.

Crescendo in questo ambiente, i pionieri del rock ne assorbirono il fascino, l’energia, perfino i movimenti. Spesso, fu proprio qui che cominciarono a esibirsi ed è da questo ambiente che trassero le prime idee musicali e gestuali. Nel 1958, intervistato sul perché dimenasse il bacino come un ossesso sul palco, Elvis Presley rispondeva: «Canto come cantano nel mio paese. Quando ero più giovane, mi piacevano i quartetti spirituali. Cantano proprio così». Little Richard confessò che, da giovane, avrebbe voluto fare il pastore e di Aretha Franklin si disse che, nei suoi versi, si limitò a sostituire la parola baby a Jesus.

Le chiese evangeliche e pentecostali dell’epoca enfatizzavano il “miracolo” della rinascita spirituale, la meraviglia delle opere di Dio, il parlare “in lingue”, i pericoli concreti dell’azione del Diavolo, la necessità di frequentare le funzioni religiose. Tutto questo si traduceva in una forte enfasi sulla presenza, la parola, la gestualità e la musica. Per i fedeli di queste chiese, la “vera” religione era una religione fatta di movimento, vivacità, teatralità, entusiasmo costante, mani costantemente battute, corde vocali ripetutamente sollecitate, in un trionfo di fede e disinibizione. Nomignoli come bible thumpers e holy rollers, con cui venivano designati, spesso sprezzantemente, i fedeli delle chiese pentecostali, comunicano più di tante parole l’atteggiamento nei confronti della religione di migliaia di persone che si riconoscevano nel pentecostalismo. 

Eppure, come detto, fu spesso proprio dai pulpiti della religione che partirono le più veementi critiche nei confronti del rock, accusato di essere volgare, di incoraggiare l’adorazione di Satana, di abbattere le barriere razziali, favorendo il mescolamento di bianchi e neri, di promuovere il comunismo, di corrompere selvaggiamente la moralità delle giovani generazioni e di iniziarle precocemente a una forma degenerata di sessualità. Alcuni predicatori giunsero a definire il rock and roll come un culto in sé, una manifestazione soprannaturale degli inferi, una trappola per attirare milioni e milioni di giovani nelle spire del Demonio.

Oggi, queste contrapposizioni sono decisamente superate. È raro trovare un predicatore che tuoni contro la musica rock come un tempo. Anzi, esiste addirittura un rock cristiano a testimonianza della capacità fagocitante del cristianesimo nei confronti di quasi tutte le manifestazioni culturali.

La storia del rock ci insegna, però, che spesso gli (apparentemente) opposti si toccano più di quanto non si immagini. Del resto, anche Satana, in origine, era un angelo!

Fonte

Randall J. Stephens, 2016, “‘Where else did they copy their styles but from church groups?’: Rock ‘n’ Roll and Pentecostalism in the 1950s South”, Church History, vol. 85, n. 1, pp. 97-131.

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Il rosario con il metodo del “come se”

Fake it till you make it (“Fingi fino a quando non ci riuscirai”) recita un vecchio adagio anglofono secondo il quale, simulando un determinato comportamento, anche senza credervi, prima o poi si finisce con l’adottare quel comportamento in maniera autentica.

Uno dei maggiori sostenitori di questa tesi è lo psicologo americano William James (1842-1910), il quale più volte nella sua opera torna su questo tema. Un esempio è costituito da un brano di un suo scritto divulgativo intitolato The Gospel of Relaxation.

Le azioni sembrano seguire le emozioni, ma azioni e sentimenti vanno di pari passo; regolando le azioni, che sono più sotto il diretto controllo della volontà, possiamo indirettamente regolare i nostri sentimenti, i quali non sono direttamente controllabili.

Pertanto, il percorso sovrano volontario verso l’allegria, se si perde la nostra allegria spontanea, è di sedersi allegramente, di guardarsi attorno allegramente e di agire e parlare come se l’allegria fosse già lì. Se tale condotta non ti fa sentire presto allegro, nient’altro in quell’occasione può farlo. Quindi, per sentirti coraggioso, comportati come se fossimo coraggiosi, usa tutta la nostra volontà a tal fine e un attacco di coraggio molto probabilmente sostituirà quello di paura (William James “The Gospel of Relaxation” in James, W., 1911, On Vital Reserves. The Energies of Men. The Gospel of Relaxation, Henry Holt and Company, New York, pp. 45-46).

Se comportandoci da coraggiosi si acquista coraggio, simulando la preghiera del rosario si diventa ardenti apostoli del rosario?

Di ciò era convinto, il filosofo Blaise Pascal (1623-1662), il quale in un capitolo dei suoi Pensieri, afferma:

Ma riconoscete almeno che la vostra impotenza di credere proviene dalle vostre passioni, dacché la ragione vi ci porta, e tuttavia non potete credere. Adoperatevi, dunque, a convincervi non già con l’aumento delle prove di Dio, bensì mediante la diminuzione delle vostre passioni. Voi volete andare alla fede, e non ne conoscete il cammino; volete guarire dall’incredulità, e ne chiedete il rimedio: imparate da coloro che sono stati legati come voi e che adesso scommettono tutto il loro bene: sono persone che conoscono il cammino che vorreste seguire e che son guarite da un male di cui vorreste guarire. Seguite il metodo con cui hanno cominciato: facendo, cioè, ogni cosa come se credessero, prendendo l’acqua benedetta, facendo dire messe, ecc. In maniera del tutto naturale, ciò vi farà credere e vi abbruttirà (Blaise Pascal, 1987, Pensieri, Mondadori, Milano, p. 164).

Ecco, dunque, un metodo per credere e divenire ottimi osservanti religiosi. Fare ogni cosa come se ci credessimo davvero al fine di crederci davvero. Lo stesso metodo è suggerito dai cultori del rosario, i quali raccomandano di dedicarsi ininterrottamente a questa pratica per divenirne cultori.

Sembra paradossale, ma “fingere” la credenza ripetutamente può “creare” il vero credente.

Se volete saperne di più su questo strano meccanismo della mente, vii rimando al mio La Sacra Corona. Storia, sociologia e psicologia del rosario (Meltemi, 2024).

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Merton e le conseguenze inattese dell’azione sociale

“The Unanticipated Consequences of Purposive Social Action” (1936) di Robert K. Merton (1910-2003) rappresenta ancora oggi uno degli articoli più influenti della letteratura sociologica internazionale. Per il norvegese Jon Elster, l’articolo può essere annoverato tra i classici della sociologia, oltre a essere tra i più citati. Esso ha influenzato sociologi contemporanei come lo stesso Elster, Giddens, Beck, Elias. Per Alejandro Portes, la lezione di Merton ha fatto della sociologia la disciplina dell’analisi dell’inatteso. I concetti di Merton si sono dimostrati prolifici anche a livello applicativo: sono diversi gli studi che hanno tentato di saggiarne la capacità analitica in riferimento alla tecnologia, alle organizzazioni, ai mutamenti climatici, agli ambienti educativi, alle attività istituzionali, alla creazione di norme, alla politica.

Stranamente, come spesso accade in Italia, l’articolo non è stato mai tradotto nella nostra lingua o, se lo è stato, la traduzione si trova ormai in qualche polverosa, sebbene meritoria, antologia di autori.

Dal miracolo di San Gennaro ai comportamenti aggressivi dei tifosi, dagli effetti “perversi” delle moderne tecnologie alla scomparsa della scatologia telefonica, sono molti i fenomeni sociali che possono essere spiegati attraverso il modello delle “conseguenze non previste dell’azione sociale dotata di scopo”.

Qui potete trovare la traduzione dell’articolo di Merton con una mia corposa introduzione.

Un testo che merita di essere letto e meditato.

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“Strane” preghiere nella Bibbia

Fare una ricognizione delle preghiere presenti nella Bibbia è impresa improba, complicata dal fatto che spesso la preghiera si presenta sotto forma di voto o invocazione e che il libro dei Salmi nell’Antico Testamento è un libro interamente di preghiere. Le preghiere sono dappertutto, anche perché rappresentano l’unico modo lecito di comunicare con Dio. Non si parla con Dio come si parlerebbe con un altro essere umano. Il rapporto non può che essere asimmetrico e la Bibbia è un libro comunicativamente asimmetrico.

Vorrei soffermarmi in questa sede su due preghiere contenute nel Vecchio Testamento che hanno attirato la mia attenzione.

La prima si trova in Genesi 28,20-22 ed è così descritta:

Giacobbe fece un voto, dicendo: «Se Dio è con me, se mi protegge durante questo viaggio che sto facendo, se mi dà pane da mangiare e vesti da coprirmi, e se ritorno sano e salvo alla casa di mio padre, il SIGNORE sarà il mio Dio e questa pietra, che ho eretta come monumento, sarà la casa di Dio; di tutto quello che tu mi darai, io certamente ti darò la decima».

Secondo Origene (185-214), uno dei più importanti teologi cristiani dei primi tre secoli, la preghiera appena citata può essere considerata la prima preghiera della Bibbia ed è curioso osservare che proprio la prima preghiera della Bibbia è una proposta di… voto di scambio. Sì, esattamente così. Il voto di Giacobbe promette a Dio la decima a condizione che questi lo faccia ritornare a casa sano e salvo, non dissimilmente da quanto farebbe un cittadino comune pronto a votare per un candidato in cambio di un favore di qualche tipo. Insomma, la prima preghiera della Bibbia non appare esattamente disinteressata. Un po’ come succede ancora oggi dal momento che la maggior parte delle preghiere rivolte a Dio riguarda la concessione di qualcosa che, per lo più, attiene alla salute, all’amore o al lavoro.

La seconda preghiera si trova in Esodo 17, 8-16:

Allora Amalek venne a combattere contro Israele a Refidim. Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalek. Domani io starò ritto sulla cima del colle con in mano il bastone di Dio». Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalek, mentre Mosè, Aronne, e Cur salirono sulla cima del colle. Quando Mosè alzava le mani, Israele era il più forte, ma quando le lasciava cadere, era più forte Amalek. Poiché Mosè sentiva pesare le mani dalla stanchezza, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. Giosuè sconfisse Amalek e il suo popolo passandoli poi a fil di spada. Allora il Signore disse a Mosè: «Scrivi questo per ricordo nel libro e mettilo negli orecchi di Giosuè: io cancellerò del tutto la memoria di Amalek sotto il cielo!». Allora Mosè costruì un altare, lo chiamò «Il Signore è il mio vessillo» e disse: «Una mano s’è levata sul trono del Signore: vi sarà guerra del Signore contro Amalek di generazione in generazione!

Sì, avete capito bene. La preghiera di Mosè è efficace solo finché le mani del liberatore del popolo di Israele sono alzate. Non appena le lascia cadere, gli effetti dell’invocazione vengono meno al punto che Aronne e Cur sono costretti a sostenere le sue braccia! Come dire che la potenza della preghiera dipende non da ciò che si dice, ma dalla gestualità sottomessa che accompagna la parola. Il Dio di Esodo è un Dio che non dialoga con l’uomo da pari a pari, ma esige una costante sottomissione, perfino quando si prega. Solo prostrandosi in modo bizzarro e servile, l’uomo può sperare di avere un favore dalla divinità. Le sue mani devono essere sempre in alto, ben visibili dall’alto dei Cieli o il favore della divinità andrà ad altri. Più che una preghiera, un ricatto, una forma di sadismo, una prevaricazione.

Nella Bibbia sono presenti decine di preghiere “strane”. Sarebbe interessante raccoglierle e commentarle tutte.

In attesa che ciò avvenga, vi raccomando la lettura del mio La Sacra Corona. Storia, sociologia e psicologia del rosario, che offre un punto di vista inedito su una delle più straordinarie preghiere inventate dalla tradizione cattolica.

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Il mito dei dilettanti e dei professionisti nello sport

Possiamo dire che, a causa del barone de Coubertin siamo vittime di un grave fraintendimento – anzi di una vera e propria mistificazione – a proposito della dicotomia “atleta dilettante” – “atleta professionista”.

Come è noto il barone rifondò i giochi olimpici individuandone l’essenza nella distinzione tra dilettanti e professionisti. Solo i primi potevano partecipare ai giochi perché ritenuti “puri” e incarnanti il vero spirito della competizione. de Coubertin traeva questa convinzione dall’idea che nel mondo greco vi fosse una netta distinzione tra le due categorie: dilettante è un atleta che non trae profitto economico dallo sport; professionista è un atleta che ricava un guadagno dalla sua attività sportiva. A questa distinzione si associava un giudizio etico a tutto favore del primo e a scapito del secondo. Escludere, quindi, i professionisti dai giochi Olimpici era la logica conseguenza di questo modo di pensare.

Il problema è che quello del “dilettante” è un mito che falsamente si vuole attribuire alla Grecia antica. Come racconta la storica Paola Angeli Bernardini:

I Greci che si dedicavano all’agonistica sportiva non erano «gentlemen» inglesi e dalla loro attività hanno sempre tratto grossi vantaggi economici, politici e sociali. Ciò non significa che in qualche antica città della Grecia non vi fossero atleti nobili e ricchi interessati a gareggiare più per l’onore della vittoria […] che per premi tangibili, ma significa che di questa possibilità si è voluto fare una regola e che si è voluto vedere un modello là dove non c’era.

In realtà non risulta che i Greci si ponessero il problema del dilettantismo e del professionismo in maniera così drammatica. Partiamo dal dato linguistico che è quello che può fornire una prima indicazione. Esiste un termine greco per indicare l’atleta dilettante? Ne esiste uno per indicare l’atleta professionista? Intanto le parole che più comunemente definiscono colui che pratica lo sport agonistico sono athletès la cui radice si ricollega a àethlos o athlos = gara, e agonistès che è formato su agòn = lotta, scontro. Ad ambedue è estranea sia l’idea del dilettantismo, sia quella del professionismo. La prima accezione non compare in nessun termine greco antico, la seconda – che si esprime mediante termini come techne, epitèdeuma e i loro derivati – si applica a varie categorie di persone che esercitano una professione (attori, medici, allenatori, ecc.), ma non ricorre mai nei documenti ufficiali relativi agli atleti. Affiora, invece, negli autori che si servono di questa terminologia (ad es. kakotechnìa) per muovere critiche a coloro che si dedicano all’atletica (Angeli Bernardini, 1988, pp. XIV-XV).

Sono solo i moderni che hanno scorto in questa distinzione un motivo culturalmente rilevante, arrivando al punto di individuare nel professionismo la causa della decadenza dei giochi antichi.

In realtà, la vera distinzione era quella tra athletès, l’atleta che si dedica alla sua attività in maniera continua e costante, arrivando a possedere, grazie alla preparazione fisica, una tecnica e un’esperienza che lo distinguono dagli altri, e idiòtes, termine che non designa in greco colui che pratica lo sport senza ricavarne compensi, ma colui che si dedica alla pratica sportiva saltuariamente e senza un allenamento costante. La contrapposizione per i Greci non era, dunque, di tipo socioeconomico, ma riguardava piuttosto le modalità della prestazione (Angeli Bernardini, 1988, pp. XIV-XV).

Ancora oggi, paghiamo le conseguenze della credenza di de Coubertin, tanto da ritenere che il professionismo specializzato sia la causa di tutti i mali dello sport contemporaneo, accusato di essere campo d’azione di venali mercenari senza patria e senza bandiera in contrapposizione ai “veri” atleti di un tempo, più “poveri”, ma dotati di valori umani. La verità, però, è che, senza il professionismo, gli atleti per cui facciamo il tifo non sarebbero così capaci, competenti e preparati: solo una dedizione assoluta, e a tratti ossessiva, allo sport che si pratica consente, infatti, di ottenere risultati straordinari che nessun dilettante potrebbe mai sognarsi.

Per questo e altri miti sullo sport, in particolare sul calcio, rimando al mio: Hanno visto tutti! Nella mente del tifoso dove propongo una interpretazione razionalmente critica di molti luoghi comuni sullo sport e sul calcio.

Riferimento

Angeli Bernardini, P. (a cura di), 1988, Lo sport in Grecia, Laterza, Roma-Bari

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Sociologia del caffè

Esiste una sociologia del caffè? Una distribuzione sociale del gusto per questa particolare bevanda? D’istinto potremmo rispondere negativamente. Oggi tutti bevono caffè. Ricchi e poveri, occidentali e orientali, americani ed europei.

Eppure, racconta lo storico e sociologo Wolfgang Schivelbusch, è esistita un’epoca in cui il caffè ha contraddistinto la borghesia in opposizione all’aristocrazia, maggiormente incline al cioccolato. In particolare, è esistita un’epoca in cui il caffè ha incarnato lo spirito razionalistico e pragmatico dei tempi moderni, in cui la sua essenza stava alla sete come Diderot e Voltaire stavano alle idee.

Scrive Schivelbusch:

Il borghese […] è un lavoratore sempre più di concetto; il suo posto di lavoro è l’ufficio, la sua posizione usuale è quella dello stare seduto. L’ideale che egli si propone è quello di funzionare con la costanza e la regolarità d’un orologio (si ricordi in proposito il modo di vivere di Kant).

È dunque evidente come questo nuovo modo di vivere e di lavorare influenzi tutto l’organismo; su tutto questo, il caffè agisce come droga d’importanza storica. Impregnando il corpo esso provoca, dal punto di vista chimico-farmacologico, ciò che il razionalismo e l’etica protestante ottengono dal punto di vista ideologico-spirituale. Attraverso il caffè il principio razionalistico trova l’accesso alla fisiologia dell’uomo e lo configura in modo corrispondente alle proprie necessità. Il risultato che ne consegue è un corpo che funziona secondo le nuove esigenze, un corpo razionalistico, borghese-progressista (Wolfgang Schivelbusch, 2000, Storia dei generi voluttuari. Spezie, caffè, cioccolato, tabacco, alcol e altre droghe, Bruno Mondadori, Milano, pp. 44-46).

A pensarci bene, ancora oggi il caffè contribuisce a plasmare il corpo in maniera razionalistica ed efficientistica: il caffè ridesta lo spirito, ravviva i sensi, rende funzionante e funzionale il lavoratore della società dei servizi, sempre più addicted a occupazioni impietose e cronofagocitanti.

Il caffè è oggi la droga voluttuaria più democratica che esista. La assumono tutti – borghesi e aristocratici – perché tutti sono chiamati a conformarsi ai ritmi di una società turbocapitalistica che va sempre più di fretta e ha bisogno di stimolanti che sorreggano l’attività di coloro che ne permettono il funzionamento.

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È vero perché è capitato a me (o a un amico)

Potremmo definirlo il potere dell’aneddoto. Lo abbiamo visto all’opera durante la recente pandemia di Covid-19, quando abbiamo sentito No-vax e persone comuni affermare con convinzione: «Un mio amico/parente/conoscente si è vaccinato e la settimana dopo si è sentito male. Per questo non mi sono vaccinato». Lo stesso argomento è stato utilizzato in chiave negativa: «Tanti miei amici non si sono vaccinati contro il Covid-19 e stanno benissimo. Perché, dunque, vaccinarsi?».

Sebbene, da un punto di vista epidemiologico, la percentuale di coloro che hanno avuto una reazione avversa alla somministrazione del vaccino sia minima, testimonianze come quelle descritte e fatti di cronaca sensazionalmente riportati dai media hanno diffuso la percezione che gli effetti indesiderati dei vaccini siano stati molto più numerosi e letali di quanto non siano stati in realtà. Tutto questo grazie al potere dell’aneddoto.

Pensiamoci: abbiamo intenzione di andare a vedere l’ultimo film di Paolo Sorrentino, quando il nostro più caro amico ci dice di averlo visto e di esserne stato deluso. Quante probabilità ci sono che la sua opinione condizionerà le nostre scelte? Ugualmente, il consiglio dell’amico che ha cenato nel locale di recente apertura, “spendendo poco e mangiando bene” è probabile che sarà decisivo nella scelta del ristorante dove pranzeremo prossimamente con moglie e figli. Certo, potremmo leggere decine di recensioni positive o negative su un film o un ristorante, ma è probabile che la testimonianza dell’amico o del parente abbia un’influenza più vivida su di noi.

Talvolta, questo tipo di ragionamento si traduce in un vero e proprio pregiudizio negativo, come nell’esempio seguente:

Sono stato a Genova. Non ti consiglio di andarci. Sono stato quasi investito da un’auto. I genovesi proprio non sanno guidare.

In questo caso, la testimonianza di un singolo individuo, a noi noto, pretende di generalizzare un’esperienza, traendo da essa un giudizio negativo nei confronti dell’insieme dei genovesi da condividere, ovviamente, con tutti quelli che vogliono andare a Genova.  

Rimanendo in tema sanitario, a tutti è capitato di avere a che fare con individui che affermano con convinzione: «Mio nonno fumava due pacchetti di sigarette al giorno ed è vissuto fino a ottantanove anni. E poi dicono che fumare fa male!». Oppure: abbiamo un problema di salute e dobbiamo consultare uno specialista. Che cosa facciamo? Chiediamo a parenti e amici e ci rivolgiamo al medico con il quale Teresa “si è trovata bene” o Antonio ha risolto il suo disturbo.

Si tratta di ragionamenti fallaci che pretendono di istituire facili generalizzazioni o norme comuni di condotta a partire da singole esperienze e sporadiche testimonianze, il cui unico merito è quello di vedere protagoniste persone che conosciamo in maniera diretta o indiretta. Il fatto che il nostro amico Giuseppe sia in buona salute senza essersi mai vaccinato non costituisce affatto una prova contro l’utilità dei vaccini. Il singolo aneddoto non regge il confronto con gli esiti della ricerca scientifica, che si basa su studi epidemiologici e clinici condotti su migliaia di soggetti. Ugualmente, il fatto che mio nonno sia vissuto fino alla soglia dei novant’anni pur essendo un accanito fumatore non significa che fumare non faccia male, come dimostrano migliaia di evidenze empiriche di segno contrario. Insomma, come recita un noto adagio americano, the plural of anecdote is not data (“il plurale di aneddoto non è dati”). Non basta mettere insieme una serie di racconti e storie di amici e parenti per giungere alla verità su un determinato fenomeno. Un solo dato non può fondare una teoria.

Eppure, la “fallacia dell’aneddoto” o “dell’evidenza aneddotica” – la fallacia consistente, appunto, nel sostenere la verità di una teoria utilizzando un aneddoto a conferma – è alla base, come abbiamo visto, di tanti discorsi della vita quotidiana e si insinua in tanti nostri ragionamenti che partono da esperienze personali fino a divenire luogo comune dato per scontato. Si può dire che tutti noi viviamo di aneddoti e di generalizzazioni di esperienze aneddotiche. Tutti noi presumiamo che la nostra esperienza personale sia rappresentativa di ciò che accade a tantissimi individui come noi. È come se agisse una sorta di egocentrismo cognitivo in virtù del quale ci riteniamo al centro del mondo. In un certo senso, è più forte di noi. Non riusciamo a farne a meno.

Così, è un luogo comune adoperare le proprie esperienze personali per dimostrare un assunto, ma le esperienze personali non dimostrano alcunché. Posso dire di aver visto un UFO, ma il fatto che lo abbia visto non può essere adoperato per dimostrare l’esistenza degli UFO.

Ma se le evidenze aneddotiche non consentono di conoscere oggettivamente ciò che accade nel mondo perché tendiamo a confidare così tanto in esse? Perché la fallacia dell’“È vero perché è capitato a me/a un mio amico” è così dilagante nei nostri ragionamenti e nelle nostre conversazioni di ogni giorno.

Per una serie di ragioni. La prima è che l’aneddoto ci fornisce informazioni in forma narrativa e personale e molte ricerche hanno dimostrato in maniera significativa che le persone sono maggiormente persuase dalle storie che da numeri e statistiche. Un caro amico che gode di buona salute e che ci riferisce di aver sperimentato forti effetti avversi dopo una vaccinazione avrà sulla nostra mente un impatto maggiore di un insieme di dati che dimostrano che gli effetti avversi riguardano un numero limitato di individui e sono, per lo più, trascurabili. La testimonianza calda e personale dell’amico risulterà più persuasiva delle informazioni fredde e distanti offerte dai numeri (Kahneman, 2013). La ricerca scientifica ha dimostrato che ciò avviene anche quando si tratta di prendere decisioni importanti per il proprio futuro scolastico. Borgida e Nisbett (1977), ad esempio, hanno rilevato che la scelta di quale corso di studi intraprendere è più influenzata da raccomandazioni aneddotiche ricevute da altri studenti che da statistiche informative.

A ciò, possiamo aggiungere l’azione di un altro tipo di fallacia, individuata dal filosofo Bertrand Russell (1872-1970), denominata “Induzione popolare”. In sintesi, le persone tendono a compiere generalizzazioni spontanee a partire da pochi esempi occasionali soprattutto se questi posseggono una forte “carica emotiva”. Ad esempio, tenderanno a valutare maggiore il rischio che un evento nefasto possa accadere se questo stimola maggiori reazioni emotive. In altre parole, la valutazione del rischio si basa spesso più sull’impatto psicologico ed emozionale dello stesso che su numeri obiettivi (Piattelli Palmarini, 1993).

Un’altra ragione per cui la “fallacia dell’aneddoto” si introduce così subdolamente nei nostri ragionamenti sta nel fatto che questi si basano spesso sulla cosiddetta “euristica della disponibilità”, ossia sul fatto che, nelle decisioni, tendiamo a dare maggiore importanza ai fatti o eventi che più facilmente richiamiamo alla mente. Ad esempio, se siamo invitati a stimare la probabilità di essere feriti in un incidente stradale, tenderemo a giudicare alta tale probabilità se un parente o amico è rimasto vittima recentemente di un incidente stradale.  Oppure: se siamo invitati a stimare la probabilità di rimanere vittime di un incidente aereo rispetto a un incidente automobilismo, tendiamo a giudicare la prima superiore alla seconda, contro ogni statistica esistente, per il semplice fatto che le notizie di incidenti aerei hanno maggiore visibilità di quelle di incidenti automobilistici e, quindi, sono più facilmente richiamate alla memoria (Calemi, Paolini Paoletti, 2014, pp. 57-58). Allo stesso modo, le valutazioni di una persona cara su un determinato fenomeno saranno più facilmente ricordate rispetto a quelle fornite freddamente dal telegiornale della sera. È il prezzo, in un certo senso, che paghiamo per il fatto di essere umani.

Gli aneddoti sono dotati anche di una maggiore vividezza rispetto ad altri tipi di informazioni e le persone tendono ad attribuire una maggiore attendibilità o verosimiglianza a informazioni concrete, salienti, personalmente rilevanti o facilmente percepibili rispetto a informazioni astratte, impersonali, espresse in forma matematica o statistica o riguardanti fatti distanti da noi. E questo anche se le informazioni astratte contengono un valore di verità superiore a quelle delle informazioni vivide. Così, se, entrando in un negozio, “sperimentiamo” che in esso sono praticati sconti superiori alla media, questa informazione avrà su di noi un impatto sicuramente maggiore che se acquisiamo la medesima informazione da un conoscente. Allo stesso modo, un aneddoto ci appare molto più vivido di un complesso insieme di dati statistici: se a un nostro amico capita di essere derubato in una determinata area della nostra città, questa informazione avrà un impatto sul nostro sistema di pensiero molto maggiore di un freddo complesso di numeri che rappresenta statisticamente i tassi di criminalità presenti in quell’area (Michal, Zhong, Shah, 2021).

In conclusione, la “fallacia dell’aneddoto” si dimostra particolarmente pericolosa. Essa ci induce a credere nella verità di alcune informazioni solo perché sono rappresentate dalla nostra mente in maniera narrativa, immediatamente disponibile e vivida. In particolare, è alto il rischio di sottovalutare la portata di alcune informazioni rilevanti a vantaggio di informazioni di importanza secondaria, il cui unico merito è di apparire più “calde”. L’implicazione più preoccupante dell’aneddoto come criterio di verità è che alcuni tipi di informazioni, per quanto preziose, eserciteranno un’influenza minima su di noi solo perché sono in forma non narrativa, fredda e astratta. Ciò è vero in particolare per i dati statistici, certamente privi del fascino di una storia personale, ma dotati spesso di un contenuto di verità maggiore.

La morale, come dicevano gli antichi, è che dobbiamo saper vagliare con attenzione informazioni ed eventi che ci coinvolgono in prima persona e imparare a diffidare dei loro contenuti. Non sempre ciò che ci colpisce di più è più vero. Non sempre un aneddoto è più aderente alla realtà di un grafico statistico. Anche se la tentazione di generalizzare affrettatamente a partire da un episodio accaduto a noi o a qualcuno che conosciamo è grandissima e può, talvolta, contribuire a generare pregiudizi e stereotipi molto vischiosi, come ci insegna l’aneddoto sui genovesi citato in precedenza.

Riferimenti

Borgida, E., Nisbett, R. E., 1977, “The differential impact of abstract vs. concrete information on decisions”, Journal of Applied Social Psychology, vol. 7, n. 3, pp. 258–271.

Calemi, F. F., Paolini Paoletti, M., 2014, Cattive argomentazioni: come riconoscerle, Carocci, Roma.

Kahneman, D., 2013, Pensieri lenti e veloci, Mondadori, Milano.

Michal, A. L., Zhong, Y., Shah, P., 2021, “When and why do people act on flawed science? Effects of anecdotes and prior beliefs on evidence‑based decision‑making”, Cognitive Research: Principles and Implications, vol. 6, n. 1.

Piattelli Palmarini, M., 1993, L’illusione di sapere. Mondadori, Milano.

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“Di questo passo chissà dove andremo a finire!”

“Se continua così, dovrò chiedere l’elemosina in strada”, si lamenta la non più giovane signora al supermercato, commentando il recente aumento dei prezzi.

“Se non ci diamo una regolata, tra 25 anni la Terra diventerà un pianeta inabitabile” osserva sconsolato il giovane ecologista, sconvolto dal caldo eccessivo delle giornate agostane.

“Se i governanti continuano su questa china, non riuscirò mai ad andare in pensione” commenta avvilito il dipendente pubblico di fronte all’ennesima riforma del sistema previdenziale.

“Di questo passo chissà dove andremo a finire” – con le sue innumerevoli varianti – è indubbiamente uno dei luoghi comuni più pervasivi del discorso pubblico.  Se i tempi in cui viviamo sono “i peggiori di sempre”, tanto da suscitare infinite nostalgie per il “paradiso” nella nostra infanzia (“Oh, i bei tempi andati!”), la nostra epoca è anche quella in cui le decisioni prese, in ogni settore, conducono rapidamente a esiti calamitosi. Così, per ogni proposta concepita ci sarà sempre un bastian contrario che enumererà le conseguenze finali nefaste derivanti dall’adozione della proposta.

«Se riconosciamo i diritti degli omosessuali, ci ritroveremo ad abolire per legge l’eterosessualità e l’omosessualità diventerà la nuova normalità», sbraita l’omofobo che proprio non vuole sentire parlare di LBGTQ++. «Se concederemo lo ius scholae (la nazionalità italiana a chi è nato in Italia e ha frequentato almeno cinque anni di scuola), concederemo anche lo ius soli (la cittadinanza italiana a chi è nato in Italia) e da qui all’invasione inarrestabile degli immigrati il passo sarà breve», obietta chi vede nello straniero un nemico da cui guardarsi sempre con sospetto. «Se legalizziamo la marijuana, la gente comincerà a prendere crack ed eroina e dovremo legalizzare anche questi. In poco tempo ci ritroveremo in una nazione di drogati», sentenzia il proibizionista contrario alla legalizzazione.

Tutte queste argomentazioni condividono il medesimo errore che la logica conosce da tempo e che è stato battezzato con molteplici nomi a indicazione, forse, della sua onnipresenza nelle conversazioni e considerazioni quotidiane.

In inglese viene definito slippery slope. In italiano: fallacia del pendio sdrucciolevole, della brutta china, del dito nell’ingranaggio o dell’argine che si rompe. Oppure: appello alle conseguenze negative. La fallacia dello slippery slope consiste, appunto, nell’affermare che, se un evento accadrà, accadranno altri eventi dannosi a catena, sempre più disastrosi, fino al rovinoso baratro conclusivo.  In altri termini, accettare una tesi A porterà ad accettare una tesi B pericolosa, ma accettare una tesi B porterà ad accettare una tesi C ancora più pericolosa, fino ad arrivare a una tesi Z, ritenuta universalmente inaccettabile. L’argomento si basa sul presupposto non dichiarato secondo cui solo uno fra tutti i possibili esiti di un evento accadrà con certezza e inevitabilità e questo è il più negativo possibile. Così, anche se non vi sono prove che un evento provocherà necessariamente altri eventi dannosi a catena, la convinzione è che, se si imbocca una certa strada, ci ritroveremo immediatamente a scivolare pericolosamente verso la peggiore china possibile.

In letteratura, è possibile trovare numerosi esempi di questo tipo di fallacia. Il seguente è tratto da un libro dedicato alle fallacie logiche:

Mi oppongo ad abbassare il limite di età per bere alcolici da ventuno a diciotto anni. Questo potrà solo condurre a ulteriori richieste di scendere a sedici, poi a quattordici, e prima che ce ne rendiamo conto i nostri neonati avranno cominciato a poppare vino piuttosto che il latte materno (Pirie, 2011, p. 202).

Un altro esempio riguarda l’aborto:

Se si è legalizzato l’aborto entro i primi tre mesi di gravidanza, allora occorre legalizzare anche l’aborto oltre i primi tre mesi di gravidanza. Ma se occorre legalizzare l’aborto oltre i primi tre mesi di gravidanza, allora occorre legalizzare anche l’infanticidio. E se occorre legalizzare l’infanticidio, allora occorre legalizzare anche l’omicidio. Ma la legalizzazione dell’omicidio è inaccettabile, dunque è inaccettabile la legalizzazione dell’aborto entro i primi tre mesi di gravidanza (Calemi, Paolini Paoletti, 2014, p. 36).

L’ecologia non sfugge alla tentazione dello slippery slope:

Le case dovrebbero essere riscaldate soltanto per il tempo strettamente necessario. In caso contrario, si avrà un aumento della temperatura della Terra, al quale seguirà una maggiore concentrazione di anidride carbonica nell’aria. Questo favorirebbe l’effetto serra, quindi un ulteriore aumento della temperatura, con il conseguente scioglimento delle calotte polari e l’innalzamento del livello dei mari. Gli effetti sarebbero disastrosi per tutto il genere umano (Boniolo, Vidali, 2002, pp. 110-111).

Sebbene l’ultimo enunciato non consegua logicamente dal primo, questo tipo di monito è oggi ampiamente diffuso anche grazie alla popolarità delle tesi ecologiste.

Oriana Fallaci usa l’appello alle conseguenze negative nel suo pamphlet bestseller La rabbia e l’orgoglio. Qui, si dichiara contraria a ogni apertura nei confronti dell’Islam perché, altrimenti, «al posto delle campane ci ritroviamo i muezzin, al posto delle minigonne ci ritroviamo il chador, al posto del cognacchino il latte di cammella» (cit. in Cantù, 2011, p. 11).

Talvolta, la fallacia del pendio sdrucciolevole assume una forma che i logici definiscono del “treno in corsa”, un argomento fallace che porta un esempio ragionevole alle estreme conseguenze, senza fermarsi, fino a farlo diventare irragionevole. Un esempio tipico di treno in corsa è il seguente:

Per la nostra sicurezza, dovremmo abbassare il limite di velocità in città a 30 km».

«E perché non a 20 o 10?».

Estendere un buon argomento oltre un certo limite può condurre a conseguenze paradossali, come nell’esempio proposto in cui l’immobilità dei veicoli diviene il comportamento da tenere per avere più sicurezza.

Una variante estrema della “brutta china”, per Adelino Cattani, è la “tesi della perversità”, la quale afferma che, in ultima analisi, gli effetti conseguiti da un corso di azione non saranno solo indesiderati, ma opposti a quelli attesi (Cattani, 2011, p. 131).

Tornando allo slippery slope classico, la sua variante più nota e diffusa è probabilmente quella riassumibile nell’ammonimento morale: “Si inizia con lo spinello e si finisce con l’eroina”. Nella letteratura scientifica, tale ammonimento prende il nome di gateway theory o “teoria del passaggio”. Si tratta dell’assunto secondo cui l’uso di droghe “leggere” come la marijuana conduce inevitabilmente all’uso di droghe più “pesanti” come eroina o cocaina. Questa tesi è sostenuta non solo da cittadini comuni, ma anche da moralisti, politici e amministratori. In Italia, personalità come Gianfranco Fini, Umberto Bossi e Carlo Giovanardi, Bettino Craxi, Ignazio La Russa, Girolamo Sirchia, Antonio Tajani, Pier Ferdinando Casini hanno fatto della “teoria del passaggio” uno dei loro cavalli di battaglia politici preferiti.

Ma quanta verità c’è nella gateway theory? In realtà, pochissima. Essa, infatti, si basa su un grave errore logico. Una delle regole principali di chi si occupa di statistica è che una correlazione non è una relazione causa-effetto. In altre parole, se due fenomeni coesistono non significa che uno di essi sia causa dell’altro. Dire che lo spinello porta al consumo di droghe pesanti è come dire che chi gioca a tombola diventerà un giocatore d’azzardo. Se è vero che chi usa droghe pesanti ha iniziato con droghe leggere non è necessariamente vero che usare droghe leggere porterà automaticamente al consumo di droghe pesanti. Così come sarebbe falso dire che il consumo di nicotina provoca la dipendenza da eroina solo perché molti eroinomani fumano o hanno fumato sigarette. Del resto, a nessuno verrebbe in mente di criminalizzare il consumo sporadico di vino o birra per il fatto che gli alcolizzati hanno iniziato bevendo un bicchiere di vino o birra. Ugualmente, se si gioca una volta al casinò non necessariamente si svilupperà una dipendenza da gioco. Però è probabile che un giocatore d’azzardo compulsivo avrà iniziato giocando una o due partite (Kramer, Trenkler, 1999, pp. 131-132).

La fallacia dell’argomentazione secondo cui “Si inizia con lo spinello e si finisce con l’eroina” appare evidente, se solo riflettiamo su alcuni casi storici significativi come ciò che accadde negli Stati Uniti al tempo del cosiddetto “proibizionismo”, il periodo fra il 1920 e il 1933 in cui era proibito produrre, vendere, importare e consumare alcool. In quel decennio, politici e cittadini comuni minacciavano che se la produzione e il consumo di alcol fossero stati legalizzati, l’America sarebbe diventata una nazione di etilisti e le strade sarebbero traboccate di alcolizzati a ogni angolo. Cosa che, come sappiamo, non è mai accaduta. Tuttavia, nonostante le smentite della storia, la credenza nella gateway theory rimane salda e difficile da scalzare e appare profondamente radicata nel senso comune.

Incidentalmente, la relazione tra spinello e droghe pesanti potrebbe avere un diverso fondamento. Chi consuma hashish potrebbe frequentare gli stessi ambienti che frequenta chi consuma droghe pesanti o condividere la stessa condizione di marginalità ed essere, quindi, più esposto a certe “tentazioni”. Ma, anche quest’argomentazione, a ben vedere, è discutibile. Non necessariamente coloro che condividono un certo ambiente condividono gli stessi gusti e gli stessi stili di vita, anche se la probabilità che ciò avvenga è ovviamente maggiore.

La fallacia dell’appello alle conseguenze negative è particolarmente sfruttata in argomentazioni morali e politiche sotto la forma: «Se lasciamo accadere questo, seguirà un male peggiore». Come strategia argomentativa è utilizzata quando si vuole opporsi all’adozione di un provvedimento politico o amministrativo e, più in generale, quando ci si vuole opporre al cambiamento perché, in fondo, non c’è nessuna proposta per la quale non possa essere concepito un esito finale catastrofico. Per la sua natura, è particolarmente adoperato dagli schieramenti conservatori per difendere lo statu quo e ottenere consenso intorno a temi sensibili su cui alcune parti sociali esprimono una volontà di cambiamento.

Forse è proprio per questo motivo che, nonostante la sua illogicità, lo slippery slope continua ad avere successo: in fondo gli esseri umani temono le novità e, pur di non cambiare, sono disposti a condannare ogni mutamento dal quale – essi argomenteranno – non possono che derivare conseguenze negative. Chi lascia la via vecchia per la nuova…

Riferimenti

Arnao G., 1991, Proibizionismo antiproibizionismo e droghe, Stampa Alternativa, Roma.

Boniolo, G., Vidali, P. 2002, Strumenti per ragionare, Bruno Mondadori, Milano.

Calemi, F. F., Paolini Paoletti, M., 2014, Cattive argomentazioni: come riconoscerle, Carocci, Roma.

Cantù, P., 2011, E qui casca l’asino. Errori di ragionamento nel dibattito pubblico, Bollati Boringhieri, Torino.

Cattani, A., 2011, 50 discorsi ingannevoli. Argomenti per difendersi, attaccare, divertirsi, Edizioni GB, Padova.

Kramer W., Trenkler G., 1999, Dizionario dei luoghi comuni e delle credenze popolari, Sperling & Kupfer, Milano.

Pirie, M., 2011, Come avere sempre ragione. Usare la logica, abusarne e difendersi, Ponte alle Grazie, Milano.

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Gilbert Chesterton e i lombrosiani

Che ti aspettavi, un mostro? Non riesci a capacitarti, vero? Non ho giustificazioni da offrire. Non ho un perché che ti farebbe dormire sogni tranquilli. Non ho subito traumi infantili. Non mi hanno molestato da piccolo. Mamma non ha abusato di me. Papà non mi ha violentato. Sono fatto così e basta. Non c’è niente da spiegare.

Sono le parole con cui il torturatore sadico Machine, all’anagrafe George Anthony Higgins, un uomo con pochi capelli e gli occhiali, che vive ancora con la madre, si presenta allo sconcertato Tom Welles, interpretato da Nicolas Cage, dopo essersi tolto la maschera, nel film 8mm. Delitto a luci rosse (1999) diretto da Joel Schumacher e interpretato dallo stesso Cage e da Joaquin Phoenix.

Le parole del “mostro” dall’aspetto ordinario, dalla vita del tutto normale, se non mediocre, sconvolgono Wells, il quale crede evidentemente che dietro alla efferata crudeltà dimostrata da George per tutta la durata della pellicola, si celi un essere dalle sembianze teratologiche, straordinariamente demoniache, rimanendo deluso dal suo volto spiazzante di miope disarmato. Un caso di assoluta banalità del male, potremmo chiosare.

Le parole di Machine sconcerterebbero anche tanti criminologi passati e presenti, convinti dell’esistenza di una corrispondenza “scientifica” tra caratteristiche fisiche, biologiche, anatomiche e tratti di personalità criminali. Sconvolgerebbero, in particolare, tanti lombrosiani e neolombrosiani che di tale corrispondenza hanno fatto il proprio mantra professionale.

Il problema è che, al di là delle continue falsificazioni che le teorie biologiche della criminalità hanno ricevuto e continuano a ricevere, una delle fallacie principali dei dogmi su cui esse si reggono sta nel fatto che pretendono di ricavare informazioni sulla moralità delle persone dalla conformazione del cranio o da altre peculiarità fisiche, senza però sapere che cosa debba intendersi per moralità. A meno, ovviamente, di non far coincidere la moralità con l’adesione più bovina a una concezione convenzionale e rigida della stessa. Ad esempio, a una concezione piccolo borghese secondo cui chiunque non fosse sposato con figli e non ambisse a un “posto fisso” e a una pensione a fine carriera dovrebbe essere tacciato di anormalità e mostrare “segni” della stessa in una qualche caratteristica corporea.

Non a caso le “gallerie d’arte” dei lombrosiani sono zeppe di ritratti di indigenti, ladri, immigrati, assassini, ribelli, rivoluzionari, artisti, spostati e altri devianti su cui “esplodono” le proprie tesi. Spesso con il tipico meccanismo della “profezia retrospettiva” che contraddistingue una certa grafologia quando attribuisce determinate caratteristiche morali a determinati tratti di penna di cui già si conosce l’autore. Allo stesso modo, lombrosiani e frenologi accordano patenti di immoralità o delinquenza a crani e bitorzoli sulla base della conoscenza del “proprietario” di quelle forme o dell’appartenenza socio-economico-culturale di quello, preventivamente valutata in forza di precise tassonomie elaborate in precedenza, ma olezzanti di pregiudizi grossolani, percepibili a miglia di distanza.

È questo l’argomento principale che lo scrittore britannico Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) avanza in un breve articolo dal titolo A Criminal Head, tratto dalla raccolta Alarms and Discursions (1911), che qui trovate nella mia traduzione. Assestando un colpo mortale alla criminologia del suo tempo, Chesterton individua nella mancanza di conoscenza morale il suo più grosso limite: non si può dire che una mandibola prognata o una “fossetta occipitale mediana” (qualsiasi cosa costituisca questo celebre oggetto culturale lombrosiano) siano senz’altro rivelatrici di una tendenza amorale o all’umore cupo, se non si ha un’idea di che cosa debba intendersi per amoralità o per infelicità. O se si giudica l’amoralità e l’umore tetro solo in base a definizioni angustamente prestabilite. Ad esempio, non si può accusare una persona senza fissa dimora di anormalità solo perché il possedere una casa in una società borghese è la normalità. Fra l’altro, si dovrebbe spiegare perché in una società borghese che feticizza il diritto alla casa, alcune persone sono prive di tale diritto. E un’analisi approfondita rimanderebbe alle responsabilità della stessa società borghese, non in grado di garantire il diritto in questione a tutti. Ma questa è un’altra storia.

Se è vero che tutti coloro che eccellono nella vita mostrano tratti di ossessività – basti pensare al tempo e alle energie assolutamente sproporzionate rispetto alla norma che le grandi personalità di tutti i tempi dedicano alle attività in cui primeggiano, dallo sport alla politica, dall’arte alla scrittura, dalla musica alla scienza – non si può qualificare tale tratto in senso patologico per poi esaltare la normalità dei mediocri che si allineano ai canoni dell’ordinarietà imposti dalla società in cui vivono. Chesterton fa l’esempio del (presunto) cranio di Robespierre, la cui conformazione suscita in un lombrosiano da operetta il giudizio di “carenza di impulsi etici”, quando, semmai, a Robespierre andrebbe rimproverato un eccesso di moralità, se non moralismo! È come riprovare la condotta ostinata di Jannik Sinner o di Cristiano Ronaldo, noti per il tempo e le forze che dedicano maniacalmente alle attività sportive in cui dominano, confrontandola con quella dell’impiegato comunale, elevato a modello incontrastato di normalità.

La situazione peggiora, se possibile, quando una determinata caratteristica fisica viene attribuita a un intero gruppo sociale – gli irlandesi, gli italiani, gli americani ecc. – venendo interpretata uniformemente in senso positivo o negativo. In questo caso, trionfa la generalizzazione su base biologica, preludio a forme di razzismo ancora oggi ampiamente diffuse e rinnovate.

Chesterton osserva che il marchio scientifico permanente del tipo criminale, il tratto trasversale che accompagna ogni giudizio negativo dei lombrosiani è la povertà. E, in effetti, i criminologi – con qualche debita eccezione – avvertono una profonda resistenza ad applicare le loro categorie ai potenti, ai milionari, a quelli che detengono il potere, soprattutto qualora ancora in vita. Se il deviante povero può facilmente essere anatomizzato, misurato, valutato, il deviante ricco difficilmente si presterebbe a tale forma di umiliazione fisica e morale. E, se anche lo facesse, il criminologo di turno saprebbe come addebitare a eccentricità ed eccezioni di vario genere comportamenti che, nel caso dei rubagalline, sarebbero da imputare senz’altro a una precisa caratteristica fisica.

Certo, oggi la criminologia è tutt’altra cosa rispetto ai tempi di Chesterton. I criminologi odierni fanno strame delle teorie di Lombroso & co., ricordandone il nome solo nei manuali di storia della disciplina. Non manca, però, di tanto in tanto, chi si dice convinto di aver trovato il “gene del male”, il “cromosoma della delinquenza”, l’“ormone del truffatore” o la “deficienza endocrinologica dello stupratore”, dimenticando che gli aspetti biologici o fisiologici hanno un carattere aspecifico, indifferenziato, e, in quanto tale, costituiscono la base per l’attività umana in genere, ma non la base per condotte umane specifiche, come quelle criminali.

In altre parole, le teste di imbecilli abbondano anche nel nostro tempo. Proprio come ai tempi di Gilbert Keith Chesterton.

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Considerazioni telefoniche sulla delinquenza minorile

Come spiegare il fenomeno delle cosiddette baby gangs e in genere dei casi di violenza e omicidio che coinvolgono i minori?

È vero che è in forte aumento e che ormai costituisce una emergenza nazionale da affrontare con rimedi straordinari?

È vero che i minori oggi sono più violenti e aggressivi di quelli di un tempo?
E come trattano l’argomento i media? Possiamo fare affidamento su ciò che dicono al riguardo? E cosa pensare delle opinioni dei “criminologi televisivi” che discettano via etere su cosa è meglio fare o non fare per “debellare” il fenomeno?

Ho tentato di rispondere a queste domande nel podcast “La telefonata all’esperto” che vi invito ad ascoltare e in cui esprimo alcune tesi eterodosse su un fenomeno di cui di discute, a mio avviso, con eccessivo sensazionalismo.

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