Le “superstizioni moderne” di Thomas De Quincey

Di Thomas De Quincey (1785-1859), scrittore colto, traduttore e saggista inglese, “romanticamente” afflitto per buona parte della sua vita da problemi finanziari e di salute, noi italiani conosciamo soprattutto Le Confessioni di un mangiatore d’oppio, brumosa quanto redditizia storia autobiografica di una dipendenza dolorosa, appena mitigata dall’erudizione e dallo spirito introspettivo con cui fu scritta, apparsa prima a puntate sul London Magazine nel 1821, poi in volume nel 1822, e riedita, a maggior gloria monetaria dell’autore, nel 1856.

Conosciamo, forse, anche quella notevole prova di umorismo macabro che è L’Assassinio come una delle belle arti (1827), sorta di giustificazione dell’omicidio in nome dell’estetica, che ha imposto anche al più orrendo dei crimini il rispetto di precisi criteri artistici laddove gli unici principi con cui tradizionalmente l’umanità lo ha giudicato sono di tipo morale e giuridico. Poi poco altro.

In realtà, Thomas De Quincey fu un autore estremamente prolifico, tanto che la prima edizione americana delle sue opere comprende ben 22 volumi, pubblicati tra il 1851 e il 1859, a cui si unirono, nel tempo, altri volumi di inediti sparsi a testimonianza della feconda vena artistica dell’autore. Dalla sua penna sono usciti testi deliziosamente lepidi, eruditi, riflessivi su una quantità enorme di argomenti di natura letteraria, ovviamente, ma anche politica, economica, storica, religiosa, morale, filosofica, antropologica, sociologica, psicologica (ante litteram nella circostanza delle ultime tre discipline), che stuzzicano la riflessione e sorprendono ancora oggi per la concreta attualità.

È il caso di Modern Superstition, apparso in origine nel 1840 sulla rivista Blackwood, e da me tradotto in italiano per la prima volta, a mia conoscenza. Si tratta di uno scritto particolarmente erudito, che suggerisce una meditazione approfondita sul tema delle superstizioni, affrontato tanto in chiave classificatoria, quanto in chiave semantica, storica, religiosa, antropologica. Ma anche – e questo è l’aspetto per me più interessante – psicologica e sociologica. Il testo, infatti, offre intuizioni estremamente brillanti sulle cause psichiche e sulle circostanze sociali che sono dietro il fenomeno della superstizione; cause e circostanze che oggi hanno nomi ben precisi nel lessico delle scienze sociali e che è interessante sottoporre a disamina retrospettiva, sapendo quello che sappiamo oggi sul funzionamento della mente e della società.

Attenzione, però! Sarebbe grossolanamente scorretto pensare che De Quincey sia una sorta di scettico o debunker dei fatti superstiziosi. Come vedremo, lo scrittore inglese è, per certi versi, un “credente” e assicura la propria fede a episodi e contingenze che oggi derubricheremmo ad altro. Tra una professione di credenza e l’altra, tuttavia, fanno capolino più di una considerazione filosofica, se non illuministica, sull’argomento trattato che è interessante ricondurre all’attuale patrimonio conoscitivo della psicologia e della sociologia.

Qui la traduzione di Modern Superstition con una mia introduzione.

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Crime and the virus III

Il 2° Rapporto sulla filiera della sicurezza in Italia del Censis conferma quanto avevo già segnalato lo scorso anno (qui e qui). La criminalità in Italia nell’anno 2020 è diminuita. A fronte di 1.866.857 reati denunciati, un calo del 18,9% rispetto all’anno precedente ha significato 435.055 reati in meno (ricordiamo, comunque, che in Italia molti reati seguono un trend in discesa da tempo). Certo, nel 2020, sono state commesse 241.673 truffe e frodi informatiche, in crescita del 13,9% rispetto all’anno precedente. Inoltre, le donne chiuse in casa sono state più facilmente preda di partner e conviventi, e sono cresciute le chiamate e le richieste d’aiuto allo 1522, il numero antiviolenza e stalking. Da marzo a ottobre 2020 il numero ha ricevuto 23.071 chiamate; un anno prima, nello stesso periodo, erano state 13.424. Tutte circostanze da tenere in debita considerazione. Ma le cifre complessive sono – ripetiamo – in calo.

Nonostante ciò, per due terzi degli italiani la paura di rimanere vittima di reato è rimasta la stessa e per il 28,6% è cresciuta, quota che sale al 41,3% tra chi ha un cattivo stato di salute. Si tratta di un fenomeno noto alla criminologia da tempo e che potremmo battezzare “scollamento tra realtà e percezione del crimine”. La paura della criminalità non dipende dalle statistiche, ma, ad esempio, dal modo in cui i media enfatizzano determinati reati; dalla gravità del reato subito da noi, dal vicino di casa o dal nostro amico; dalle conversazioni che si hanno nel quotidiano ecc. In questi casi, l’aneddoto o la storia personale possono più dei numeri.

A ciò si aggiungono le nuove paure indotte dall’emergenza coronavirus. È indubbio che, vedendo un estraneo avvicinarsi, non ci chiediamo più solo: “Avrà intenzioni ostili nei miei confronti?”, ma anche “Mi contagerà?”, “Rispetterà la distanza sociale?”, “Non avrà mica intenzione di toccarmi?”.

Il Censis informa, infine, che

ci sono oltre 6 milioni di italiani che hanno paura di tutto: sono i panofobici, che in casa o fuori vivono in uno stato di ansia e di paura che non riescono a frenare. Tra di loro prevalgono le donne, che sono quasi 5 milioni e rappresentano il 17,9% della popolazione femminile. I panofobici si trovano un po’ in tutte le fasce di età, ma quello che preoccupa è che sono molto rappresentati tra i giovani sotto i 35 anni, tra cui se ne trovano 1 milione e 700.000, pari al 16,3% del totale. Giovani fragili ed impauriti, che pagheranno moltissimo in termini psicologici le conseguenze dell’epidemia.

La panofobia potrebbe essere una delle ricadute più deleterie del panico da Covid-19. La paura di entrare in contatto con gli altri diventerà probabilmente una condizione non più limitata a particolari condizioni psichiatriche, ma una situazione estesa, generalizzata, sostenuta perfino dalle retoriche governative e disciplinari di questo periodo e, quindi, incoraggiata come reazione “normale”.

Il rispetto della distanza sociale, ormai interiorizzato, condurrà vero una società disentactogena in cui la socialità, l’empatia, i rapporti sociali diverranno sempre più lussi suntuari con inevitabili conseguenze sulle potenzialità devianti dei nostri simili. 

In alternativa, potrebbe esserci una reazione di segno diametralmente opposto: ricerca incontrollata di contatti con gli altri con aumento di fenomeni di massa.

Staremo a vedere. Al di là delle profezie più o meno apocalittiche, un dato appare certo: l’insicurezza e la fragilità di chi già sta male crescono e chi sta male ha anche più paura di essere vittima di reati. Un esito non previsto della nostra società pandemica sulla quale i criminologi avranno forse da dire nei prossimi anni.

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Schopenhauer e la distanza sociale

Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro fra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione. – Così il bisogno di società, che scaturisce dal vuoto e dalla monotonia della propria interiorità, spinge gli uomini l’uno verso l’altro; le loro molteplici repellenti qualità e i loro difetti insopportabili, però, li spingono di nuovo l’uno lontano dall’altro. La distanza media, che essi riescono finalmente a trovare e grazie alla quale è possibile una coesistenza, si trova nella cortesia e nelle buone maniere. A colui che non mantiene quella distanza, si dice in Inghilterra: keep your distance! – Con essa il bisogno del calore reciproco viene soddisfatto in modo incompleto, in compenso però non si soffre delle spine altrui. – Colui, però, che possiede molto calore interno preferisce rinunciare alla società, per non dare né ricevere sensazioni sgradevoli (Arthur Schopenhauer, 1998, Parerga e paralipomena, Adelphi, Milano, cap. XXXI, vol. II, p. 884).

Letta con le lenti di un protagonista di quest’epoca pandemica, la storiella del filosofo Arthur Schopenhauer appare riassumere le nostre preoccupazioni riguardo alla pratica della distanza sociale.

Sappiamo che possiamo avvicinarci ai nostri simili, ma sappiamo anche che dobbiamo rispettare una distanza fisica da loro, che varia dal metro ai due metri o più, secondo l’esperto e il contesto di turno. E guardiamo di sbieco chi non rispetta tale distanza – l’insidioso aculeo della contemporaneità – quasi fosse un criminale, tanto che, in strada, stiamo ben attenti a non accostarci troppo – per non parlare di “toccare” – ai simili che incrociano il nostro cammino, sollevando per prudenza la mascherina o assicurandoci che sia ben indossata perché – non voglia mai dio – il minimo contatto, la minima trascuratezza nel rispetto di quella bolla invisibile, ma mentalmente rocciosa, che chiamiamo distanza fisica, potrebbero essere fatali.

Sicché trascorriamo il nostro tempo praticando l’arte di trovare “una moderata distanza reciproca”, di non pungerci con le spine degli altri, anche se, degli altri, abbiamo bisogno, come testimoniano i disturbi che sembrano affliggerci in questo periodo e che rimandano costantemente all’assenza del simile e ai modi, anche patologici, di farvi fronte.

Oggi le persone che ci circondano presentano un difetto insopportabile in più rispetto a prima: possono contagiarci. E questo rischio, a cui non si può rimediare con la cortesia e le buone maniere, ci muove a spingerle lontano, anche se non troppo lontano, comunque dietro una immaginaria coltre d’aria.

Così, percorriamo la nostra vita tra mille incertezze, la principale della quale è se avvicinarci o no all’uomo o alla donna che siedono a pochi passi da noi. Farò bene? Potrò fidarmi di lui (lei)? E se fosse…

Nel dubbio rimaniamo distanti. E non sappiamo se tale distanza verrà un giorno a ricomporsi, se ritornerà a essere una faccenda di cortesia e buone maniere o se determinerà per sempre un nuovo modo di sopportare gli aculei degli altri.

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Epidemia e panico morale

Che conseguenze ha avuto, ha e avrà la recente pandemia di Sars-CoV-2 sulla società? Come siamo cambiati in seguito alla imposizione di quelle forti forme di contenimento sociale che vanno sotto il nome anglofono di lockdown? Quali generi di reazione sociale sono stati innescati  dal virus che da un anno a questa parte domina le nostre esistenze, costringendole a pesanti torsioni fin nella quotidianità più intima? E che cosa può fare la sociologia al riguardo? La Sars-CoV-2 è una faccenda di biologi, virologi e medici o interessa – e deve interessare – anche il sociologo, l’antropologo, lo psicologo? In breve, lo scienziato sociale?

A queste e ad altre domande affini tenta di rispondere il mio nuovo libro, Epidemia e panico morale (Homeless Book, 2021) che mira a considerare il fenomeno Sars-CoV-2 da una prospettiva privilegiata: quella del panico morale e delle epidemie psicosociali. Perché è indubbio che, tra le altre cose, la Sars-CoV-2 ha generato – e sta generando – forme diverse di panico morale tra la popolazione con conseguenze ancora tutte da accertare e ponderare.

Adottando la prospettiva citata, Epidemia e panico morale applica i concetti e le riflessioni di sociologi come Stanley Cohen e Philip Strong alla recente pandemia nel presupposto che “le epidemie non sono un fenomeno che interessa esclusivamente la medicina, la fisiologia e l’epidemiologia, ma anche la sociologia e la psicologia e che le conseguenze psico-sociologiche delle epidemie hanno un impatto forte sulle società al cui interno esse circolano, tanto che si può, a buon diritto, parlare di “epidemie psicosociali”.

Ribaltando l’ottica dominante sulla pandemia, il libro fa proprio l’apoftegma del celebre scienziato Rudolf Virchow (1821-1902), secondo cui «un’epidemia è un fenomeno sociale che ha alcuni aspetti medici». L’epidemia di paura e di panico morale che accompagna l’attuale epidemia da Sars-CoV-2 è, dunque, un fatto sociale reale e uno straordinario campo di intervento potenziale per il sociologo. È necessario allora affinare concetti e strumenti adeguati a farvi fronte ed evitare di farsi fuorviare da chi vorrebbe ridurre tutto a mero fatto medico.

In questo senso, il libro propone alcune tracce di intervento possibile per il sociologo accademico e professionale nella convinzione che i sociologi abbiano molto da dire sull’argomento, ma debbano prima acquisirne consapevolezza.

Conclude il volume una stimolante postfazione di Gianluca Piscitelli.

È proprio questo il compito del sociologo che vive l’attuale emergenza sanitaria: districare l’ordito della società nel caos della crisi pandemica. E farlo con i concetti e i metodi della sua disciplina. Senza frenesie cliniche.

Il libro è liberamente scaricabile da questo link.

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Effetto alone e cibi bellissimi

Ho già discusso in un post precedente del cosiddetto “effetto alone” (in inglese, halo effect), termine con il quale si indica, in psicologia, il fenomeno per cui un’impressione generale, sia positiva sia negativa, o una singola caratteristica di un individuo o gruppo sociale orienta la percezione che si ha dell’individuo o gruppo, anche relativamente ad altri tratti di personalità. Ad esempio, si ha effetto alone quando la bellezza fisica condiziona la percezione di altre qualità della persona quali l’intelligenza o la professionalità. Oppure, quando si crede che un esperto in un certo settore debba essere esperto anche in un altro settore. Oppure, quando il crimine commesso da un individuo condiziona la percezione complessiva della personalità di questi.

L’effetto alone trova moltissime “applicazioni” nella vita quotidiana. Un suo uso frequente è nell’ambito del marketing, dove viene adoperato consapevolmente dai pubblicitari per rendere più appetibile un prodotto commerciale e, quindi, invogliare le persone all’acquisto. L’effetto alone, tuttavia, è adoperato pure dal negoziante sotto casa, anche se probabilmente non è a conoscenza della denominazione tecnica del fenomeno.

Pensiamo alla frutta che acquistiamo ogni giorno. Chi la vende sa benissimo che, in ognuno di noi, agisce un potente meccanismo interiore per cui tendiamo a pensare che la frutta più buona sia anche quella più bella. Si tratta del vecchio principio, diffuso a livello popolare sin dai tempi di Platone, secondo cui “ciò che è bello è anche buono” e che trova insospettabili applicazioni anche in campo ortofrutticolo.

Come? Dando, ad esempio, una bella lucidata di cera alimentare alle mele. O cospargendo di foglie – che danno un tocco “naturale” – i limoni. O spruzzando acqua sui meloni. Oppure, ancora, proiettando luci colorate sulla frutta in modo che appaia come ci aspettiamo che debba apparire, se non di più. In questo modo, i limoni appaiono più gialli di quanto non siano, le pere più verdi, le arance più arancioni e le mele più rosse. Una grossa “cospirazione” artificiale per rendere i prodotti più “naturali” o, almeno, per fare in modo che l’aspetto della frutta combaci il più possibile con la nostra idea di “naturale”.

Questo nel migliore dei casi, vale a dire, quando l’opera di make-up condiziona solo la percezione della merce. In altri casi, sono adoperate sostanze che hanno lo scopo di far apparire frutta e verdura più succulente, saporite e, ancora una volta, “naturali”; sostanze ammissibili, ma che non siamo contenti di far entrare nel nostro corpo (difenolo, antimicrobici ecc).

Un capitolo a parte è poi quello del trattamento a scopo pubblicitario del cibo. In questo caso, l’aspetto è alterato per promuovere la vendita della merce tramite spot o cartelloni. Si pensi alla glicerina e alla lacca adoperate per far apparire più lucenti mele e melanzane. Alla schiuma da barba usata per rendere più cremose le torte. Al ghiaccio finto inserito nelle bibite per farle apparire più desiderabili. All’olio di motore sparso sui pancakes per far sembrare il miele o lo sciroppo più densi, al lucido da scarpe marrone per colorare gli hamburger, alla colla versata sui cereali per farli apparire più “in sintonia” con il latte.

Contrariamente a quello che la nostra mente inconscia ci suggerisce, quando si tratta di cibo, non è sempre vero che “ciò che è bello è anche buono”. Il principio, tuttavia, è talmente tenace che alcuni biscotti alle nocciole e meringa, tipici del Nord Italia e non molto attraenti allo sguardo, sono noti con il nome di “brutti ma buoni”, una scelta che è un tentativo di scalfire l’istintiva resistenza a mangiarli in base alla mera estetica, richiamando fortemente la bontà “interiore” del prodotto. Paradossalmente, il nome di questi biscotti rafforza lo stereotipo del bello = buono, evocando la logica dell’eccezione (non sono belli, ma sono buoni, almeno in questo caso) a testimonianza della forza irresistibile del principio platonico che condiziona perfino il modo in cui percepiamo il cibo.

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I “falsi positivi” della giustizia

Chi ha un’idea mitologica della giustizia, chi immagina la macchina giudiziaria come una divinità che, nella sua infallibile saggezza, punisce i “cattivi” e tutela i “buoni” dovrà ricredersi dopo aver letto i dati che l’associazione Errorigiudiziari.com, da tempo impegnata sulla questione degli innocenti che finiscono in carcere, ha offerto il 7 aprile scorso sugli errori giudiziari in Italia, in particolare sul numero di vittime di ingiusta detenzione – ossia, coloro che subiscono una misura cautelare detentiva, come la custodia cautelare o gli arresti domiciliari, e poi vengono assolti –, il numero di errori giudiziari veri e propri – ossia, di persone ingiustamente condannate con sentenza definitiva e poi assolte in seguito a processo di revisione –, la spesa sostenuta dallo Stato per indennizzare e risarcire le vittime della cattiva giustizia.

Mettendo insieme dati di varia provenienza, Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, fondatori dell’associazione e autori del libro Cento volte ingiustizia. Innocenti in manette (Mursia Editore), offrono un quadro drammatico della situazione, per lo più misconosciuta dai non addetti ai lavori e dai giustizialisti a ogni costo.

In trent’anni, dal 1991 al 31 dicembre 2020, i casi di vittime di ingiusta detenzione e di errori giudiziari in senso stretto in Italia sono stati 29.659, quasi 1000 l’anno, per una spesa complessiva dello Stato, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri, di 869.754.850 euro circa (circa 28 milioni e 990 mila euro l’anno).

La stragrande maggioranza di queste vittime (29.452) hanno subito una ingiusta custodia cautelare per una spesa complessiva superiore ai 794 milioni e 771 mila euro in indennizzi. Nel 2020, i casi di ingiusta detenzione sono stati “appena” 750, una cifra inferiore alla media ordinaria, che, però, si spiega probabilmente con la crisi “virale” che ha investito il nostro paese e che ha rallentato l’attività giudiziaria a tutti i livelli, anche a quello delle Corti d’Appello incaricate di smaltire le istanze di riparazione per ingiusta detenzione.

Per quanto riguarda gli errori giudiziari veri e propri, nello stesso arco temporale  (1991-2020), il totale è di 207, con una spesa in risarcimenti di 74.983.300,01 euro. Limitandoci, invece, al 2020, gli errori giudiziari sono stati in tutto 16 (negli ultimi anni dieci anni il numero complessivo degli errori giudiziari si è mantenuto quasi sempre sopra quota 10).

Infine, sempre per il 2020, le tre principali città con il maggior numero di indennizzati sono state: Napoli, Reggio Calabria e Roma; mentre le città dove lo Stato ha speso di più in risarcimenti sono state: Reggio Calabria, Catanzaro e Palermo.

Un sociologo cinico potrebbe commentare che qualsiasi sistema complesso, come la giustizia, tende a produrre inevitabilmente un certo numero di “falsi positivi” (in questo caso: persone ingiustamente detenute o condannate benché innocenti) e di “falsi negativi” (in questo caso: persone assolte benché colpevoli, un aspetto di cui Lattanzi e Maimone non si occupano, ma su cui sarebbe interessante proporre qualche riflessione).

Si tratta di quelli che il sociologo Charles Perrow, in riferimento ai sistemi tecnologici complessi, chiama normal o system accidents, ossia “incidenti” dalle conseguenze catastrofiche non intenzionali che scaturiscono dalla interazione tra le parti del sistema.

Per Perrow, i  normal accidents sono relativamente rari. Nel sistema della giustizia italiano, invece, gli errori giudiziari – veri e propri failures del sistema – sono frequenti e sistematici, a suggerire una patologia incurabile, un cancro inestirpabile con cui facciamo i conti ogni giorno e che devasta centinaia di vite ogni anno.

Una delle conseguenze più vischiose di tali malfunzionamenti della giustizia è lo stigma che rimane addosso agli innocenti anche dopo aver ricevuto una piena assoluzione. “Non c’è fumo senza arrosto” sembra pensare il senso comune. E questo fumo è ciò che rimane attaccato alla vittima di errore giudiziario per molto tempo, impedendole di trovare lavoro, famiglia, amore.

Per questo l’opera di Lattanzi e Maimone è sommamente meritoria: informando su questo aspetto particolare del sistema giudiziario riescono a dare, in qualche modo, dignità e voce alle sue vittime, che non devono più avere vergogna di ammettere: “Sì, sono stato in carcere. Anche se ero innocente!”.

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Il Covid è “qui per restare”?

Non so se Covid “è qui per restare”, come dice la giornalista Agnese Codignola in un articolo di qualche giorno fa di «Repubblica» così intitolato. So, però, che l’espressione da lei adoperata è un calco fedelissimo dell’inglese “here to stay”, entrato surrettiziamente già da qualche anno nel nostro lessico e “rimasto” con noi da allora. Come tutti i calchi fedeli, l’espressione rispecchia “pigramente” l’originale, ma, a causa della sua scaturigine, viene percepita come particolarmente cool anche, e forse soprattutto, dai parlanti che non ne conoscono la provenienza. Si noti, inoltre, nel titolo la rimozione dell’articolo, scelta che dà a “Covid” la parvenza di un nome proprio di persona.

Ci sono molti modi di riferire il concetto della frase in maniera più conforme all’italiano. Potremmo dire: “Il Covid non scomparirà”, “è già entrato nelle nostre vite”, “rimarrà con  noi a lungo (o per sempre)”, “ci terrà compagnia ancora per molto” ecc. (altre possibilità sono elencate qui).

Il problema è che tutte le alternative proposte appaiono eccessivamente “lunghe” per un titolo. Capiamo, dunque, perché queste scelte linguistiche hanno spesso (ma non sempre e non sempre per questo motivo) successo: permettono di dire tutto più in breve e hanno un suono strano e vagamente (almeno per chi non ha dimestichezza con l’inglese) straniante.

E “vagamente straniante” fa tanto cool!

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La “sociologia del male” di Edwin M. Lemert

È sempre affascinante ricevere nella propria lingua i testi di un autore classico “ritrovato” dopo anni di silenzio. Per quanto li si possa leggere in originale, l’atto della traduzione conferisce una familiarità alle parole che aiuta a comprendere meglio e, forse, a fissare più efficacemente concetti e tematiche. Un purista cinico potrebbe controbattere che ogni traduzione è un tradimento e che è sempre preferibile la pagina incorrotta dell’inglese a quella adulterata dell’italiano.

Sia come sia, la lettura dei tanti saggi di Edwin Lemert (1912-1996), vero e proprio moloch della sociologia della devianza mondiale, contenuti nell’antologia curata da Cirus Rinaldi ed Enrico Petrilli per PM Edizioni (2021) con il titolo Sociologia del male e altri scritti, ci offre un panorama a tutto tondo dell’opera del grande sociologo americano, consentendo una immersione totale nei temi più noti del suo lavoro: dagli attacchi alle analisi bio-medico-positivistiche della criminalità, alla scoperta dei processi simbolici e delle reazioni sociali che presiedono alla genesi della devianza; dalla enucleazione dei due concetti più celebri di Lemert – deviazione primaria e deviazione secondaria – alla critica delle teorie eziologiche del delitto.

L’antologia, però, propone anche un Lemert meno noto: quello che si occupa di esplorare il tema dei disturbi mentali in un’area rurale problematica, ad esempio, o quello che si dedica ad interpretare sociologicamente un disturbo, apparentemente solo individuale e soggettivo, come la balbuzie, non disdegnando incursioni nell’antropologia e nell’etnologia.

Uno spazio importante è destinato anche al Lemert che studia gli archivi dei tribunali per minorenni e la genesi di questi ultimi, con una interessante escursione nelle modalità di intervento della giustizia minorile in Italia.

L’ultima sezione è dedicata a uno dei libri più stimolanti del sociologo americano: il postumo The trouble with evil che pretende di impostare nientedimeno che una riflessione sociologica sull’antica questione del male, riservata di solito a teologi, moralisti e filosofi. Non è un caso che quest’ultima sezione dia il titolo all’antologia. “Sociologia del male” è una formula allettante, che pungola la curiosità anche del più smaliziato cultore del sapere sociologico.

Ho contribuito all’antologia, traducendo un saggio molto interessante di Lemert, dal titolo Instead of court. Il testo intende riflettere sulle alternative alle sanzioni istituzionali inflitte ai juvenile delinquents nell’intento di sottrarli a processi di stigmatizzazione che potrebbero incidere significativamente sull’evoluzione in senso criminale delle loro biografie. Per Lemert, l’unica filosofia ammissibile nei tribunali per minorenni deve essere il non intervento; tema, questo, profondamente attuale in un’epoca in cui la questione delle baby gang, ad esempio, sembra inasprire i sentimenti punitivi nei confronti dei minorenni che delinquono.

Concludo con un brano significativo di Instead of court che invito a leggere insieme a tutti i saggi contenuti in Sociologia del male.

La stigmatizzazione è un processo che assegna marchi di inferiorità morale ai devianti; detto più semplicemente, è una forma di degradazione che trasforma identità e status sociali in senso deteriore. È presente nei procedimenti formali del tribunale in maniera sia implicita sia esplicita. I colloqui di primo ingresso, e quelli che hanno luogo in fasi successive delle indagini, hanno spesso carattere inquisitorio e mirano a ottenere  ammissioni di colpa o di complicità necessarie per soddisfare i requisiti legali previsti per l’inoltro di istanze o a ottenere prove in altri casi. Detenzione significa perdita della libertà, privazione di oggetti personali, assoggettamento a norme di sicurezza arbitrarie e, in alcuni centri per minori, sorveglianza tramite microfoni e telecamere a circuito chiuso. Prima di essere condotte in detenzione, le ragazze possono essere sottoposte a esami ginecologici di routine, nel sospetto che possano essere incinte o affette da una malattia venerea.

Le udienze del tribunale somigliano, in molti casi, a rituali di degradazione in cui gli ufficiali giudiziari elencano in dettaglio i difetti morali o l’“inidoneità” dei minori e dei loro genitori. A tali giudizi contribuiscono le testimonianze ostili di altri individui e i giudici spesso pronunciano lunghi predicozzi, infarciti di minacce, che pongono minori e genitori di fronte alla scelta tra ravvedimento e alternative spaventose. Per dare una idea di ciò, è noto che i giudici leggono fatti o opinioni incriminanti dai registri di probation.

Questi attentati drammatizzati all’identità e all’integrità della persona hanno un impatto devastante su alcuni, mentre sono rapidamente assorbiti o ignorati da altri. Meno facili da fronteggiare sono le conseguenze oggettive della stigmatizzazione che scaturiscono dalla creazione di una documentazione ufficiale presso il tribunale o la polizia. Sebbene non sia disponibile al pubblico, il contenuto di questa documentazione diventa noto all’esterno. Ciò può costituire, come spesso avviene, un serio ostacolo al tentativo di ottenere un certo tipo di occupazione, di acquisire una istruzione professionale o di arruolarsi nelle forze armate. Un problema paradossale, particolarmente rilevante ai fini della nostra discussione, è che, una volta che un minore viene giudicato da un tribunale, molte agenzie assistenziali non lo accolgono più come loro cliente. Di conseguenza, egli perde la possibilità che i suoi problemi siano trattati come problemi di natura sociale.

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Quando le donne non potevano fare i giudici

Oggi che i diritti delle donne sono continuamente sostenuti, difesi, tutelati dalla legge, sembra strano che, in un passato non tanto lontano, gli stessi uomini di legge pronunciassero disinvoltamente dichiarazioni finalizzate a negare il diritto delle donne a realizzarsi nella vita pubblica e ad assumere ruoli di responsabilità, come quelli di avvocato, giudice, magistrato, sulla scorta di motivazioni che oggi appaiono ridicole, pretestuose, assurde, ma che, appena qualche decennio fa, erano ritenute solide, condivisibili, legittime.

Un esempio fra tutti, tratto dal bel libro di Romano Canosa, Il giudice e la donna, ci arriva dal 7 novembre 1947, data in cui l’onorevole democristiano e giurista Giuseppe Maria Bettiol dichiarava:

C’è un altro problema da tenere presente, al quale ha accennato per primo il collega Villabruna; e mi ha quasi preso la parola di bocca: il problema delle donne nella amministrazione della giustizia.

San Paolo diceva: “Tacciano le donne nella Chiesa”. Se San Paolo fosse vivo direbbe: “Facciano silenzio le donne anche  nei tribunali”, cioè non siano chiamate le donne ad esplicare questa funzione, la quale può arrivare (per fortuna noi abbiamo eliminato in parte questo pericolo) a pronunziare una sentenza di morte. Ed è assurdo, doloroso, inconcepibile che una donna, chiamata da Dio e dalla natura a dare vita, sia chiamata anche a dare, in casi tristi, la morte. D’altro canto, il problema della donna nell’amministrazione della giustizia deve essere risolto anche in base a quelle che sono le caratteristiche ontologiche di essere uomo o donna. Perché il problema dell’amministrazione della giustizia è un problema razionale, è un problema logico, che deve essere impostato e risolto in termini di forte emotività, non già di quella commozione puramente superficiale che è propria del genere femminile, di quella commozione puramente superficiale di cui sono spesso dotati gli ingegni di giurati chiamati dai solchi o dalle officine a esprimere il loro parere in relazione a un caso concreto. Quindi, a mio avviso, le donne non dovrebbero essere chiamate ad esplicare la funzione giurisdizionale (Canosa, R., 1978, Il giudice e la donna. Cento anni di sentenze sulla condizione femminile in Italia, Mazzotta, Milano, pp. 37-38).

Nessuno oggi oserebbe vietare alle donne di giudicare nei tribunali sulla scorta di frasi bibliche e considerazioni sull’eterno femminino o chiamando in causa la presunta irrazionalità ed emotività del sesso femminile. Ma sono ottimista. In realtà, queste stesse argomentazioni compaiono ancora di tanto in tanti nel ragionamento quotidiano, seppure in casi minoritari.

Un tempo, questi “pensieri” sulle donne erano luoghi comuni e, in quanto tali, mai messi seriamente in discussione. Anzi, chi avesse avuto da ridire, sarebbe parso “strano”, fuori di senno, bizzarro. È per questo che un onorevole della Repubblica poteva dichiararli pubblicamente, sapendo di trovare consenso nei suoi ascoltatori.

Non dimentichiamo mai che quello che oggi “sappiamo” delle donne è frutto di acquisizioni recenti, emerse a dispetto di sedimentazioni secolari basate su misoginia e inferiorità inculcate. Per questo non dobbiamo mai darlo per scontato perché i saperi antifemministi tradizionali possono sempre ritornare. Magari legittimati proprio dalla loro antichità.

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(Ancora su) Morire “per” e “con” il Covid

In un post precedente, ho osservato come le discussioni sulla letalità del Covid-19 – morire “per” vs. morire “con” il Covid – siano avvelenate dalla “fallacia della causa unica”, ossia dalla tendenza a ritenere che un evento debba essere causato da un’unica causa, quando invece agiscono varie concause. Ho aggiunto anche che questa fallacia si spiega con il fatto che, per la mente umana, è più semplice attribuire un determinato effetto a un’unica causa e disconoscere o non considerare gli effetti interattivi tra fattori diversi.

Sulla vexata quaestio di cosa causi la morte delle persone – se il virus o le altre patologie con cui il virus coesiste – è intervenuto recentemente lo psicologo Paolo Legrenzi in un libro intitolato Paura, panico, contagio. Vademecum per affrontare i pericoli (Giunti, Firenze, 2020, pp. 70-71). Ecco le sue parole:

Prendiamo per esempio il caso di un decesso dovuto a un’influenza in un organismo già indebolito da un’altra malattia. In questo caso possiamo affermare che la morte di quella persona è causata dal virus? No. Possiamo dire che la persona è deceduta “con” il virus e non “per” il virus. Sicuramente il virus ha aumentato le difficoltà dell’organismo ad affrontare la malattia e magari ha creato ulteriori problemi, che, sommati a quelli già presenti, hanno condotto alla morte. Se poi guardiamo il numero di decessi rispetto ai contagiati e le caratteristiche delle persone decedute, possiamo notare che non sono distribuite casualmente, ma che sono le persone più vulnerabili, per età avanzata e/o per condizioni di salute precarie, a essere più spesso vittime del contagio. Per questo è essenziale riuscire a distinguere le cause dalle concause, perché altrimenti attribuiamo a una causa unica, in questo esempio il virus, quello che è dovuto all’effetto di concause.

L’essere umano ha la tendenza a ridurre in schemi semplici la complessità del mondo, iniziamo a farlo fin da piccoli, per imparare a dare un senso alle cose che ci circondano, a ordinarle in categorie; usiamo questo meccanismo per “risparmiare energie” per esempio nelle valutazioni degli eventi, quando prendiamo una decisione o facciamo una scelta. È più semplice e più rapido. Ma ci può portare a sbagliare. Se riduciamo tutto a una sola causa come unica fonte di un pericolo che ha molte cause, abbiamo una visione schematica e semplicistica del fenomeno che può generare il panico, Perché questo si diffonde sulla base di credenze semplici, per quanto infondate. Quindi, in questo modo, avremo un contagio collettivo.

È a tutti noto che la discussione sulla responsabilità – unica o correa – del Covid-19 nel causare la morte sia intrapresa da opinionisti, “esperti”, medici e virologi, quasi sempre a partire dalla visione schematica e semplicistica del fenomeno di cui parla Legrenzi. Tale schematicità può essere adoperata sia a sostegno di una causa – è il virus che uccide – che di quella opposta – si muore per le altre patologie. Appare difficile ai più abbracciare tesi complesse, improntate all’interazione tra fattori. Anzi, dato che l’attenzione della collettività è incentrata sugli effetti del virus, la sua responsabilità come causa di decessi tende a essere pervicacemente sopravvalutata a scapito di ogni altro cofattore.

Una lezione che potremmo trarre da questa pandemia riguarda la necessità di una educazione alla complessità, a vedere il mondo in maniera non semplicistica e schematica, a giudicare la bontà delle tesi non in base alla loro semplicità monocausale, ma al numero di variabili pertinenti che chiamano in causa.

Certo, per la mente umana è più facile operare monocausalmente. La complessità richiede sforzo e disciplina; qualità che non sono coltivate né incoraggiate da opinionisti, “esperti” e medici “televisivi” (compressi come sono dai loro angusti ruoli mediatici).

Per questo bisogna rivolgersi alla scienza, che non tollera semplificazioni e che, perciò, risulta “antipatica”. Ma se avessimo bisogno di questa “antipatia” come abbiamo bisogno dei vaccini?

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