La vittoria della Nazionale di calcio agli ultimi Europei è stata accolta da una prevedibile retorica nazionalista. Secondo questa, gli Azzurri avrebbero dimostrato di che pasta sono fatti gli italiani, ma soprattutto, per dirla con le parole del premier Mario Draghi, avrebbero “unito l’Italia”. Addirittura, secondo alcune stime, il Pil del nostro paese è destinato ad aumentare di 12 miliardi a causa dell’aumento delle esportazioni e della inevitabile maggiore attrattiva che la nazione eserciterà sugli stranieri. Una nuova vita si prospetta per tutti noi e forse ogni problema che sembra attanagliare i nostri concittadini svanirà per sempre.
Se questa retorica – ricorrente e scontata – può sembrare stucchevole anche al più trasognato tra noi, è interessante considerarla come un esempio di quello che lo psicologo Michael Billig nell’omonimo libro pubblicato in Italia da Rubbettino (2018) definisce “nazionalismo banale”.
Che cos’è il nazionalismo banale? Secondo Billig, gli stati nazionali
sono quotidianamente riprodotti in quanto nazioni, e i rispettivi cittadini in quanto loro membri. E queste nazioni sono a loro volta riprodotte nell’ambito di un mondo di nazioni. Affinché questa riproduzione quotidiana abbia luogo, si può ipotizzare che si debba riprodurre anche tutto un insieme di credenze, presupposizioni, abitudini, rappresentazioni e pratiche. Oltre a ciò, tale insieme deve essere riprodotto in una maniera banalmente prosaica, perché il mondo delle nazioni è il mondo del quotidiano, il terreno familiare della contemporaneità (p.14).
Il “nazionalismo banale” è dunque quell’insieme di
abitudini ideologiche che permettono alle nazioni consolidate dell’Occidente di essere riprodotte in quanto tali. […] tali abitudini non [sono] distanti dalla vita quotidiana, come hanno ipotizzato alcuni osservatori. La nazione viene indicata, o “sbandierata”, ogni giorno nella vita dei suoi cittadini. Nelle nazioni consolidate il nazionalismo, lungi dall’essere un umore intermittente, ne costituisce invece la condizione endemica (p. 15).
Uno dei modi attraverso cui la nazione ci viene ricordata è attraverso lo sport, e il calcio in particolare. Questo perché
Secondo la tesi del nazionalismo banale, la nazione è vicina alla superficie della vita contemporanea. Se questo è vero, allora le familiari abitudini linguistiche della quotidianità agiranno continuamente da richiami mnemonici della nazione. In tal modo il mondo di nazioni sarà riprodotto come il mondo, l’ambiente naturale della contemporaneità. Come mostrato in precedenza, il nazionalismo non è confinato al linguaggio fiorito dei miti di sangue. Il nazionalismo banale agisce tramite parole prosaiche e consuetudinarie che danno per scontate le nazioni che, così facendo, le inabitano (p. 175).
Così, quando diciamo “noi” italiani abbiamo sconfitto “loro” gli inglesi; quando sventoliamo in piazza le nostre bandiere tricolori e ci esaltiamo per le gesta dei nostri beniamini; quando ci coloriamo il volto e il corpo di azzurro, ricordiamo continuamente a noi stessi che siamo italiani, apparteniamo a una nazione con precisi confini, una precisa lingua e una precisa identità sociale e culturale. Come dice ancora Billig:
I costanti sbandieramenti fanno sì che, qualunque altra cosa venga dimenticata in un mondo di sovraccarico informativo, noi non dimentichiamo le nostre patrie. Il plebiscito, avvenga esso tramite l’abituale deissi o il tifo sportivo, riproduce lo Stato nazionale. Se veniamo sistematicamente preparati ai pericoli del futuro, allora non si tratta di una preparazione che ricarica una riserva di energia aggressiva. È un modo di leggere, di guardare, di percepire e di dare le cose per scontate. È una forma della vita sociale in cui “noi” veniamo continuamente invitati a rilassarci, a sentirci a casa, all’interno dei confini della nazione. Questa forma della vita sociale è l’identità nazionale, la quale viene continuamente rinnovata, e le cui pericolose potenzialità, nella loro familiarità, sembrano innocue (pp. 237-238).
È così che banalmente rafforziamo il nazionalismo, forse l’unica, vera ideologia rimasta tra noi, ormai parte del senso comune e, dunque, dato per scontato. Certo, ci sentiamo bene, entusiasti, felici quando esultiamo e tifiamo Italia. La verità, però, è che, in questo modo, produciamo e riproduciamo una precisa ideologia di cui non ci rendiamo nemmeno conto e che costituisce parte irrinunciabile del nostro bagaglio cognitivo quotidiano.
Subito dopo la partita, valevole per la finale dei Campionati europei 2020, tra Italia e Spagna, vinta dall’Italia per 5-3 ai calci di rigore, alcuni siti hanno segnalato un tweet del calciatore del Barcellona Gerard Piqué, secondo il quale chi tira per primo i rigori vince quasi sempre a dispetto del luogo comune secondo cui quella dei calci di rigore sarebbe una “lotteria” governata dal caso. Lo dimostrerebbero i recenti quattro incontri finiti ai rigori tra Campionato europeo e Coppa America (che si gioca in simultanea).
La tesi di Piqué, pur affidata ai solo quattro casi citati nel tweet, non è una mera opinione personale. Alcune ricerche dimostrano che sui rigoristi agiscono una serie di pressioni psicologiche che possono condizionarne la prestazione. Ad esempio, particolari effetti mentali sembrano associati all’ordine di battuta dei rigori. Segnalo, al riguardo, una interessante ricerca di Apesteguia e Palacios-Huerta (2010) nella quale gli autori hanno esaminato 129 occasioni di calcio professionistico in cui, nel periodo 1976-2003, l’esito dell’incontro è stato deciso dalla “lotteria” dei calci di rigore per un totale di 1.343 calci di rigore.
La loro scoperta è stata che, nonostante in teoria entrambe le squadre avessero la stessa probabilità statistica di prevalere sull’avversario, le squadre che hanno calciato per prime hanno vinto la sfida il 60,5% delle volte. Questa ricerca ha avuto conseguenze pratiche nel senso che, per ovviare a questo effetto psicologico, in varie occasioni, si è sperimentato un modo diverso di battere i calci di rigore ispirato alla cosiddetta “formula ABBA”.
Questa formula prevede che, dopo il primo rigore, la stessa squadra calci due rigori di seguito prima di lasciare il posto all’avversaria. In questo modo, secondo la psicologia, sarebbe garantito uno svolgimento più equo della “lotteria” dei calci di rigore. Incidentalmente, si tratta della stessa formula suggerita da Piqué per conferire maggiore equilibrio a questa sorta di tie-break calcistico.
Non mi sorprenderei se questo suggerimento, avallato peraltro dalla scienza, venisse accolto dalle istituzioni preposte alla modifica del regolamento calcistico. Appena pochi giorni fa, abbiamo appreso che, a partire dalla prossima stagione, non avrà più validità la regola del valore doppio del goal segnato in trasferta, che pure è invalsa per tantissimo tempo.
Mi limito ad aggiungere che nel mio Hanno visto tutti. Nella mente del tifoso descrivo in dettaglio numerose altre ricerche sui meccanismi psicosociali che condizionano le prestazioni dei calciatori (rigoristi e non). Una buona occasione per comprendere che il calcio è un fatto sociale complesso anche dal punto di vista delle scienze umane.
Riferimento: Apesteguia, Jose, and Ignacio Palacios-Huerta. 2010.“Psychological Pressure in Competitive Environments: Evidence from a Randomized Natural Experiment.”American Economic Review, 100 (5): 2548-64.
Non è difficile dimostrare la falsità di uno dei più diffusi detti in assoluto; talmente diffuso da essere entrato nel senso comune e venir dato per scontato, autoevidente. Si tratta del celebre “ambasciator non porta pena” (che ha equivalenti anche in altre lingue come, in inglese, Don’t shoot the messenger o, in latino relata refero), massima che dovrebbe riferirsi al fatto che chi è incaricato di recare una notizia non è responsabile del contenuto di questa.
Sebbene ciò sia fattualmente vero, la realtà psicologica è ben diversa.
Già storicamente, è noto che gli ambasciatori di notizie relative a eventi di cui non erano responsabili hanno spesso fatto una brutta fine. Si narra, ad esempio, che, nel 480 a.C. gli spartani di Leonida uccisero gli ambasciatori del re persiano Serse che si stava avvicinando con le sue truppe alle città greche. Anche il re di Fidene Tolumnio fece massacrare, nel 438 a.C., quattro ambasciatori romani che erano venuti a chiedergli il motivo di un cambio di alleanza della sua città. E gli esempi potrebbero continuare.
Al di là della storia, però, una caratteristica della comunicazione interpersonale insegna che si è in generale ritrosi a comunicare problemi, anche quando è evidente che non se ne è responsabili. La contrarietà dataci da una cattiva notizia, infatti, si trasmette a chi la comunica. Questo perché, consapevolmente o inconsapevolmente, tendiamo ad associare i fenomeni che si presentano accoppiati.
È quanto ha dimostrato uno dei padri della psicologia contemporanea, il russo Ivan Pavlov (1849-1936), il quale, agli inizi del Novecento, condusse una serie di esperimenti con i cani destinati a divenire una pietra miliare della disciplina; esperimenti che resero a tutti noti i concetti di “riflessi condizionati” e “riflessi incondizionati”.
In essi, come si ricorderà, Pavlov partiva dalla constatazione che, alla vista di porzioni di cibo, le ghiandole salivari dei cani si mettevano in azione, producendo saliva. Il solo suono di un campanello, invece, non provocava alcuna reazione nelle ghiandole salivari. A questo punto, Pavlov fece in modo che la presentazione del cibo venisse frequentemente associata al suono del campanello. Dopo un certo numero di esposizioni ai due stimoli associati, bastava che il cane udisse il solo suono del campanello perché le ghiandole salivari entrassero in attività. Il suono del campanello – stimolo condizionato – produceva da solo la stessa reazione della vista del cibo – stimolo incondizionato.
Lo stesso meccanismo funziona anche per sensazioni di segno opposto. Laddove il riflesso condizionato sia di sgradevolezza – ad esempio, i sentimenti di contrarietà provocati dall’apprendere una cattiva notizia – c’è il rischio che tale sgradevolezza si estenda per associazione a chi, pur essendo incolpevole, trasmette la cattiva notizia. Ne è un esempio la tendenza ben nota dei politici a comunicare personalmente le buone notizie ai propri elettori, delegando invece le cattive ai sottoposti di turno. Ciò al fine di non lasciare che la propria immagine sia “contaminata” dalla negatività dell’informazione.
Ricerche più recenti hanno confermato che chi comunica cattive notizie tende ad essere percepito negativamente, anche se non condivide la notizia comunicata (Tesser, Rosen, Batchelor, 1972; Manis, Cornell, Moore, 1974).
Del resto, nella vita quotidiana, gli individui tendono a prendere le distanze anche da chi reputano indesiderabile o sgradevole (tossicodipendenti, delinquenti ecc.), come sa chiunque, accusato ingiustamente, si veda improvvisamente abbandonato da amici e conoscenti. Allo stesso modo, nello sport, la sconfitta della squadra per cui si parteggia può indurre il tifoso a ridurre o recidere, almeno provvisoriamente, il legame con essa, evitando di parlare dell’incontro perso, di interagire con i tifosi della propria squadra o di altre squadre, di guardare in televisione le immagini della sconfitta patita, minimizzando il proprio coinvolgimento emotivo nella perdita ecc.
Possiamo, quindi, dire che, contrariamente al detto popolare, il messaggero “porta pena”. La popolarità della massima si deve, anzi, probabilmente, al fatto che essa rappresenta un tentativo di difesa di un ruolo percepito da sempre come ingrato, ma indispensabile, quando si tratta di comunicare informazioni spiacevoli.
Ma c’è anche un altro elemento da considerare. Spesso, di fronte a situazioni negative, abbiamo il desiderio di trovare un senso a esse, attribuendo la colpa a qualcuno. La “scoperta” di un nemico ci consente di scovare un significato nelle circostanze negative e di trovarvi soluzione attraverso l’eliminazione fisica del “male”, rappresentato, in questo caso, dall’ambasciatore stesso, anche se innocente.
Il detto “ambasciator non porta pena”, in conclusione, appare un concentrato di effetti psicologici, più o meno noti. Come accade con quasi tutti i detti celebri, se ci si propone di analizzarli criticamente, emergono contraddizioni, aporie, corti circuiti logici. È lo scotto che paghiamo alla saggezza popolare, che vorrebbe ridurre ad aforisma la complessità delle vicende umane, sbagliando quasi sempre.
Riferimenti:
Manis, M., Cornell, S. D., Moore, J. C., 1974, “Transmission of attitude relevant information through a communication chain”, Journal of Personality and Social Psychology, vol. 30, n. 1, pp. 81-94.
Tesser, A., Rosen, S., Batchelor, T. R., 1972, “On the reluctance to communicate bad news (the mum effect): A role play extension”, Journal of Personality and Social Psychology, vol. 40, n. 1, pp. 88-103.
Leggendo A Letter to a Young Clergyman (1721) di Jonathan Swift, mi è capitato di imbattermi nella seguente frase: «Reasoning will never make a man correct an ill opinion, which by reasoning he never acquired» (“Un uomo non verrà mai indotto con il ragionamento a correggere un’opinione errata che non ha acquisito con il ragionamento”). Si tratta – ho scoperto in seguito – di una frase spesso ripetuta, tanto che alcuni pensano che l’attribuzione a Swift sia apocrifa. In realtà, è perfettamente autentica (la fonte è facilmente rinvenibile) e la sua forza, come in molte frasi famose, deriva dalla densità del significato espressa in un numero limitato di parole.
Quando Swift scrisse queste parole, pensava alla verità “indubitabile” della religione cristiana nei confronti delle critiche dei liberi pensatori. Qualcuno potrebbe facilmente obiettare che nessuna religione, in realtà, si posa su fondamenta razionali e che anzi aderire a un credo è soprattutto questione di fede e, quindi, di trasporto emotivo e irrazionale.
A parte queste considerazioni, però, la verità dell’apoftegma di Swift appare con tutta evidenza ancora oggi quando ci capita di discutere con persone razziste, complottiste, negazioniste ecc.
Si tratta di individui che aderiscono a una posizione innanzitutto da un punto di vista emotivo e che ricorrono a ogni possibile razionalizzazione per conferire alle loro idee una veste ragionevole, in realtà totalmente sbrindellata.
Così, il razzista assumerà un atteggiamento cavillosamente critico nei confronti della ricerca che dimostra l’infondatezza scientifica delle tesi dei sostenitori della supremazia bianca, ma accoglierà a braccia aperte qualsiasi straccio di opinione o tesi, per quanto priva di credibilità, a conforto del suo punto di vista.
Il fautore di un orientamento politico accuserà di malafede, populismo o ideologia l’avversario che confuta le sue posizioni in base ai fatti, ma si dimostrerà straordinariamente indulgente nei confronti del sodale di partito che strilla le sue stesse assurdità da un qualsiasi scanno televisivo.
Il no-vax di turno invocherà la forza critica della ragione per “smontare” le “pretese” dei vaccinisti per poi, pochi minuti dopo, riferire di una nuova ricerca che dimostra la nocività dei vaccini, “sentita in Inernet”
Nella stessa Letter, Swift afferma a proposito di chi intende combattere queste opinioni: «This I confess is no easy task, because it is almost in a literal sense, to fight with beasts» (“Questo, lo ammetto, non è un compito facile perché, quasi letteralmente, equivale a battersi con delle bestie”).
Di bestie così oggi ce ne sono molte e, a differenza di un tempo, trovano ampia diffusione grazie al ruolo moltiplicatore di media e social. E sono difficili da fronteggiare perché non fanno altro che ripetere le medesime nenie apprese da Facebook o dall’amico che vende pesce surgelato, che, però, legge davvero tanto (nel senso di: tanti post).
L’adesione irrazionale è praticamente impossibile da scalfire, come sa chiunque abbia provato a “ragionare” con un credente. Al limite, la stessa irrazionalità della religione sarà ottimisticamente sbandierata a difesa della propria credenza, come ci ricorda il celebre “credo quia absurdum” attribuito a Tertulliano. Del resto, sacerdoti e profani continuano a ripetere che la fede è paradosso, scandalo e, insomma, non c’è ragione che tenga.
Completerei allora l’affermazione di Swift con quest’altra: “l’essere umano non è un animale razionale, ma gli piace molto razionalizzare”. Non so se qualcuno prima di me l’ha già pronunciata, ma, indipendentemente dalla paternità, l’espressione comunica un significato preciso: quando difendiamo le nostre opinioni, il più delle volte troviamo ragioni a convinzioni fondate sulla emotività o, comunque, su argomenti non razionali.
Il guaio è che questo accade non solo a razzisti, complottisti e negazionisti, ma a tutti noi. Per questo, è spesso difficilissimo avere la meglio su uno di costoro in una discussione: perché, prima o poi, anche a noi capiterà di razionalizzare, invece di ragionare.
Incidentalmente, è capitato a tanti medici, virologi ed epidemiologi assurti a star televisive dell’ultimo anno e mezzo. Ne stiamo pagando ancora le conseguenze e le pagheremo ancora per molto.
Nel frattempo, mi piacerebbe tradurre l’intera Letter di Swift: chissà che non contenga altre perle come quella che ha ispirato questo post.
In un post precedente, avevo fatto notare come lo sport sia pervaso da una serie di luoghi comuni piuttosto coriacei che fanno parte del senso comune collettivo. Uno di questi, ripetuto ad nauseam, è quello secondo cui Pierre de Coubertin (1863-1937) avrebbe pronunciato la celebre frase “L’importante non è vincere, ma partecipare”. In realtà – dicevo – la paternità della frase è da attribuire al vescovo anglicano Ethelbert Talbot, il quale era convinto che «Nella vita la cosa essenziale non è conquistare successi ma battersi bene».
Come fa notare, però, l’antropologo Bruno Barba, ciò significa che «in pratica, “non trionfare, ma combattere” sarebbe l’essenza dello sport olimpico, qualcosa di diverso, forse di opposto rispetto a “partecipare”» (Barba, B., 2021, Il corpo, il rito, il mito. Un’antropologia dello sport, Einaudi, Torino, p. 217).
È curioso come una frase che dovrebbe rappresentare una chiara indicazione “fraterna” sul modo di intendere lo sport, sia, in origine, un invito alla lotta, qualcosa di potenzialmente contrario alla formula retorica da tutti ancora oggi strombazzata.
Come ribadisce lo stesso Barba, «la narrazione dei Giochi olimpici moderni si ammanta d’una serie di mistificazioni arrivate fino a noi. Il clima di fraternità è smentito da tutta una serie di fatti storici eloquenti. E niente suona più falso del motto «l’importante è partecipare», che retoricamente viene designato come lo slogan delle Olimpiadi» (Barba, 2021, p. 217).
A scavare, poi, si scopre che lo sport è stato frequentemente utilizzato al sevizio di interessi nazionalistici, per promuovere la “vitalità” nazionale. Ancora Coubertin era fermamente convinto che lo sport potesse essere un utile mezzo terapeutico per guarire la società dalle proprie nevrosi: lo sport – diceva – «è uno strumento psichico senza confronti e, lo si noti, dinamico, a cui ci si può richiamare con profitto, nel trattamento di molte psiconevrosi. Infatti, molto spesso, le psiconevrosi si distinguono per un certo calo della virilità, e non c’è niente di meglio che lo sport per rinvigorirlo e mantenerlo» (de Coubertin, P., 1913, Essais de psychologie sportive, Librairie Payot, Lausanne e Paris, p. 166). Coubertin era inoltre convinto che lo sport avesse una importante funzione di pacificazione all’interno della nevrotica e rabbiosa società moderna (Hoberman, J.M., 1988, Politica e sport, Il Mulino, Bologna, p. 190).
Infine, per Coubertin, la stampa sportiva «esercita un’influenza nociva in virtù del suo sensazionalismo iperbolico. Ma le autorità politiche possono utilizzare lo sport anche per neutralizzare l’irrazionalità attraverso un equilibrio igienico» (Hoberman, 1988. p. 191).
Insomma, altro che fratellanza universale! Lo sport, per il celebre Coubertin, rappresentava uno straordinario strumento al servizio del nazionalismo e dell’inquadramento delle “irrazionalità” delle masse; un mezzo di disciplinamento collettivo, come in effetti ancora oggi spesso è, oltre che un sistema per apprendere a lottare e combattere in un mondo in cui la lotta rappresenta darwinianamente un modo per sopravvivere.
Insomma, lo sport non è ecumene, anche se ci piace tanto pensare che lo sia.
In un libro recente del biologo Adam Rutherford leggo il seguente passo:
Gli atleti oggi sono più in forma di quanto non fossero in passato, sotto ogni punto di vista. La grande squadra di cricket australiana nella quale hanno giocato leggende come Don Bradman verrebbe stracciata dall’attuale squadra inglese di serie B, se dovessero affrontarsi nelle rispettive forme migliori. E sono piuttosto sicuro che la squadra inglese che vinse la Coppa del mondo nel 1966 si troverebbe in difficoltà se dovesse giocare contro la prima squadra della mia amata Ipswich Town, che mentre scrivo sta languendo al terzo livello delle leghe calcistiche inglesi. Le squadre sportive oggi hanno geni migliori? Non in misura significativa, ma lo sport si è evoluto ed è diventato una pratica più seria e redditizia, dunque gli standard previsti per i programmi di allenamento, le attrezzature, Je diete, la forma e la professionalità sono saliti a livelli stellari (Rutherford, A., 2020, Cosa rispondere a un razzista, Bollati Boringhieri, Torino, p. 111).
Confesso che questo passo mi ha fatto molto pensare. A tutti gli appassionati di sport capita di fantasticare su improbabili sfide tra Coppi e Pantani, tra l’attuale Nazionale italiana di calcio e la formazione che trionfò ai Mondiali del 1934, tra la Juventus dei nove scudetti consecutivi e quella del quinquennio d’oro del 1930-1935.
L’esito delle mie fantasie, in accordo con quanto afferma Rutherford, è di solito impietoso nei confronti degli sportivi del passato. Del resto, basta osservare una qualsiasi partita di calcio degli anni Cinquanta o Sessanta: i giocatori appaiono lenti, poco muscolosi, noiosi, poco tattici e tecnici in confronto a quelli di oggi. E sì, l’idea che i grandi campioni del passato possano soffrire, se non prendere sonore sberle, da calciatori di serie minori della contemporaneità mi viene spesso in mente.
E non per motivi genetici, come ricorda Rutherford, ma per la grande professionalizzazione che ha accompagnato lo sport odierno, che ha raggiunto standard di competitività un tempo inimmaginabili. E pensare che i “professionisti” sono talvolta additati come “mercenari”, anche se è proprio in quanto mercenari che possiamo apprezzare le gesta dei nostri eroi contemporanei.
In ogni modo, mi sembra di poter affermare con una certa sicurezza che, quanto meno in ambito sportivo, la querelle des anciens et des modernes debba risolversi tutta a favore dei moderni. Con l’avvertenza che gli antichi continueranno a rifulgere nel nostro ricordo come in un empireo di invincibili, trasfigurati dal passato e per questo inavvicinabili. Come tutti i nostri ricordi.
Sul tema del professionalismo e del valore positivo dei “mercenari”, rimando al mio Hanno visto tutti! Nella mente del tifoso, dove espongo una tesi originale sull’argomento.
In una delle ultime puntate della prima stagione della celebre serie tv «The Big Bang Theory», intitolata “La reazione alle arachidi” (2008), si svolge il seguente scambio di battute tra Leonard, Penny e Sheldon.
Leonard: Come sai che sabato è il mio compleanno?
Penny: Ti ho fatto l’oroscopo ricordi? L’avrei fatto a tutti se Sheldon non avesse fatto uno dei suoi tipici discorsi psicotici.
Sheldon: Per la cronaca, quel discorso psicotico era una concisa sintesi dello studio di Bertram Forer, che, nel 1948, dimostrò definitivamente attraverso meticolosi esperimenti che l’astrologia non è altro che un mucchio di fesserie pseudoscientifiche.
Penny: Bla, bla, bla, tipico del Toro.
Bertram R. Forer (1914–2000) è un nome noto agli psicologi (ma Sheldon non è un fisico teoretico?), ma poco noto ai più, nonostante sia autore di uno degli studi più importanti sulla credibilità umana “The Fallacy of Personal Validation: A classroom Demonstration of Gullibility” (“La fallacia della convalida soggettiva: una dimostrazione di credulità in aula”). In questo studio, a differenza di quanto sostiene Sheldon, dimostra non tanto che l’astrologia è un “mucchio di fesserie pseudoscientifiche”, ma che il nostro rapporto nei confronti dell’astrologia è viziato da una fallacia di fondo – denominata fallacia della convalida soggettiva o effetto Forer – che ci induce a essere particolarmente disposti a credere nelle sue previsioni. L’articolo non riguarda, dunque, l’astrologia, ma chi vi crede.
Ho già tradotto il testo di Forer, per il quale rimando a questo mio post precedente.
L’articolo dello psicologo americano, insieme ad altri quattro, farà parte di un mio libro di prossima pubblicazione presso la PM edizioni, intitolato Aloni, stregoni, superstizioni, tutto dedicato alla credulità umana. Un testo quasi unico nel suo genere, che mi permette di fare il punto su una serie di meccanismi mentali che da tempo mi ossessionano e che condizionano la mente e la vita di tutti noi.
Nel frattempo, mi piace considerare le parole di Sheldon come una sorta di preannuncio del libro.
E non dite, come Penny, che è tutto un bla, bla, bla!
Un principio cardine della nostra società dell’informazione sembra essere il seguente: non importa quanto la tua opinione sia assurda, ridicola, estrema, improbabile, scriteriata, paradossale, priva di fondamento. Se hai la possibilità di ripeterla un numero n di volte attraverso i mass media – indipendentemente dal mezzo adottato – troverai sempre qualcuno disposta a condividerla, approvarla, sostenerla.
L’efficacia di questo principio è evidente: negazionisti di qualsiasi tipo, cultori di idee politiche estreme o superate, conduttori radiofonici trash, urlatori perennemente indignati, centauri da tastiera, provocatori dei giorni feriali, aggressori della parola, insieme a disapprovazioni, sbertucciamenti, fischi e pernacchie (dei più), trovano di solito applausi, consensi, baci e abbracci (anche di pochi) per il solo fatto di declamare le loro idee (?) da una tribuna massmediatica a intervalli periodici. Al limite, basta una contumelia, una hate word, un suono appena meno equivoco di un rutto per attirare almeno uno spettatore/ascoltatore disposto a commentare che, sì, finalmente qualcuno l’ha detto; qualcuno ha finalmente trovato il coraggio di dirlo (e non importa cosa).
In questo, leggo la necessità (forse) da parte di tanti di emanciparsi da una vita mediocre, basata sul correttese linguistico e sul rispetto delle convenzioni a ogni costo. O forse una sorta di ossequio nei confronti dei mezzi di comunicazione di massa, ritenuti di per sé veicolo venerando di informazioni e, quindi, da rispettare nei contenuti al di là dei… contenuti stessi.
Perché, ad esempio, trova ascolto il conduttore radiofonico dal lessico ristretto e dalla inclinazione al menefreghismo? O il medico negazionista il cui eloquio non distingue tra la “t” e la “d”? O il conduttore televisivo che contende agli ospiti del suo programma la palma di chi la spara più grossa? Per non parlare della celebrità di Tik Tok, che si limita a muovere gli occhi in alto e in basso e a dire “Ciao, ragazzi!”.
Insomma, i media, anche social, stendono sui loro protagonisti una patina di credibilità e notiziabilità che sembra depauperare ogni senso critico, sabotare ogni criterio di ragionevolezza, disinnescare ogni possibile obiezione. In questo modo, tutti possono essere qualcuno o, almeno, trovare qualcuno che dica loro: “Bravo!”. Non è tanto, ma a volte basta davvero poco per dare un senso alla propria esistenza!
A furia di sentirne parlare si ha la tentazione di credere che sia vero. Del resto, in Italia, il “Piano Kalergi” è entrato a far parte dei discorsi pubblici di personaggi noti, come il leader della Lega Matteo Salvini, la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, Daniela Santanché, Claudio Messora (già responsabile della comunicazione del Movimento 5 Stelle), il filosofo Diego Fusaro, onnipresente su carta, in radio e in televisione, il cantante Povia, il giornalista convertito al cristianesimo Magdi Allam e uno stuolo di militanti di destra, sovranisti, nazionalisti, negazionisti (dell’Olocausto e non solo); tutti convinti che sia in atto un “chiaro” piano di sostituzione della popolazione europea con masse migranti di africani e asiatici, disposte alla più completa docilità nei confronti delle volontà di fantomatiche élite mondiali, ansiose di rafforzare il loro potere disciplinare sui popoli d’Occidente. Insomma, la finalità del piano sarebbe sostituire la “fiera” popolazione autoctona europea con etnie meticce e imbelli per governare meglio.
Per i suoi sostenitori e propagatori, il “piano” è “evidente” e “noto a tutti” e trova piena conferma nei continui, “incontrollati” sbarchi di migranti e richiedenti asilo, la cui condotta sarebbe motivata non da fame, stenti, siccità, carestie, guerre o “semplice” desiderio di migliorare la propria esistenza, ma da una mano invisibile, guidata dagli immancabili Soros e Gates, oltre che dagli ineffabili banchieri che tirano le fila dell’Unione Europea o, almeno, delle migrazioni mondiali.
In realtà, i summenzionati raramente pronunciano il nome di Kalergi, preferendo glissare sulle fonti delle loro “conoscenze” e alludere vagamente a un sinistro piano di sostituzione etnica, ma l’origine di tutto è proprio in Richard Nikolaus von Coudenhove-Kalergi (1894-1972), filosofo conservatore di padre austriaco e madre giapponese (quindi meticcio egli stesso), convinto sostenitore di una Europa senza frontiere e senza alcuna differenza etnica, una Pan-Europa da contrapporre ai nazionalismi più esagitati e mediocri, una unione politica ed economica di tutti gli stati europei che superasse i limiti della Società delle Nazioni (1919) voluta dal presidente statunitense Woodrow Wilson.
In realtà, però, anche questa filiazione diretta è sbagliata e basta leggere i due testi principali di Kalergi – Paneuropa (1923) e Idealismo pratico (1925) – per rendersene conto.
In Italia, i due volumi sono stati tradotti qualche anno fa dall’editore Il Cerchio e basterebbe, dunque, consultarli per capire gli orientamenti politici dell’autore e, soprattutto, verificare se in essi vi sia qualche riferimento a un qualche programma del tipo di cui cianciano i vari Fusaro e Salvini.
Tuttavia, a dispetto di ogni elementare verifica delle fonti, gli assertori del piano Kalergi non sanno che farsene delle opere del filosofo austriaco-giapponese e fanno propria la mediazione interpretativa di un militante dell’estrema destra austriaca, ammiratore di Hitler, già condannato per aver negato l’Olocausto, tale Gerd Honsik (1941-2018), il quale, in un libro farneticante, intitolato Addio Europa (2005), astraendo, decontestualizzando anacronisticamente e deturpando gli scritti di Kalergi, fa di questi un machiavellico pianificatore demografico che avrebbe ispirato o sedotto le élite contemporanee, mostrando, fra l’altro, una lungimiranza incredibile considerando che i testi del filosofo risalgono a poco dopo la fine della Prima guerra mondiale, quando la questione dell’immigrazione non era certamente rappresentabile nei termini che oggi conosciamo.
In rete circola il seguente passo di Honsik, a cui i complottisti di tutto il mondo si avvinghiano per comprovare le proprie tesi. È probabile incidentalmente che nessuno di essi abbia mai letto per intero Addio Europa (come naturalmente non hanno mai letto le opere di Kalergi), limitandosi a maneggiare la citazione internettiana come un’arma bianca a riprova che la “verifica delle fonti” è un esercizio critico che i cospirazionisti, in particolare quelli più strepitanti, non amano per nulla.
Ecco il passo:
Kalergi proclama l’abolizione del diritto di autodeterminazione dei popoli e, successivamente, l’eliminazione delle nazioni per mezzo dei movimenti etnici separatisti o l’immigrazione allogena di massa. Affinché l’Europa sia dominabile dall‘élite, pretende di trasformare i popoli omogenei in una razza mescolata di bianchi, negri e asiatici. A questi meticci egli attribuisce crudeltà, infedeltà e altre caratteristiche che, secondo lui, devono essere create coscientemente perché sono indispensabili per conseguire la superiorità dell‘élite.
Eliminando per prima la democrazia, ossia il governo del popolo, e poi il popolo medesimo attraverso la mescolanza razziale, la razza bianca deve essere sostituita da una razza meticcia facilmente dominabile. Abolendo il principio dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge e evitando qualunque critica alle minoranze con leggi straordinarie che le proteggano, si riuscirà a reprimere la massa.
Davvero Kalergi ha pensato, detto e scritto tutto questo? Davvero voleva “l’abolizione del diritto di autodeterminazione dei popoli”, “l’eliminazione delle nazioni”? Davvero, attribuiva ai meticci “crudeltà, infedeltà e altre caratteristiche” che li renderebbero facilmente dominabili?
Leggiamo il seguente brano, tratto da Idealismo pratico:
L’uomo di campagna è principalmente un prodotto dell’endogamia, quello di città è meticcio.
I genitori e gli antenati del contadino solitamente provengono dalla medesima regione scarsamente popolata; quelli del nobile dal medesimo ristretto ceto elevato. In entrambi i casi, gli antenati hanno tra loro legami di sangue e perciò sono per lo più fisicamente, psicologicamente e spiritualmente simili tra di loro. Per questa ragione trasmettono in eredità i tratti comuni, le tendenze del volere, le passioni, i pregiudizi, le inibizioni in grado aumentato ai loro figli e discendenti. I tratti essenziali che si generano da tale endogamia sono: fedeltà, pietà, senso della famiglia, spirito di casta, resistenza, caparbietà, energia, mediocrità, potere del pregiudizio, carenza di oggettività, ristrettezza di vedute. Qui una generazione non costituisce variazione del passato, bensì semplicemente una sua ripetizione: in luogo dell’evoluzione si manifesta la conservazione.
Nella grande città s’incontrano popoli, razze, diversi stati sociali. Normalmente l’uomo di città è un miscuglio dei più diversi elementi sociali e nazionali. In lui le proprietà caratteriali contrastanti, i pregiudizi, le inibizioni, le tendenze volitive e le Weltanschauungen dei suoi genitori e antenati sono annullate o quantomeno reciprocamente mitigate. Di conseguenza i meticci spesso coniugano mancanza di carattere, assenza di inibizioni, debolezza della volontà, volubilità, assenza di pietà e infedeltà con oggettività, poliedricità, vivacità mentale, libertà dai pregiudizi e ampiezza di vedute. I meticci si differenziano sempre dai loro genitori e dai loro antenati; ogni nuova generazione è una variazione della precedente, nel segno dell’evoluzione oppure della degenerazione.
L’uomo che è frutto dell’endogamia è un uomo con una sola anima, il meticcio è un uomo dalle molte anime. In ogni individuo i suoi antenati sopravvivono come elementi della sua anima: se si assomigliano tra di loro essa è unitaria, uniforme; se tendono a differenziarsi l’uomo è poliedrico, complesso, differenziato.
[…]
L’endogamia rafforza il carattere ma indebolisce lo spirito, il meticciato indebolisce il carattere ma rafforza lo spirito. Laddove endogamia e meticciato si incontrano sotto felici auspici generano il più alto tipo umano che unisce il carattere più forte con lo spirito più acuto. Laddove endogamia e meticciato si incontrano sotto infelici auspici, creano tipi degenerati con un debole carattere ed uno spirito ottuso.
L’uomo di un lontano futuro sarà meticcio. Le razze e le caste odierne cadranno vittime del crescente superamento di tempo, spazio e pregiudizio. La razza futura eurasiatico-negroide, esteriormente simile agli antichi egizi, sostituirà la molteplicità dei popoli con una molteplicità di personalità. Poiché secondo le leggi dell’ereditarietà la diversità dei discendenti cresce con la diversità dei progenitori, l’uniformità con l’uniformità dei progenitori. Nelle famiglie endogamiche tutti i figli si assomigliano l’un l’altro: poiché tutti rappresentano il comune tipo della famiglia. Nelle famiglie meticce i figli si differenziano maggiormente l’uno dall’altro: ognuno costituisce una nuova variazione degli elementi genitoriali e progenitoriali divergenti.
L’endogamia genera tipi caratteristici, il meticciato genera personalità originali. Il precursore degli uomini planetari del futuro nell’Europa moderna è il russo come meticcio slavo-tartaro-finnico; poiché esso è quello che tra tutti i popoli europei ha una minore componente razziale pura, è lui il tipico uomo dalle molteplici anime, dall’anima ampia, ricca e onnicomprensiva. Ai suoi massimi antipodi troviamo il britannico insulare, l’uomo altamente endogamico e dalla singola anima, la cui forza risiede nel carattere, nel volere, nell’unilaterale, nel particolare. A lui l’Europa deve il suo tipo più chiuso e completo: il Gentleman (von Coudenhove-Kalergi, R. N., 2018, Idealismo pratico, Il Cerchio, pp. 38-40).
Il confronto tra quanto scritto da Kalergi e quanto interpretato da Honsik è impietoso.
Nessun riferimento a genocidi di cittadini europei, a piani di sostituzione, élite mondiali golpiste e masse imbelli di migranti. Al contrario, il meticcio descritto da Kalergi possiede assenza di inibizioni, assenza di pietà e infedeltà oggettività, poliedricità, vivacità mentale, libertà dai pregiudizi e ampiezza di vedute, tutte caratteristiche che mal si conciliano con una sua presunta inclinazione alla docilità disciplinare. Addirittura, il precursore di tale figura è il “russo come meticcio slavo-tartaro-finnico” e non certamente l’africano o l’asiatico, mentre la futura razza eurasiatico-negroide non è affatto una razza di imbelli facilmente manipolabili, ma la conseguenza inevitabile dei processi di urbanizzazione, modernizzazione e “mescolanza” che già all’epoca si intravvedevano in Europa. Non solo. Stando alla descrizione di Kalergi, sarebbero più soggiogabili i popoli endogamici, essendo fedeli, pieni di pregiudizi, mediocri e ristretti di vedute che quelli meticci.
Aggiungo che, nel passo appena citato, Kalergi si limita a descrivere delle linee di tendenza a partire da alcune categorie interpretative – l’uomo di campagna e l’uomo di città; endogamia e meticciato; paganesimo e cristianesimo – piuttosto semplicistiche e facilmente criticabili, ma tipiche di certi scrittori conservatori dell’epoca. Peraltro, la lettura di Idealismo pratico è, almeno a mio modesto parere, poco stimolante. È probabile che, senza la mediazione distorcente di Honsik e dei complottisti attuali, i testi di Kalergi sarebbero da tempo nel dimenticatoio o al più sarebbero ricordati da pochi studiosi di nicchia. Del resto, come afferma un commentatore, «Honsik ovviamente non perde troppo tempo a dimostrare oltre la sua tesi, al di là dell’estrazione di frasi scelte dal libro citato, le sue “prove” si limitano all’elenco dei potenti frequentati da Kalergi, tutti parte del big complotto e, visto che è morto nel 1976, all’elenco di quanti hanno poi ricevuto l’omonimo premio Coudenhove-Kalergi, che viene assegnato alle personalità che si spendono per l’Europa e che quindi è stato incassato proprio dai politici europei che più si sono distinti per il progetto dell’Unione, cosa si vuole di più?».
Ciò che la vicenda Kalergi ci insegna, piuttosto, è come sia facile creare una “credibile” teoria del complotto rimasticando fonti remote (contando sul fatto che nessuno andrà a consultarle), distorcendole, manipolandole e dandole in pasto a “credenti” affamati di “prove” che sostengano le proprie tesi razziste, complottiste, sovraniste.
Perché il punto qui non è ricercare la verità, ma fare incetta di qualsiasi fantasia in grado di alimentare le proprie farneticazioni. È il trionfo del bias di conferma: l’esporsi solo alle informazioni che accreditano il proprio punto di vista, anche se sono fragili, precarie, false. E allora non importa che Honsik dica il falso. L’importante è che sia uno di noi e che dica quello che noi vogliamo sentirci dire. Il resto non conta. E chi non è d’accordo fa parte del complotto e, quindi, ne conferma l’esistenza. Non si sfugge al circolo vizioso del cospirazionismo. Per questo il piano Kalergi ha ancora tanti estimatori. Ne hanno bisogno, anche se non c’è un briciolo di verità nella tesi della sostituzione etnica.
Platone credeva che la scrittura avrebbe fatto deperire la memoria, il vaccino di Jenner fu accusato di trasformare le persone in bestie o di modificare i loro corpi e le loro anime. Telefonini e smartphone sono ancora oggi accusati di causare il cancro e… l’impotenza.
Ciò che è nuovo ha sempre fatto paura a causa delle tendenze estremamente conservatrici della nostra mente. Cambiare, innovare hanno sempre spaventato l’uomo, come testimonia la storia delle invenzioni. Di fronte al loro primo apparire, la mente umana impone sospetto, diffidenza; in alcuni casi, addirittura odio e violenza (vandalismo, luddismo).
Le reazioni di tanta parte della nostra società nei confronti della tecnologia derivano perlopiù dalla mancata comprensione delle infinite sfaccettature della tecnologia, ma anche dal fatto che la tecnologia modifica abitudini inveterate, ci costringe a cambiare stile di vita, a rimettere in discussione tempi e ritmi. Sembra proprio che l’uomo sia una creatura abitudinaria, anche se le abitudini a cui si aggrappa sono deleterie, rischiose o sorpassate dai tempi. E per difenderle, è disposto persino a falsificare, distorcere o esagerare i presunti rischi della nuova tecnologia.
Così, nel 1830, in Inghilterra, il neonato treno fu visto come un pericolo per gli uomini e la società. Un atto di superbia, che osava sfidare le velocità fino allora consentire (superava le 25 miglia l’ora!). Il fumo e i lapilli sprigionati dalla macchina a vapore ricordavano le fiamme dell’inferno. Gli allevatori scrivevano ai giornali che le loro vacche erano terrorizzate e non davano più latte. Cocchieri e postiglioni temevano che il treno avrebbe soppresso il servizio postale e il trasporto di passeggeri in diligenza. Perfino gli intellettuali dell’epoca condividevano queste paure: paure del mondo che cambiava e si trasformava; paura di tradizioni e stili di vita che tramontavano
Anche l’invenzione del cinema scatenò reazioni bizzarre (almeno dal nostro punto di vista). Si racconta (ma l’episodio potrebbe non essere vero) che quando fu proiettato L’arrivée d’un train en la gare de la Ciotat (1895) dei fratelli Lumière, gli spettatori furono colti dal panico nel momento in cui le immagini mostrarono un treno che giungeva lentamente in stazione. Ancora oggi il cinema e la televisione sono additati come facilitatori di comportamenti devianti, soprattutto fra i giovani.
Negli anni Cinquanta, i fumetti divennero per lo psichiatra Fredric Wertham (1895-1981) il flagello della gioventù, la causa principale, e in alcuni casi esclusiva, della delinquenza giovanile. Oggi i timori di Wertham appaiono superati, ma il loro posto è stato preso dai videogiochi, che sono percepiti come altrettanto, se non più, diabolici.
Indietro nel tempo – gli anni Venti – la radio era sospettata di diffondere onde in grado di causare terremoti e siccità. Come ricorda Errico Buonanno:
La radio si stava diffondendo. Improvvisamente, l’uomo scopriva che in aria correvano onde invisibili capaci di attraversare i muri e i corpi delle persone. E se quelle onde sfuggivano al nostro controllo, non potevano che terrorizzare. Era successo anni prima con il treno che, fin dalla sua inaugurazione nel 1830 in Inghilterra, aveva scatenato le proteste degli allevatori, convinti che le loro mucche non avrebbero dato più latte, nonché i timori di presunti esperti che assicuravano che l’eccessiva velocità avrebbe ucciso i passeggeri. Ed era successo per l’elettricità, che i giornali statunitensi descrivevano come una morte strisciante pronta a entrare nelle abitazioni. In tempi diversi, le stesse identiche dicerie si sono spostate sul famigerato 5G o sul Wi-Fi, che dalla sua invenzione scatenò voci di corridoio spasmodiche: le onde elettromagnetiche della rete internet erano cancerogene? Facevano ammalare i bambini? Provocavano il surriscaldamento del sistema nervoso e circolatorio? (Errico Buonanno, 2021, Non ce lo dicono. Teoria e tecnica dei complotti dagli Illuminati di baviera al Covid-19, UTET, Torino, pp. 148-149).
Già! Il 5G. E il virus. E perché non tutti e due insieme? Non a caso qualcuno ha visto nel primo la causa del secondo. Ancora una volta, il sospetto nei confronti del nuovo induce a credere che il nuovo generi catastrofi. Anche virali.
Il vocabolario ci dice che esistono due sostantivi per questo atteggiamento: neofobia e misoneismo (paura e odio nei confronti di ciò che è nuovo). In realtà, non si tratta necessariamente di qualcosa di patologico. Anzi, si tratta di una reazione innata. A tutti noi piace la routine, l’usuale, il sempre-lo-stesso. Tutti noi siamo turbati da ciò che è sconosciuto. Il problema è quando la neofobia diventa pregiudizio ostinato, chiusura all’esterno, identificazione del male nel nuovo. Una delle conseguenze possibili è la formulazione di complotti senza alcun fondamento: dal treno inventato per eliminare contadini e allevatori al 5G ideato per ridurre la popolazione terrestre. O farsi veicolo di virus.
Eppure, raramente teniamo conto del fatto che la neofobia è un meccanismo insito nella nostra mente. Con la conseguenza che, quando ci sentiamo neofobi, non mettiamo in discussione noi stessi, ma l’oggetto che suscita la nostra neofobia. E in questo modo perpetuiamo i nostri errori.
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