Tifo calcistico e cherry-picking

I commenti seguiti all’ultima giornata del campionato di calcio di Serie A 2020-2021 confermano la tendenza di tifosi, opinionisti ed “esperti” a indulgere in uno dei più vischiosi bias del pensiero: il cosiddetto cherry-picking. Questa fallacia logica (in inglese significa letteralmente “scegliere le ciliegie”) consiste nel selezionare solo le prove (le ciliegie) che confermano la propria tesi di fondo a scapito di quelle che la smentiscono, confezionandosi, così, una verità impermeabile a ogni informazione di senso contrario.

Il  cherry-picking è una distorsione cognitiva piuttosto comune nei tifosi, i quali tendono a selezionare di una partita, solo gli episodi  o i fatti che incoraggiano la propria visione del mondo, omettendo quelli che la contraddicono.

Esempio: dopo la mancata qualificazione in Champions League della propria squadra, dovuta all’inopinato pareggio con il Verona, diversi tifosi del Napoli hanno attribuito la responsabilità dell’accaduto non all’incapacità dei propri beniamini, ma alla vittoria ottenuta la settimana precedente dalla Juventus – diretta rivale per un posto nella principale competizione europea – contro l’Inter grazie a un rigore concesso nel finale alla squadra bianconera. “Se non ci fosse stato quel rigore” – hanno commentato tifosi e opinionisti napoletani – “il Napoli si sarebbe qualificato, pur pareggiando contro il Verona”.

Il  cherry-picking è evidente dal fatto che Juventus-Inter è stata caratterizzata da diversi episodi arbitrali, favorevoli e sfavorevoli a entrambe le contendenti. Il fatto di selezionare solo la “ciliegina” più bella (più conveniente) a edificazione di una tesi precostituita è tipico della mente dei tifosi. Si potrebbe, poi, estendere la prospettiva e osservare come in un campionato abbiano luogo centinaia di episodi grandi e piccoli, ognuno dei quali può essere “colto” a dimostrazione di questa o quella teoria sul mondo del calcio.

Naturalmente, questa fallacia logica non è appannaggio di tifosi, opinionisti e giornalisti del Napoli, ma è diffusa in modo trasversale. Si può dire, senza tema di smentita, che non esiste tifoso appassionato che ne sia indenne. Del resto, tifo significa parzialità, settarismo, faziosità.

Il guaio è che per il tifoso il settarismo è oggettività, valore assoluto,  indiscutibile. Un po’ come per il credente religioso che non ammetterà mai che la propria fede è relativa e che altri dei possano essere al pari del proprio.

Calcio e religione: due dimensioni apparentemente distanti anni luce, ma accomunate dalla medesima propensione irrazionale ad abbracciare la parzialità, facendola passare per verità assoluta.

Per chi volesse sapere di più sui bias della mente del tifoso, rimando al mio Hanno visto tutti! Nella mente del tifoso, Meltemi Editore, Milano, 2020.

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Barnum e i mesmeristi

Agli inizi del XIX secolo, il mesmerismo o magnetismo animale, una terapia basata sull’applicazione delle teorie, del tutto infondate, del medico tedesco Franz Anton Mesmer (1724-1815), era molto praticato e aveva, sia in Europa che negli Stati Uniti, numerosi estimatori, un po’ come oggi le cosiddette “medicine alternative”, che cultori entusiasti, del tutto incuranti dell’inefficacia di queste pratiche non ufficiali (ma oggi l’espressione “non ufficiale” sembra diventata una sorta di titolo di merito), continuano ad applicare a dispetto delle affermazioni di scettici e scienziati.

T. Barnum, lo showman di cui ho già parlato nel post precedente, era perfettamente a conoscenza dell’infondatezza delle pretese dei mesmeristi e amava divertirsi a loro spese, come nel gustoso aneddoto che segue, tratto dalle sue memorie:

[…] scritturai una piccola e intelligente ragazzina, che mostrava un’estrema sensibilità alle influenze mesmeriche da me, diciamo così, indotte. In altre parole, imparò per filo e per segno la lezione che le impartii, e ogni qualvolta la facevo piombare in catalessi apparente con qualche cenno e mi posizionavo dietro di lei, sembrava debitamente «impressionata», come da me auspicato; sollevava le mani come volevo; crollava dalla sedia sul pavimento; e se mi infilavo in bocca una caramella o del tabacco, fingeva, come da copione, rispettivamente piacere e disgusto. Non fece mai cilecca in queste quotidiane esibizioni. Strano a dirsi, i fautori del mesmerismo vi assistevano con passione, e le invocavano a dimostrazione della veridicità del mesmerismo, e applaudivano fragorosamente – almeno fino a un certo momento.

Quel momento giungeva quando, «addormentata» la ragazza, promettevo a qualcuno in platea di indurlo «nello stesso stato» entro cinque minuti, pena un’ammenda di cinquanta dollari. Ovviamente nessuno dei miei «cenni» avrebbe avuto il potere di indurre in chicchessia uno stato mesmerico, e tre minuti dopo quel qualcuno era più sveglio che mai.

«Fa niente», dicevo, guardando l’orologio. «Ho altri due minuti, e nel frattempo, a riprova che una persona in questo stato è del tutto insensibile al dolore, mi accingerò a tagliare un dito alla ragazza che giace ancora addormentata». Poi tiravo fuori il mio coltello e tastavo la lama, e quando mi giravo verso la ragazza che avevo lasciato sulla sedia, scoprivo che era fuggita dietro le quinte, con grande sollazzo della maggioranza della platea e lo stupore dei mesmeristi presenti.

«Ehi, dov’è finita la mia fanciulla?», chiedevo fingendomi sorpreso.

«Oh, è corsa via quando ha cominciato a parlare di tagliarle un dito».

«Quindi era sveglia, è così?».

«Ma certo, è stata sveglia tutto il tempo».

«Suppongo sia così. Ora, mio caro signore, siccome le avevo promesso che si sarebbe trovato “nello stesso stato” al termine dei cinque minuti, e mi pare che lo sia, ho vinto la scommessa» (P. T. Barnum, 2018, Battaglie e trionfi. Quarant’anni di ricordi, Sellerio Editore, Palermo, pp. 122-124).

Per quanto sia ricordato come uno sbruffone, un imbroglione, un affarista, Barnum sapeva distinguere tra realtà e fantasia, tra terapia e pseudo-terapia e, a suo modo, contribuì a ricondurre a miti pretese ciarlatani e imbonitori. Del resto, come lui stesso ammetteva, i suoi spettacoli erano per gonzi e creduloni.

Non a caso a lui è attribuito il detto “There’s a sucker born every minute” (Ogni minuto nasce un fesso”). Non sappiamo se l’abbia mai detto. Sappiamo però che, in fondo, è vero.

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Barnum e la forza delle aspettative

In un post precedente, ho fatto notare la forza che le aspettative hanno sulle nostre esistenze, al punto da determinare l’innesco di vere e proprie profezie che si autoavverano. Ad esempio, aspettarsi un comportamento antipatico da parte di un individuo che non si è mai incontrato può generare una condotta simmetrica nei confronti di questi che può scatenare comportamenti sgradevoli, i quali finiscono con il confermare l’aspettativa di partenza (“Lo sapevo che era antipatico!”).

Un curioso effetto scaturente da una precisa aspettativa si trova nell’autobiografia di P. T. Barnum (1801-1891), uno dei protagonisti mondiali della storia del circo e dello spettacolo. Come è noto, Barnum legò il suo nome a Jenny Lind, celebre cantante, soprannominata l’“usignolo svedese”, che nel XIX secolo fece molto parlare di sé.

Barnum ricorda come un giorno, trovandosi in chiesa, un equivoco indusse nel pubblico la convinzione che nel coro vi fosse la celebre cantante e come questa aspettativa finì con il mutare il giudizio su una voce mediocre che non aveva niente a che fare con quella di Jenny Lind.

Eravamo a Baltimora per lo Shabbat, e mia figlia, nell’accompagnare in chiesa un’amica residente in città, prese posto con lei nel coro e si unì al canto. Alcuni membri della congregazione, che il giorno prima avevano visto Caroline in mia presenza, e creduto che si trattasse di Jenny Lind, erano tuttora vittime di quel malinteso, e ben presto in tutta la chiesa si iniziò a mormorare che Jenny Lind fosse nel coro! L’eccitazione salì alle stelle quando mia figlia si alzò in piedi, in quanto componente del gruppo musicale. Tutti aguzzarono le orecchie per catturare le prime note della sua voce, e quando si mise a cantare gli astanti si scambiarono sguardi di compiacimento. Caroline, all’oscuro dell’attenzione suscitata, continuò a cantare fino alla fine dell’inno. La congregazione in vigile ascolto non si perse una sola nota. «Che cantante squisita!», «Suoni paradisiaci! », «Non ho mai ascoltato niente del genere! » e altre espressioni simili venivano bisbigliate da una parte all’altra della chiesa.

Alla fine della funzione, mia figlia e la sua amica trovarono il corridoio per la carrozza sbarrato da una calca ansiosa di vedere più da vicino l’«Usignolo Svedese», e quel pomeriggio furono in molti a vantarsi, in buona fede, di aver ascoltato dal vivo la straordinaria voce della grande cantante. Il colmo dell’ironia è che mia figlia non ha mai dato prova di alcun talento vocale (P. T. Barnum, 2018, Battaglie e trionfi. Quarant’anni di ricordi, Sellerio Editore, Palermo, pp. 189-190).

La forza delle aspettative è tale da trasformare un canto mediocre in uno eccelso. Probabilmente, lo stesso meccanismo agisce ogni volta che crediamo di assistere alla esibizione di un grande artista: il “pregiudizio positivo” nei suoi riguardi ci porta a sopravvalutare le doti esibite, errore che non commetteremmo di fronte a un perfetto sconosciuto.

Per chi volesse saperne di più su questo argomento, rimando al mio Oracoli quotidiani. Cos’è e come funziona la profezia che si autoavvera.

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La mutevole percezione delle mascherine

Uno degli aspetti più sociologicamente notevoli della recente pandemia da Covid-19 è l’incredibile trasformazione che la percezione delle mascherine ha subito in soli pochi mesi presso il grosso pubblico. Provo a riassumere tale trasformazione in poche parole.

A febbraio 2020, dopo la proclamazione dello stato di emergenza da parte del premier Conte, la corsa alle mascherine fa sì che queste presto spariscano dalle farmacie. Sia le autorità che i media rassicurano e minimizzano; proclamano la loro inutilità, invitano a “non diffondere il panico” e a “non cambiare stile di vita”. L’accaparramento delle mascherine da parte dei cittadini viene bollato come comportamento irrazionale, isterico. Gli stessi farmacisti dichiarano ai loro avventori che non servono.

Almeno fino all’inizio di giugno 2020, la loro efficacia viene negata o indicata solo per ristrette categorie di persone (malati e operatori sanitari). Al tempo stesso, si dice che al più servono solo per proteggere gli altri (non se stessi), che diffondono un falso senso di sicurezza (favorendo condotte imprudenti come toccarsi e non lavarsi le mani), che presentano varie controindicazioni (impediscono di respirare ecc.). In estate, non è difficile trovare decaloghi nei negozi che invitano a “non” portare la mascherina (alcuni si vedono ancora oggi).

Improvvisamente, a partire proprio dall’estate, la percezione cambia: indossare mascherine al chiuso e all’aperto diventa un obbligo; quello che prima sembrava un inutile orpello estetico diventa improvvisamente un dispositivo di protezione individuale necessario, imprescindibile. I media martellano sulla assoluta indispensabilità delle mascherine. Chi non le indossa viene bollato come un criminale e sanzionato di conseguenza.

L’importanza delle mascherine acquisisce una tale rilevanza da essere interiorizzata dai cittadini, i quali esibiscono persistentemente la propria condotta disciplinata, sempre pronti a rialzare il lembo del dispositivo non appena si palesi un essere umano all’orizzonte.

Ormai, l’uso della mascherina è diventato una sorta di “seconda natura”, tanto che è ipotizzabile la sua persistenza ancora per diverso tempo, anche quando l’emergenza virus sarà terminata.

Insomma, in pochi mesi la percezione della mascherina è cambiata completamente a testimonianza del fatto che le opinioni delle persone possono essere facilmente modificate se autorità politiche e media premono sistematicamente su di esse.

La vicenda delle mascherine in epoca pandemica, per certi versi, è inquietante. Ci racconta come il panico dinanzi a una situazione sconosciuta possa modificare le nostre condotte nell’arco di pochi mesi. Il fatto è che, se oggi fossimo interrogati sull’utilità delle mascherine, molti di noi avrebbero perfino difficoltà a ricordare che solo pochi mesi fa il nostro atteggiamento nei loro confronti era quasi del tutto diverso.

Siamo convinti di possedere una personalità costante e solida. Il banco di prova della pandemia ci dice, al contrario, che è mutevole e fragile. Proprio come un virus.

Su questi tempi, rimando al mio recente Epidemia e panico morale.

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Milgram e il Familiar Stranger

The Familiar Stranger: An Aspect of Urban Anonymity (1972) di Stanley Milgram (1933-1984), psicologo sociale americano noto soprattutto per un celebre esperimento sull’obbedienza e l’autorità compiuto nel 1961, rappresenta un piccolo classico su un fenomeno tipico delle società urbane contemporanee: quello dello “sconosciuto familiare”. Esempio tipico è quello del pendolare che, ogni mattina, per anni, prende il treno con i medesimi compagni di viaggio di cui non sa nulla pur conoscendone nei dettagli fisionomia, tono di voce, vezzi, tic e frammenti di vita comunicati tramite telefonate orecchiate, dialoghi con amici e conoscenti, messaggi carpiti (in)volontariamente dallo smartphone.

Uno “sconosciuto familiare” è, per Milgram, «una persona che (1) deve essere osservata (2) ripetutamente per un determinato periodo di tempo, (3) senza che vi sia interazione». In questo senso, un altro esempio tipico della contemporaneità è il vicino di casa, persona che vive a breve distanza fisica da noi e a cui spesso rivolgiamo saluti, ma con il quale ogni altra interazione è sostanzialmente nulla, salvo poi meravigliarci se commette un reato o è protagonista di condotte violente e imprevedibili (“Sembrava proprio una brava persona!”).

Anche questo è un fenomeno tipico delle società urbane e anonime in cui viviamo e potremmo definirlo “agnosia di prossimità”. Per tornare a Milgram, però, un altro fenomeno affine a quello dello “sconosciuto familiare” è la “disattenzione civile”, che «consiste «nel concedere all’altro un’attenzione visiva sufficiente a dimostrare che se ne è notata la presenza (e che si ammette apertamente di averlo visto), distogliendo subito dopo lo sguardo per significargli che non costituisce l’oggetto di una particolare curiosità o di un’intenzione specifica» (Il comportamento in pubblico. L’interazione sociale nei luoghi di riunione, Einaudi, Torino, 1971, p. 86). Lo “sconosciuto familiare” richiede costantemente “disattenzione civile”. I due fenomeni sono legati l’uno all’altro. Eppure, si tratta di aspetti solitamente trascurati o minimizzati, pur contribuendo a rendere l’uomo contemporaneo quello che è. Di qui l’interesse di questo brevissimo saggio di Stanley Milgram, da me di seguito tradotto.

Niente caratterizza maggiormente la vita urbana del fatto che spesso abbiamo estrema dimestichezza con i volti di persone con cui non interagiamo mai. Alla mia stazione ferroviaria, per esempio, ho trascorso parecchi anni come pendolare in compagnia di persone che non ho mai avuto modo di conoscere. I volti e le persone sono considerati come parte del contesto, equivalenti di ciò che ci circonda, piuttosto che persone con cui parlare o scambiare saluti.

Harry From, un mio studente, ha scritto che quello dello “sconosciuto familiare” (familiar stranger) è l’esito finale di un processo che, come l’amicizia, richiede tempo. Inoltre, è un processo latente che spesso conduce a un’amicizia ingessata. Uno sconosciuto familiare, per essere tale, è una persona che (1) deve essere osservata (2) ripetutamente per un determinato periodo di tempo, (3) senza che vi sia interazione.

Gli sconosciuti familiari soggiacciono a una potente norma: più sono distanti dal luogo in cui si incontrano ordinariamente, più è probabile che interagiscano tra loro. Così, se si incontrano in una nazione lontana, hanno maggiori probabilità di salutarsi, iniziare una conversazione e provare una calorosa sensazione di familiarità e amicizia. Per quale motivo persone che, per anni, non si sono parlate, pur essendo state l’una al cospetto dell’altra, si sentono spinte, in luoghi remoti, a rivolgersi la parola in quanto persone?

Tra sconosciuti familiari si ergono barriere difficili da sormontare, a tal punto che, quando uno di essi ha bisogno di avanzare una richiesta, preferisce rivolgersi a un perfetto sconosciuto piuttosto che a uno sconosciuto il cui volto sia noto, ma non ancora riconosciuto.

Accadimenti straordinari, come un’alluvione, contribuiscono a tirare fuori le persone dalle loro relazioni impersonali. L’accadimento, di per sé, è temporaneo e, dunque, non esige un impegno esteso, bensì uno la cui durata sia commisurata alla interruzione temporanea della quotidianità.

Alcuni anni fa, un gruppo di studenti della City University di New York prese in esame il fenomeno dello sconosciuto familiare. Alzatisi di buon’ora, si recarono alle stazioni dei pendolari diretti a New York. Fotografarono gruppi numerosi di pendolari, molti dei quali estremamente vicini l’uno all’altro o che guardavano diritto davanti a sé. Ogni persona fotografata venne numerata, le fotografie vennero duplicate e gli studenti si ripresentarono alle stazioni la settimana successiva dove distribuirono le foto ai pendolari insieme a una lettera di presentazione che descriveva gli obiettivi della ricerca e un questionario finalizzato a rilevare informazioni sul fenomeno degli sconosciuti familiari. Il risultato fu che l’89,5% degli intervistati indicò almeno uno sconosciuto familiare. Il pendolare medio indicò 4 individui presenti in stazione con cui ammetteva di non aver mai parlato rispetto a 1,5 individui con cui aveva conversato, in media. Alcuni sconosciuti familiari si rivelarono “stelle sociometriche” poiché vennero riconosciuti da un gran numero di pendolari in stazione, anche se nessuno aveva parlato con loro.

Molti passeggeri hanno affermato di dedicare spesso più di un pensiero ai loro compagni di viaggio e di aver provato a immaginare che tipo di vita conducessero, che lavori svolgessero ecc. Con essi avevano instaurato una relazione mentale che avrebbe potuto non realizzarsi mai in concreto. Si trattava, tuttavia, di una relazione reale in cui entrambe le parti concordavano nell’ignorarsi reciprocamente, senza che ciò implicasse alcuna ostilità. Talvolta, però, la relazione può essere modificata, se si verificano determinate circostanze. Ad esempio: una donna ebbe un collasso in strada a Brooklyn nei pressi del suo condominio. Da anni era una sconosciuta familiare per un’altra donna che abitava da quelle parti. Quest’ultima si prese cura della poveretta che versava in stato di incoscienza. Non solo chiamò l’ambulanza, ma la accompagnò all’ospedale per assicurarsi che fosse assistita in maniera adeguata e che nessuno trafugasse le sue cose. In seguito, affermò di essersi sentita responsabile delle sorti della donna perché si vedevano da anni, anche se non si erano mai parlate. Lo status di sconosciuto familiare non consiste in una assenza di relazione, quanto in una speciale forma di relazione, dotata di qualità e conseguenze proprie.

Come si spiega il fenomeno dello sconosciuto familiare? È una reazione al sovraccarico: per far fronte a tutti i possibili stimoli provenienti dall’ambiente, li filtriamo e ammettiamo solo forme diluite di interazione. Nel caso dello sconosciuto familiare, permettiamo che una persona agisca su di noi solo da un punto di vista percettivo ed escludiamo qualsiasi altro tipo di interazione. Ciò avviene, in parte, perché l’elaborazione percettiva di una persona richiede molto meno tempo della sua elaborazione sociale. Siamo in grado di cogliere una persona con uno sguardo, ma occorre più tempo per sostenere un coinvolgimento sociale. Se le relazioni temporali fossero capovolte, ossia se la percezione richiedesse una quantità di tempo superiore alla interazione sociale, ne risulterebbe un fenomeno completamente diverso. Ci metteremmo a parlare con le persone che non percepiamo visivamente per mancanza di tempo.

Fonte originale:

Milgram, S. (1972). The Familiar Stranger: An Aspect of Urban Anonymity. In Idem, The Individual in a Social World. Essays and Experiments (pp. 68-71). New York: McGraw-Hill, 1992.

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“Finestre rotte” di Kelling e Wilson

Pubblicato nel 1982, “Finestre rotte” (Broken Windows) di George Kelling e James Wilson è ancora oggi l’articolo di criminologia più citato da esperti, criminologi, sociologi, rappresentanti delle forze dell’ordine, amministratori della sicurezza e leader di comunità degli ultimi trent’anni.

Negli Stati Uniti è stato definito dai media come la “bibbia della polizia”, il “prototipo dell’attività di comunità della polizia”, una “rivoluzione nell’ambito della sicurezza pubblica”, un raro esempio di teoria che funziona indiscutibilmente.

La sua implementazione negli anni Novanta avrebbe trasformato la città di New York – allora una delle capitali mondiali del crimine – in un luogo sicuro e protetto. Il suo “verbo” ha contagiato l’operato dei poliziotti di mezzo mondo e gli slogan che da esso sono derivati – “tolleranza zero”, “tough on crime” (“nessuna pietà contro il crimine”) – hanno ispirato le politiche securitarie di molte amministrazioni fino ai giorni nostri

La tesi centrale dell’articolo – se in un quartiere si verificano inciviltà e disordini minori e nessuno vi pone rimedio, ben presto questi condurranno ad altri reati minori che, a loro volta, condurranno verso reati più gravi – è ancora oggi brandita da politici e amministratori come una verità indiscutibile che continua ad alimentare discussioni di ogni tipo e visioni della criminalità.

Raramente un testo di criminologia ha attirato tanti consensi e dissensi, esaltazioni e critiche al vetriolo, tentativi di applicazione e di emulazione.

A dispetto di ciò, l’articolo continua a essere più citato che letto. Qui la mia traduzione con una introduzione che descrive il contesto di nascita della teoria, la storia, le applicazioni, i meriti e i demeriti, gli equivoci.

Una lettura indispensabile per chi ha interesse nella criminologia.

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Rowley vs. Jenner ovvero del primo antivaccinismo

L’avversione o l’esitazione, come si preferisce oggi, nei confronti dei vaccini non è fenomeno recente e nemmeno contemporaneo.

Nel 1805, ad esempio, William Rowley (1742-1806), dottore in medicina presso l’Università di Oxford, figura eminente del pantheon medico dell’epoca, pubblicò un pamphlet al vetriolo nei confronti del vaccino antivaiolo scoperto da Edward Jenner (1749-1823) in cui inserì, fra l’altro, una serie di ritratti di individui sfigurati, trasformati, resi simili a mostri dopo essere stati vaccinati contro il vaiolo.

Per Rowley, infatti, la vaccinazione esponeva i destinatari a “morbi bestiali, che rendevano sudici la natura e l’aspetto della persona, il volto, gli occhi, le orecchie, affliggendola con cecità e sordità e diffondendo l’influenza nefasta del vaccino su tutto il corpo”. Se “il vaiolo è un castigo divino” – continuava Rowley – “il vaccino è il prodotto della presunzione umana: il primo è comandato da Dio; il secondo è forse un’audace violazione della nostra sacra religione”.

Rowley, come tanti altri dottori, politici, ecclesiastici e persone comuni dell’epoca, era contrario al vaccino sia per motivi medici, sia per motivi etici, religiosi, sociali. Una delle ragioni principali di tale avversione fu l’idea che per rendere immuni al vaiolo (smallpox, in inglese) fosse necessario inoculare gli individui con cowpox, un tipo di vaiolo (“vaiolo vaccino”, in italiano) che colpiva le mucche da latte e contagiava i mungitori. Jenner aveva tratto l’intuizione del suo vaccino proprio dall’osservazione che coloro che avevano a che fare con questi animali sembravano immuni al contagio da smallpox, avendo contratto il suo “cugino benevolo”, il cowpox.

In epoca predarwiniana, l’idea che una sostanza tratta da animali potesse giovare all’uomo era considerata eticamente abominevole e scientificamente mostruosa: di qui i ritratti di Rowley che mostravano ragazzi e ragazze “mutati” in bovini dopo la vaccinazione o donne che sviluppavano inquietanti corna sul capo. Si temeva, inoltre, che la deprecabile sostanza potesse alterare la mente dei vaccinati, inclinandoli sessualmente verso tori e mucche o potesse favorire la contrazione di altre terribili malattie come la sifilide.

Ben presto, l’immaginario collettivo si riempì di foschi timori nei riguardi della scoperta di Jenner, nonostante gli indubbi successi ottenuti.

Un altro motivo di avversione era di matrice religiosa: secondo alcuni, il vaccino era un tentativo arrogante di usurpare la volontà divina. Un altro ancora, derivava dalla resistenza a iniettare sostanze dubbie nel corpo di persone sane, argomento ancora oggi usatissimo dagli antivaccinisti.

La resistenza maggiore, però, si ebbe quando, nell’Ottocento, molti governi decisero di rendere obbligatoria la vaccinazione contro il vaiolo. Questa decisione fu avvertita come un vulnus alla libertà personale di scegliere e, in quanto tale, stimolò reazioni violentissime per le quali fu necessario l’intervento dell’autorità pubblica.

Oggi, i motivi di “esitazione” nei confronti dei vaccini contro il Covid-19 sono molto simili a quelli dei primi antivaccinisti come Rowley. Gli argomenti addotti riguardano la presunta inefficacia dei vaccini (“Tutto rimarrà come prima”), la loro nocività (“Moriremo tutti”), gli effetti collaterali letali o imprevedibili (“Non sappiamo quello che ci succederà di qui a qualche mese/anno ecc.”), la trasgressione di norme religiose e principi etici (“I vaccini sono fatti con cellule di feti abortiti”). Inoltre, gli antivaccinisti tendono a sovrastimare ogni possibile effetto avverso, per quanto minimo, dei vaccini in contrapposizione ai benefici, proiettando una luce nefasta su effetti che, a ben vedere, sono comuni anche ad altri trattamenti.

Insomma, come dico nel mio recente Epidemia e panico morale, negli attuali movimenti antivax «ritroviamo gli stessi timori contro i “pericoli” dei vaccini, gli stessi argomenti pseudo-scientifici a sostegno delle posizioni contrarie alla inoculazione, le stesse forme di reazione contro le istituzioni e le norme che promuovono l’obbligatorietà della vaccinazione, le medesime sanzioni (o quasi) da parte delle autorità, le medesime forme di martirio adottate dagli antivaccinisti».

Credo sia necessario studiare queste forme costanti di resistenza sanitaria che si ripropongono periodicamente, significando aspettative e atteggiamenti radicati nell’animo e nelle società umane.

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L’ageismo pandemico è trollopiano?

Il termine fisso è un romanzo distopico pubblicato nel 1882 da Anthony Trollope (1815 – 1882), prolifico autore inglese dell’epoca vittoriana. La storia è ambientata nel 1980 nell’immaginaria Repubblica di Britannula, presieduta da John Neverbend. In questa repubblica, a ogni bambino appena partorito viene tatuato il giorno della sua nascita per ricordargli che, di lì a sessantasei anni la sua vita sarà soppressa per legge. L’idea fondamentale del Termine fisso è, infatti, che i legislatori di Britannula hanno introdotto una forma di eutanasia obbligatoria allo scopo di abolire le miserie, la debolezza e l’imbecillità connesse alla vecchiaia e liberare la società dall’oneroso carico assistenziale necessario a sostenere in vita gli anziani.

Per facilitare l’esecuzione di tale norma, la struttura di Britannula è incentrata su una forte retorica eufemistica: all’approssimarsi dell’età “mortale” l’individuo viene «depositato» («deposited») in un «collegio».  La deposizione non è altro che una forma di reclusione prima dell’esecuzione, a sua volta chiamata «dipartita» («departure»). Il  «collegio», situato nella città di Necropoli, è il luogo deputato a ospitare per un anno il candidato all’eutanasia (termine che compare solo due volte nel testo) e ha la funzione di insegnare all’anziano ad affrontare una «buona morte» imposta per una giusta causa, quella del bene comune.

Convinto assertore della  “dottrina del termine fisso” è il presidente di Britannula John Neverbend, il quale, fedele al suo cognome, che in italiano vuol dire “Non mi piego”, asserisce la piena liceità della pratica  per il bene della società e si paragona ripetutamente a Cristoforo Colombo e Galileo Galilei per legittimare la sua convinzione. L’assunto di fondo dei “terminefissisti” come Neverbend è che la vita dopo i sessantotto anni non sia altro che “vanità e vessazione dello spirito” e che, per questo, debba essere troncata inflessibilmente.

Non è difficile scorgere nei discorsi dei membri della società distopica di Trollope argomentazioni simili a quelle di alcuni “ageisti pandemici” contemporanei. Per questi non vale la pena adottare misure di prevenzione della Sars-Cov-2 per salvare “quattro vecchi che comunque moriranno” e la società non dovrebbe essere costretta ad autoconfinarsi e a indebolire la propria struttura economica e produttiva “solo” per risparmiare la vita degli anziani. Insomma, gli “ageisti pandemici” sarebbero favorevoli alla “buona morte” dei loro vecchi pur di salvaguardare la vita dei giovani e del ceto produttivo. Anche per loro dovrebbe essere instaurato un “termine fisso”, stabilito dal virus, per sollevare la società da oneri di assistenza che non può permettersi.

L’ageismo pandemico di questo periodo ha reso lecito per alcuni introdurre argomentazioni favorevoli all’eutanasia che ritenevamo superate ed è la dimostrazione che talvolta le distopie più improbabili hanno possibilità di avverarsi, tracimando dalla fiction alla realtà.

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Il bias del vicino di casa

Tra i numerosi bias di cui gli psicologi parlano da quando la psicologia cognitiva si è prepotentemente imposta alla nostra attenzione, non ho mai trovato citato quello che potremmo definire il “bias del vicino di casa” (che si potrebbe rendere con neighbour bias, in inglese).

È un termine che ho coniato dopo aver letto un libro curioso che attende un suo corrispettivo in italiano: Cheek by Jowl. A History of Neighbours di Emily Cockayne (Vintage, London, 2013).  Cheek by Jowl è la storia di come si siano trasformate nel tempo la presenza e l’idea del vicino di casa in Inghilterra. Se inizialmente il vicino era una presenza intima, costante, inevitabile, talvolta anche oppressiva, con l’affermarsi dell’industrializzazione e i progressi dell’urbanizzazione, è diventato quella figura anonima e “familiarmente” estranea alla quale siamo abituati oggi.

Il volume di Emily Cockayne è ricco di osservazioni, anche apparentemente incidentali, sulla psicologia sociale e cognitiva del vicino che è interessante approfondire. Ad esempio, a un certo punto, si può leggere:

I ricordi infantili dei vicini sono diversi da quelli degli adulti. I bambini abitualmente non notano chi disturba e fanno facilmente amicizia. È probabilmente per questo motivo che molte persone credono che i vicini fossero più amabili un tempo, quando erano giovani. Forse non ne hanno mai saputo il mestiere, ma ne ricordano la generosità o l’avarizia (traduzione mia).

Ognuno di noi può confermare la pervasività di questo bias. Quando siamo piccoli, il vicino di casa è la figura che ci accarezza, ci sorride, gioca con noi, ci racconta storie divertenti o ci incoraggia a giocare con il figli. Di lui o lei conosciamo poche caratteristiche di personalità. Non sappiamo né ci interessa nulla del lavoro che fa, di come sbarca il lunario, se va d’accordo con il (o la) partner, se ha dei debiti nei confronti dello stato o se ha problemi con la giustizia. Queste sono cose “per i grandi”. Di conseguenza, è facile, una volta adulti, cullarsi nell’illusione che, quando eravamo bambini, i vicini di casa fossero migliori di oggi; illusione che si spande ad avvolgere tutti gli aspetti del mondo che, naturalmente, “va sempre peggio di un tempo”.

Si tratta di una piccola “distorsione mentale” che contribuisce, insieme ad altre, ad alimentare un certo pessimismo nei confronti delle sorti dell’umanità tipico della maturità e, ancor di più, della terza età.

I vecchi confondono spesso la propria percezione del passare del tempo e delle fasi della vita con quella dell’andamento del mondo, per cui il ricordo dell’energia, dell’ottimismo e del piacere dei vent’anni diventa ricordo di una sorta di età dell’oro che contrasta violentemente con un presente fatto di energie ridotte, disillusioni, aspettative funeste nei confronti della vita che diventano facilmente pensiero pessimista e catastrofista sul futuro del mondo.

Il bias del vicino di casa è solo uno dei tanti che compongono la visione del mondo di chi è in là con l’età e, come tanti bias, è, per lo più inconsapevole.

Il libro di Emily Cockayne ci permette di averne consapevolezza e questo è senz’altro un merito.

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L’incredibile coincidenza dei compleanni

Qual è la probabilità che, in un gruppo di persone, ve ne siano almeno due che sono nate nello stesso giorno dell’anno, ossia che festeggino il compleanno nella stessa data? Considerando che in un anno ci sono 365 giorni, il senso comune tende a ritenere che il gruppo debba essere piuttosto ampio: 200 persone? 250? Le leggi delle probabilità, invece, forniscono un quadro completamente diverso.

Senza entrare nel merito dei calcoli, con 23 persone la probabilità che due di esse compiano gli anni lo stesso giorno dell’anno è circa 0,5073 (avete capito bene: è maggiore del 50%); con 30 è circa 0,7063; con 40 è circa 0,8912; con 50 è 0,9703. Date 50 persone, dunque, la probabilità diventa altissima. Non occorrono 200 individui in un gruppo. Che batosta per il nostro “senso comune”!

Il “paradosso dei compleanni” fu formulato nel 1939 dal matematico tedesco Richard von Mises (1883-1953) ed è un esempio affascinante di come un fatto controintuitivo possa essere spiegato matematicamente.

In casi come questi, al verificarsi dell’evento, la tentazione di gridare alla coincidenza straordinaria (se non miracolosa) è fortissima. Tale tentazione, però, dipende unicamente dalla ignoranza delle leggi della probabilità.

Sono tante le situazioni in cui l’ignoranza può indurre aspettative contrarie alla realtà. Ad esempio, presso gli scommettitori, è diffusa la credenza che se un numero al lotto non viene estratto da parecchie settimane, avrà maggiori probabilità di uscire alla estrazione successiva. Questa convinzione è errata perché ogni estrazione è indipendente dalla precedente: non ha, dunque, “memoria” di ciò che è accaduto prima.

In genere, molte coincidenze che ci appaiono misteriose, inquietanti o stranamente significative sono tali solo perché non consideriamo tutti i fattori in gioco. Altre volte, lo sono perché vogliamo che le cose stiano così, come quando propendiamo a “leggere” nel simultaneo accadere di due eventi un disegno del destino o della provvidenza (“Era destino/Ha voluto Dio che ci incontrassimo”).

Un altro esempio è dato dal fatto che la coincidenza tra la previsione di un astrologo o cartomante e il verificarsi del fenomeno previsto è solitamente considerata un argomento a favore dell’affidabilità dell’astrologia o della cartomanzia.

In realtà, essa potrebbe essere dovuta al fatto che, come sembra abbia detto Voltaire, «neppure a un astrologo è concesso il privilegio di sbagliare sempre». Vale a dire: anche se è poco plausibile che una predizione coincida con la realtà, questa coincidenza deve essere giudicata in rapporto al numero di predizioni espresse.

Più il numero è alto, più aumenta la probabilità che una di esse si riveli corretta. La maggior parte della gente, però, tende ad attribuire significati straordinari a eventi straordinari con la conseguenza che discipline come l’astrologia acquisiscono credibilità.

A questi temi, apparentemente banali, ma densi di conseguenze, ho dedicato un libro Apofenia. Interpretazioni razionali di eventi “misteriosi (2012) che, naturalmente, vi invito a leggere.

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